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sabato 15 gennaio 2022

LE SETTE AQUILE

957_LE SETTE AQUILE (Lilac Time); Stati Uniti1927; Regia di George Fitzmaurice e Frank Lloyd.

C’è qualcosa che, al cinema, possa competere con il fascino delle battaglie aeree nei cieli della Prima Guerra Mondiale? Certo, Collen Moore. La piccola ma esuberante attrice americana, qui nei panni di Jeannine, una giovanissima ragazza francese, sfrutta a dovere i limiti insiti nel cinema muto, occupando con la sua verve, la sua capacità espressiva, i suoi splendidi occhioni e il delizioso musetto, gli spazi lasciati liberi dalla mancanza dei dialoghi. Prova ne è che le didascalie, nel film, sono davvero poche, considerando che si tratta di un lungometraggio che, tutto sommato ha una storia da raccontare e, al netto dei dogfights acrobatici dei caccia biplano, non è una sequela di gag umoristiche come nelle comiche. Perché, al di là dell’aspetto bellico, Le sette aquile ha i toni di una commedia umoristica ma la forza dell’interpretazione della Moore è che, nonostante la ragazza ricorra molto spesso alla mimica, anche fisica e non solo facciale, di molti comici del cinema muto, ha una bellezza che tiene sempre viva la traccia romantico-sentimentale del racconto. Per rendersi conto della maiuscola prestazione attoriale di Collen basta considerare come il suo partner sullo schermo, nientemeno che Gary Cooper nel ruolo del capitano Philip Blythe, è totalmente surclassato dal carisma dell’attrice. Certo, Coop non era ancora un divo di Hollywood affermato ma era comunque in piena rampa di lancio, tanto che proprio Le sette aquile è considerato tra i film da cui partì la sua corsa verso l’olimpo delle star. L’attore statunitense era tra l’altro particolarmente abituato a interpretare il ruolo di pilota di caccia della Grande Guerra: dopo la parte avuta in Ali (1927, di William A. Wellman) aveva ottenuto il ruolo di protagonista ne La squadriglia degli eroi (1928, dello stesso Wellman), film andato malauguratamente perduto. Onestamente, George Fitzmaurice in regia non valeva certo un asso come Wellman, e nemmeno Frank Lloyd chiamato a girare alcune sequenze; tuttavia Le sette aquile è un bel film e, per essere un film sulla guerra aerea del primo conflitto mondiale, non si basa esclusivamente sulle battaglie acrobatiche dei velivoli, sul cameratismo tra i pilori, o sull’incombente presenza della morte, com’era tipico di altri prodotti simili. Della travolgente prestazione sullo schermo di Collen Moore si è detto ma va anche ricordato che, pur essendo un film muto, Le sette aquile fu uno dei primi ad avere un accompagnamento sonoro già pianificato in sede di produzione. Inoltre, la traccia romantica, sostenuta dal motto l’amore non muore mai, si dipana tra mille peripezie con la Moore che non molla la presa e solo quando anche un delizioso mastino come lei sembra arrendersi, la trama le rivela il lieto fine. Ambientazione affascinante, racconto ben tracciato, interpreti all’altezza e una spruzzata di innovazione tecnica: al cinema basta e avanza.




Colleen Moore





giovedì 13 gennaio 2022

ZEPPELIN

956_ZEPPELIN ; Regno Unito1971; Regia di Etienne Périer.

Ci sono argomenti narrativi talmente entusiasmanti che si pensa, erroneamente, possano giustificare da soli una storia da raccontare. Dove per argomenti si può intendere eventi, personaggi, miti, popoli, animali, perfino macchine; quello che si vuole insomma. Ad esempio anche un tipo di dirigibile della Prima Guerra Mondiale. I famosi Zeppelin tedeschi erano macchine meravigliose e terrificanti insieme: esattamente come quello protagonista del film di Étienne Périer che prende il nome da questa straordinaria aeronave. In sostanza l’errore del regista belga è grave, perché non sfrutta a dovere la potenzialità che gli capita tra le mani; se alla fine se la cava è perché comunque Zeppelin, il suo film del 1971, è comunque divertente ed interessante. Ma poteva e anzi doveva essere di più. L’impressione è che Périer si concentri prevalentemente sulle sequenze che vedono in scena il maestoso dirigibile, che sono effettivamente spettacolari, ma non costruisca un film adeguato a supporto di quello che è e sarebbe rimasto comunque il motivo di interesse principale. Ma che da solo non basta a far davvero decollare il film. In un certo senso l’impiego di Elke Sommer conferma questo modo di operare da parte del regista: vero è che la Sommer forse aveva già visto sfumare il suo momento di gloria, non colto pienamente dopo l’exploit di Uno sparo nel buio (1964, regia di Blake Edwards). Ma la sua presenza in Zeppelin appare davvero solo legata al suo aspetto e se è vero che a livello scenico è l’unica a reggere il paragone col fascino tecnologico del dirigibile, non vi risulta troppo compatibile. Insomma, evidentemente tra gli ingredienti della storia era richiesta una figura femminile e si è preso la Sommer senza curarsi se poi il suo ruolo potesse avere uno sviluppo inerente al soggetto. Con una bambola come Elke che scorazza per il dirigibile, peraltro nel ruolo di una assai poco credibile scienziata, l’unica scena un po’ pepata è un bacio rubato nella cabina della radiotrasmittente. Tanto valeva prendere un’attrice meno avvenente, a questa stregua. La bellezza e il fascino di Elke finiscono infatti per creare inevitabilmente un’aspettativa nello spettatore che poi Zeppelin lascia delusa. 


Ed è lo stesso discorso che si può fare per il dirigibile stesso. Il copione senza nerbo imbastito dagli autori è il punto debole dell’operazione sebbene l’incipit con le scene dell’attacco sopra a Londra sembrava dare buone speranze; poi la storia si complica un po’ con il protagonista Geoffrey Richter-Douglas (Michael York) che viene rimpallato tra inglesi e tedeschi. Siamo nel 1915, in piena Guerra Mondiale; il tenente dell’aviazione Geoffrey è inglese ma ha sangue tedesco. Forse temendo un suo tradimento, l’esercito di sua maestà non lo ha ancora impiegato in nessun ruolo di valore. Almeno finché il servizio segreto inglese opta per spedirlo in Germania: facendo leva sulla sua origine tedesca Geoffrey otterrà un incarico nell’esercito imperiale mentre continuerà a servire l’Inghilterra nello scomodo ruolo di spia. In Germania sono ovviamente sospettosi nei suoi confronti ma provano subito a sfruttare la sua conoscenza del suolo britannico per una pericolosa missione in Scozia. Il volo inaugurale dell’EZ 36, l’enorme dirigibile vero protagonista del film, è presto trasformato in un’incursione che mira a distruggere l’originale Magna Carta inglese, la Carta Costituzionale del Regno Unito. 

L’idea è piuttosto bizzarra ma intendeva mettere in rilievo come l’operato degli Zeppelin sui cieli inglesi avesse un impatto più psicologico che concreto: il fatto che i dirigibili volassero a quote che non erano raggiungibili dai caccia alleati li teneva fuori portata da qualunque controffensiva con grande disappunto per i britannici. Inoltre, per abbattere gli zeppelin, occorrevano proiettili incendiarli; diversamente il dirigibile, una volta forato, perdeva semplicemente un po’ di pressione ma non in modo così rilevante. Questo era ulteriormente fonte di frustrazione per gli inglesi a cui non restava di subire le incursioni tedesche senza poter replicare almeno fino al completamento dello sviluppo costruttivo di nuovi proiettili incendiari adeguati. La distruzione della Magna Carta sarebbe stata un’ulteriore umiliazione che avrebbe, secondo i piani tedeschi del film, minato in modo irrimediabile il morale inglese. 

Come prevedibile, essendo il film  una produzione appunto inglese, questi propositi rimarranno tali e l’operazione finirà in un fiasco. Anzi in un falò: concreta fine del dirigibile e anche efficace metafora delle risorse investite nel film a fronte del penoso risultato al botteghino. Il finale con Geoffrey ed Erika, il personaggio della Sommer, che riparano nella neutrale Olanda con il destino di rimanervi fino alla fine della guerra, sembra inoltre un tentativo un po’ maldestro degli autori di prendere le distanze dal conflitto. Non a caso il protagonista è di sangue sia inglese che tedesco ed è conteso dalle due potenze nemiche, una posizione in bilico sin dall’inizio, sebbene rimanga sempre fedele alla corona. La scelta di un esilio forzato e pacifico in Olanda sembra però simbolica: e, anche in questo caso, l’idea di non adottare una soluzione narrativa forte tradisce gli autori. Insomma, nemmeno il finale convince, nonostante si possa ipotizzare che, ad allietare il soggiorno inglese di Geoffrey, ci sia la presenza della bella Elke. Ma, in sede di commento conclusivo, non si può andare oltre ad un buon per lui.





Elke Sommer 




martedì 11 gennaio 2022

LA SQUADRIGLIA LAFAYETTE

955_LA SQUADRIGLIA LAFAYETTE (Lafayette Escadrille); Stati Uniti1958; Regia di William A.Wellman.

Se consideriamo La Squadriglia Lafayette come congedo cinematografico di William A. Wellman, che non dirigerà altri film dopo questo, allora non possiamo far altro che scattare sull’attenti per l’ultimo meritato saluto ad uno dei grandi della Hollywood del tempo che fu. Del resto il tema scelto dal regista americano aveva molto di autobiografico, avendo il nostro prestato servizio come pilota nella gloriosa e storica Pattuglia Lafayette durante la Prima Guerra Mondiale. E tra l’altro, l’argomento aeronautico della Grande Guerra aveva anche una sorta di matrice metalinguistica, per Wellman, riportandolo ai fasti del suo primo grande successo, Ali del 1927. E certamente nel 1958, anche se ormai avviato al suo viale del tramonto artistico, Wellman sapeva ancora dirigere un film, soprattutto di un argomento che conosceva così bene. Però è onesto riconoscere che La Squadriglia Lafayette, se preso per quello che è, non è tutta questa gran cosa. E’ appunto un film che si può guardare con affetto e riconoscenza per il suo autore, questo sì. In quest’ottica possiamo provare anche a sorridere di gusto alle tante, forse troppe, scenette comiche che, ad essere sinceri, sembrano appunto esagerate. Così come sembra un po’ stucchevole la storiella d’amore tra Thad Walker (Tab Hunter), un aspirante pilota americano, e Renée (Etchika Choureau). La Choureau è deliziosa, d’accordo, ma questa traccia sentimentale non ha alcuna struttura narrativa o emotiva. E poi Thad, il protagonista, sembra davvero un po’ troppo stolto, arrivando a picchiare un ufficiale francese certamente indisponente ma che un normale eroe hollywoodiano avrebbe ignorato senza neppure alzare un sopracciglio. Il baldanzoso allievo pilota arriva addirittura a disertare, in seguito a questo banale episodio, con la storia che sembra davvero aver perso gli abituali criteri di un normale racconto che possa dirsi credibile e avvincente. Naturalmente tutto quanto poi rientra nel seminato narrativo e Thad può infine partecipare alle gloriose battaglie nei cieli di Francia. E, se ripensiamo a La Squadriglia Lafayette come ultimo saluto a William A. Wellman, allora possiamo considerate rientrate anche le nostre, tante, troppe, perplessità. 




Etchika Choreau




domenica 9 gennaio 2022

L'EQUIPAGGIO

954_L'EQUIPAGGIO (L'équipage); Francia, 1935; Regia di Anatole Litvak.

Ormai sembra che il racconto ci abbia detto tutto: su un letto di un ospedale militare il tenente Maury (Charles Vanel) è assistito dalla bella moglie Hélèn (una fulgida Annabella), che ha un’aria comprensibilmente mesta. Il suo amato Jean (Jean-Pierre Aumont) è morto ed ora la sua vita le pare non aver più senso; certo, il marito è un brav’uomo ma al cuor non si comanda (specie nei film romantici) e, qualche tempo prima, si era inopinatamente innamorata di quel giovane aviatore che stava per andare in guerra; e si trattava della Grande Guerra, mica una guerra qualsiasi. Alla stazione, quando Jean era in procinto di partire per il fronte, il giorno dopo averla conosciuta, lei aveva chiesto in quale squadriglia fosse destinato. Alla risposta del cadetto, un moto di sconcerto le aveva attraversato il viso. Anatole Litvak, il regista di L’equipaggio, era un maestro della regia e gli bastano pochi minuti per darci gli strumenti per poter comprendere quanto poi accadrà. Jean si unisce così al 37° stormo senza sapere che in quella squadriglia è arruolato il marito di quella ragazza che crede si chiami Denise ma che è in realtà Hélèn, la consorte del tenente Maury. Il quale ha avuto qualche colpo di sfortuna ed è ora additato come menagramo dagli altri aviatori. In realtà il tenente è un ottimo pilota e se i suoi compagni di volo, gli osservatori, erano morti nei combattimenti aerei, si trattava di semplici casi del destino. Il tema della fortuna, in un ambito in cui la morte era una presenza ossessiva come nell’aviazione della Prima Guerra Mondiale, era molto sentito dai membri della squadriglia e permetteva di affrontare con un certo fatalismo un’attività tanto pericolosa. 

E’ un argomento che si è già visto, in questo tipo di film, sebbene raramente in modo così ben articolato: in L’equipaggio è anche mostrato uno degli effetti negativi di questo atteggiamento, con la ricerca di un capro espiatorio a cui addossare tutte le sfortune del caso. L’arrivo di Jean, con la sua indole in buona fede, permette di spezzare questo meccanismo: la sua scelta di volare con Maury, fin lì evitato da tutti, finisce per ribaltare completamente la situazione. Maury può finalmente farsi valere e in coppia con Jean presto diventano l’equipaggio di riferimento della squadriglia. L’onestà di fondo di Jean è quindi certificata dal suo atteggiamento nei confronti del più anziano pilota, soprattutto quando la fama di questi era completamente negativa. 

Questi dettagli psicologici sono importanti perché, forti della scena dell’incipit con il volto dell’attrice Annabella che si era turbato all’improvviso, siamo in grado di comprendere subito che c’è un inghippo tra i due uomini, già dal loro primo incontro. I due parlano delle rispettive donne, Hélèn moglie di Maury e Denise la ragazza incontrata solo il giorno prima della partenza da Jean: qualcosa ci dice che, inevitabilmente, si tratti della stessa persona. Siamo nel classico triangolo melodrammatico in cui i due uomini sono però scagionati da qualunque eventuale critica di scorrettezza. Quando la doppia identità di Hélèn/Denise viene scoperta da Jean, il giovane reagisce malamente, allontanandosi da Maury e cercando di fare la stessa cosa nei confronti della donna. La quale però ormai ha perso la testa per il ragazzo e non demorde; Maury, nel frattempo, non ci si raccapezza più. Il compagno di equipaggio, con cui aveva un’intesa perfetta, ora lo evita come la peste; e se la donna fin lì aveva mantenuto un profilo ordinario nelle comunicazioni per lettera, ora se la ritrovava addirittura al fronte! In realtà Hélèn/Denise è andata a trovare il marito perché Jean non rispondeva alle sue lettere, ovviamente, ma di questo il povero Maury non sospetta ancora nulla. L’atteggiamento della donna è evidentemente discutibile: lei è la moglie di Maury quando si innamora di Jean ed è questo il punto critico della vicenda. Ma già questa stringata definizione contiene la risposta a questo problema e, in un certo senso, motiva, se non giustifica, anche il bieco ricatto a cui Hélèn/Denise sottopone Jean: se il giovane non lascia il combattimento per divenire istruttore, rivelerà infatti la tresca a suo marito. 


La donna non solo è terrorizzata dall’idea che Jean possa morire, ma è anche indispettita dal rapporto che lega il ragazzo a Maury; un rapporto che le sembra sia dal ragazzo ritenuto superiore all’amore che prova per lei. Addirittura Jean le sembra anteporre il sentimento corporativo per i propri compagni con cui rischia la vita, alle sue questioni amorose. Qui, va precisato, sia Litvak che Annabella sono molto bravi nella descrizione dei sentimenti della protagonista. A contrariare la donna è quindi un motivo strettamente egoistico: sia Jean, ma prima di lui perfino Maury, la mettono in secondo piano rispetto al loro dovere patriottico. E il ricatto che inscena Hélèn/Denise è un moto di disappunto che deriva da questa amara consapevolezza. Eppure, come detto, è la primissima descrizione dei fatti che contiene la soluzione: Hélèn/Denise si innamora di Jean. 

A fronte di questo sentimento, potentissimo e, ancora una volta, ben interpretato sullo schermo dall’attrice francese, tutto il resto scivola in secondo piano e non può assolutamente contare niente. A nulla, al suo confronto, valgono i valori come l’amicizia, il patriottismo, il senso del dovere: l’amore è una forza superiore. In ogni caso, alla fine anche un bonaccione come Maury comprende e, nonostante Jean avesse negato fino all’ultimo, la verità è venuta a galla. E senza bisogno di parole, a riprova della maestria di Litvak alla regia: il giovane è morto stringendo tra le mani le foto dell’amata Denise e Maury, vedendo l’immagine di sua moglie con un nome diverso, ha tacitamente compreso tutto. Con la dissoluzione del triangolo amoroso e il chiarimento dei ruoli, la storia sembra quindi esaurita. Invece manca ancora il passaggio più bello, più intenso. 

Come detto, siamo con Maury e Hélèn in un ospedale militare, quando arriva il piccolo George (Serge Grave) fratello di Jean: alla sua sorpresa nel vedere la donna, fa eco lo sgomento di questa che teme di essere tradita e quindi si apparta leggermente. Il ragazzino vuole salutare il compagno d’armi tanto apprezzato dal fratello e, cosa non secondaria, vuol sapere se Jean in punto di morte ha avuto un pensiero per lui e per la madre. Maury, l’abbiamo capito, è un uomo di cuore e risponde di sì: l’ultimo pensiero di Jean è stato per la sua famiglia. Nel dire queste parole, non si può far a meno di avere un lieve sospetto, del resto sappiamo che è una bugia; l’espressione addolorata di Hélèn, nel sentire queste parole, in questo senso sembra una doppia conferma. Di un certo egoismo che connota l’amore femminile, per cui la ragazza è ferita per non essere stata l’ultimo pensiero di Jean; e poi, forse, che Maury sia meno bonaccione del previsto e abbia appena ferito consapevolmente la consorte per vendicarsi del tradimento. Il tutto con alcune semplici parole di circostanza tra un reduce di guerra e il fratello del commilitone caduto: ma la questione non è affatto chiusa. Hélèn, mentre congeda George, trova la maniera di spiegare al ragazzo la situazione e la profonda motivazione al suo comportamento: l’amore. 

Il ragazzo, conoscendo la sincerità dei sentimenti del fratello, comprende quindi anche quella della donna nonostante le apparenze. Ma, la sorpresa, in questo senso, deve ancora arrivare: l’amore è in effetti il motore dell’ultima svolta romantica del racconto, ma l'ultima parola in questo senso spetta all’amore di Maury per Hélèn. L’uomo, con malcelata nonchalance, le rivela di aver detto al ragazzo una pietosa bugia: Jean è morto stringendo tra le mani la foto della sua ragazza, Denise. Nelle parole del veterano, traspare la comprensione per la moglie, per i suoi sinceri sentimenti di cui non può essere accusata: mentre Maury ha parole di commiserazione per Denise che sono però rivolte ad Hélèn; la donna, commossa, prega il marito di lasciar perdere e di cominciare a pensare a sé stesso. Il sentimentalismo gronda copioso ma assai ben gestito da Litvak che, in ogni caso, fa aprire la finestra per alleggerire un po’ l’atmosfera e far defluire la commozione.
Apriamola anche noi.


Annabella 


venerdì 7 gennaio 2022

MISSIONE ALL'ALBA

953_MISSIONE ALL'ALBA (The Dawn Patrol); Stati Uniti, 1938; Regia di Edmund Goulding.

Un remake nel 1938 di La Squadriglia dell’Aurora, che era del ‘30, suscita qualche perplessità, almeno in linea di principio. Per quanto sia evidente che Missione all’alba di Edmund Goulding sia comunque un valido film bellico, questo è fuori discussione. E se poi lasciamo perdere del tutto l’originale di Howard Hawks, quello di Goulding potrebbe ambire ad essere un film eccellente, sia chiaro. L’aspetto spettacolare è perfettamente integrato a quello più profondo della responsabilità del comando, quest’ultimo già elemento portante del racconto The flight commander di John Monk Saunders all’origine di entrambi i film. Le perplessità nascono dal fatto che gli aspetti intimi e psicologici del tema erano già stati sviluppati alla perfezione da Hawks, un vero maestro della settima arte; difficile pensare di poter far meglio. Oltretutto non erano nemmeno passati troppi anni dall’uscita de La Squadriglia dell’Aurora tanto che per Missione all’alba fu possibile riutilizzare alcune scene acrobatiche degli aeroplani. Niente di grave, per carità; ma allora se, quasi una decina di anni dopo, non si è in grado di migliorare le scene tecnicamente più difficili, almeno da un punto di vista artistico, decadono un po’ i presupposti stessi per la realizzazione di un remake. Al netto di queste spontanee perplessità che possono sorgere oggi, la verità è che i produttori della Warner Bros sapevano il fatto loro tanto che Missione all’alba ottenne un buon successo al botteghino ed è, in effetti, una versione significativamente aggiornata anche in campo artistico dell’originale. Il pretesto di riproporre nelle sale un film bellico nel 1938 era data dai venti di guerra che soffiavano già in maniera sinistra; il tema eticamente alto, il peso del comando, il rispetto per il nemico, l’assurdità della guerra, interpretavano alla perfezione l’angoscia della gente che certo non era esaltata di rificcarsi in un altro incubo mondiale. Goulding, che pare non gradisse particolarmente i rifacimenti, ebbe un approccio assai umile, sfruttando lo schema narrativo della sceneggiatura di Hawks che in questo era un vero mago. 

Così anche su Missione all’alba grava una cappa di tensione costantemente alimentata dal ripetersi delle stesse tragiche situazioni e le splendide azioni acrobatiche degli aerei servono giusto per compensare, sorta di valvola di sfogo per la claustrofobica atmosfera che si vive nel comando del 59simo squadrone. La conta dei veicoli mancanti ad ogni rientro; la telefonata dal comando che incarica i nostri di una nuova missione impossibile; l’arrivo dei rimpiazzi, inconsapevolmente ed assurdamente entusiasti; la comunicazione alla squadriglia degli ordini per il giorno successivo, con il reparto allineato. Il ripetersi di queste situazioni è ossessivo e prevarica anche le personalità dei protagonisti che si trovano a cambiare ruolo all’interno del film mantenendosi quasi più fedeli alle caratteristiche di questo piuttosto che alle proprie individuali. 

Così il capitano Court (Errol Flynn) è dapprima il polemico caposquadriglia che accusa il suo comandante, il maggiore Brand (Basil Rathbone) di mandare deliberatamente i suoi uomini al macello e, quando questi è trasferito, si trova costretto dalla gerarchia militare nello stesso odioso ruolo fino a prima aspramente criticato. E anche il tenente Scott (David Niven) compie il suo percorso, da comprensiva spalla di Court col compito di alleggerire l’umore della squadriglia, a furioso accusatore del suo superiore quando questi ne manda il fratello Donnie (Morton Lowry) incontro a morte praticamente certa. Da parte sua il citato Brand, se in avvio è torvo e scostante, una volta sollevato dalla responsabilità del comando in una situazione tanto tragica, diviene persona perfino serena. A fronte di queste figure che si scambiano di ruolo, quasi a fare da riferimento per enfatizzarne la mutevolezza di carattere, troviamo il tenente Phipps (Donald Crisp) e i sottoufficiali addetti alle mansioni secondarie e di servizio che rimangono una costante per tutto il lungometraggio. Detto che tutto ciò si era già visto in La squadriglia dell’aurora, si può però notare come Missione all’alba marchi una netta differenza almeno agli occhi del pubblico del 1938. 

Errol Flynn era già Errol Flynn e nessuno dei bravissimi interpreti del film di Hawks poteva competere con la sua fama in tema di film d’azione. A fianco a lui, David Niven era in piena rampa di lancio e Basil Rathbone e Donald Crisp erano attori già di solida reputazione; insomma, questo era un cast di altissimo livello. Da un punto di vista tecnico, poi, Goulding sapeva il fatto suo e il seguire le orme di Hawks ne è una evidente dimostrazione. Inoltre, se è vero che furono utilizzate molte scene aeronautiche dell’edizione del 1930, va detto che ne furono aggiunte altre girate con buona perizia. Inoltre, aspetto non secondario, se Hawks, al tempo alle prime armi col sonoro, si era affidato per questo alle canzoni cantate dagli aviatori che cercavano di esorcizzare la paura della morte, Missione all’alba non rinnega questa scelta ma può contare anche sull’accompagnamento costante della colonna musicale di un califfo come Max Steiner. Insomma, a conti fatti, possiamo deporre le nostre perplessità per il prossimo remake che ci possa sembrare inutile se non inopportuno: Missione all’alba non lo è.