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giovedì 21 agosto 2025

MONTE CARLO (1986)

1717_MONTE CARLO , Stati Uniti 1986. Regia di Anthony Page 

Il buon riscontro in termini di audience della miniserie Peccati confermò il momento d’oro di Joan Collins, con il successo di Dynasty e la popolarità di Alexis Colby che non accennavano a cedere di un millimetro. La CBS, la rete che aveva già prodotto Peccati, voleva battere il ferro finché caldo e imbastì un’altra miniserie abbastanza «glamour» per sfruttare al meglio la verve della Collins, che si era ormai eretta a icona degli anni Ottanta. Stando al sito The Joan Collins Archive [sito web, joancollinsarchive.blogspot.com, pagina web https://joancollinsarchive.blogspot.com/search?q=monte+carlo, visitato l’ultima volta il 9 aprile 2025], in realtà, non è che l’attrice avesse poi tutta questa fretta, vuoi per evitare di sovraesporsi mediaticamente, vuoi per non rischiare di realizzare un lavoro poco curato. Nonostante il budget di 9 milioni di dollari [almeno stando al The New York Times, pagina web https://www.nytimes.com/1986/11/07/arts/cbs-offers-monte-carlo-starring-joan-collins.html, visitata l’ultima volta il 9 aprile 2025] e le opportune modifiche apportate al romanzo omonimo di Stephen Shephard, su cui si basa il soggetto, alla resa dei conti Monte Carlo finisce per confermare i timori dell’attrice inglese. Intendiamoci: se lo si prende come sorta di capsula del tempo per fare un salto negli Eighties, caratteristica che condivide con Sins, Dynasty e altri prodotti simili, allora quello di Anthony Page può essere considerato un piacevole diversivo. C’è una robusta storia di intrighi e spionaggio, ambientata nel neutrale Principato di Monaco durante la Seconda Guerra Mondiale, qualche buona scena d’azione, l’attacco dei caccia sulla spiaggia durante un party mondano e alcuni passaggi in montaggio alternato che alimentano adeguatamente la suspense. Poi, naturalmente, ci sono gli interpreti tra cui spicca, ça va sans dir, Joan –53 anni di bellezza– nei panni della cantante russa Katrina Petrovna; sebbene si debbano ricordare almeno Malcolm McDowell (è l’irlandese Christopher Quinn), George Hamilton (è lo scrittore americano Harry Price, che avrà una storia d’amore con la Petrova) e Peter Vaughan (è Pabst, il cattivone tedesco della Gestapo). La Petrovna è una agente segreto al soldo degli inglesi: sullo schermo, una spia russa in terra francese –o quasi, trattandosi di Montecarlo– rievoca inevitabilmente la Ninotchka del maestro Lubitsch [Ninotchka, Ernst Lubitsch, 1939] interpretata dalla Garbo. Peraltro, è inutile ricordare che il rimando più evidente in materia, per quel che riguarda la Diva svedese è, naturalmente, il ruolo di spia fatale per antonomasia, Mata Hari [Mata Hari, George Fitzmaurice, 1931]. La Collins, sempre stando al citato The Joan Collins Archive, disse tuttavia di ispirarsi a Marlene Dietrich, effettivamente protagonista di un film dallo stesso titolo della miniserie tv di Page [Montecarlo, Samuel A. Taylor, 1957] oltre che adorabile agente segreto in Disonorata [Dishonored, Josef von Sternberg, 1931]. Ed è proprio in questo ambito che Monte Carlo, fondando tutte le sue fortune sulla figura di Joan Collins, non riesce a vincere la sua scommessa. Come accennato, Monte Carlo non è infatti un capolavoro del piccolo schermo ma, per la precisione, nemmeno un prodotto orribile, noioso o inutile: il problema è altrove. Ma se questo «problema» risiede nella performance della protagonista dell’opera, questo non significa necessariamente che la Collins ci faccia una pessima figura. Joan è ancora bellissima, si muove con disinvoltura nei dorati ambienti monegaschi sfoggiando una serie sterminata di abiti diversi tra loro, vezzo narcisistico dell’attrice ma, al contempo, volendo, anche plausibili nell’ottica di soddisfare le esigenze narrative dell’avventuroso copione. Tuttavia, quello che non convince è il tentativo di innestare il pacchiano glamour anni 80, qui al suo vertice assoluto, con lo stile elegante e sospeso dell’epoca. Ad essere onesti, quando la serie venne trasmessa negli Stati Uniti, ci fu chi non guardò troppo per il sottile, valga per tutti i severi censori del film il critico John J. O’Connor del The New York Times che definì il film “sciocco”. [The New York Times, pagina web https://www.nytimes.com/1986/11/07/arts/cbs-offers-monte-carlo-starring-joan-collins.html, visitata l’ultima volta il 9 aprile 2025]. Perfino più tranciante il giudizio di O’Connor su Joan Collins: “Miss Collins (…) sembra aver finalmente raggiunto la fase della carriera in cui sembra totalmente irreale. È una fotografia aerografata che cammina. La star è convinta che i suoi fan vogliano solo avventure romantiche e belle persone in abiti splendidi. Potrebbe avere ragione. 

Mentre alle attrici che la circondano non è mai permesso di sembrare più che decisamente scialbe, lei naviga attraverso Monte Carlo in più di tre dozzine di cambi di costume, fermandosi di tanto in tanto per aggiornare la trama. I produttori esecutivi di questo esercizio di vanità sono Miss Collins e Peter Holm, suo marito”. [Ibidem]. Critica assai severa che potrebbe anche essere veritiera, se non completamente, almeno in parte; è evidente che l’attrice inglese abbia avuto un ruolo significativo nella confezione formale dell’opera, essendone la star e la coproduttrice, e che si sia lasciata condizionare dal successo finalmente ottenuto grazie a Dynasty. Tuttavia, in sé, Monte Carlo potrebbe anche andare, se non fosse che, per soggetto, ambientazione e, soprattutto, palesi rimandi alle dive dell’epoca, cerchi un confronto che poi non riesce assolutamente a reggere. La questione non è se Joan Collins sia o non sia un’attrice del calibro della Dietrich o della Garbo; anzi, si può dire che, almeno nel proprio ambito, l’interprete inglese abbia guadagnato sul campo i galloni per stare nella medesima Hall of Fame delle due citate illustri colleghe. Quello che non convince è che Joan, pur avendo interpretato numerose figure di donna –dalla ragazzaccia dei primi crime movie, alla donna emancipata ma cinica e disillusa dei film dei Settanta– sembra essersi incagliata nel ruolo di Alexis. E se Mrs. Colby è perfettamente funzionale negli scandali sensazionalistici di Dynasty, non lo è nel modo più assoluto in quello che è da sempre rappresentato come il rarefatto mondo delle ambigue e fatali spie. Quelle donne bellissime avevano spesso qualche elemento androgino –a cominciare proprio dalle evocate Garbo e Dietrich– che alimentava la sensazione di inquietudine e indeterminatezza di ruoli, del resto basilare per trame ricche di personaggi che facevano il doppio quando non il triplo gioco, che lasciava campo ad allusioni esplicite o implicite ad ogni livello. L’esatto opposto della poetica opulente degli Eighties, in cui l’importante era mostrarsi e apparire, e di cui “le tre dozzine di cambi di costume” di cui scrive O’Connor non sono che un esemplare manifesto. 



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martedì 19 agosto 2025

L'ASSASSINO ABITA AL 21

1716_L'ASSASSINO ABITA AL 21 (L'assassin habite... au 21), Francia 1942. Regia di Henri-Georges Clouzot

Dopo le prime sceneggiature, Henri-Georges Clouzot aveva assaporato molto precocemente il gusto della direzione cinematografica, seppure unicamente per tre rifacimenti di film tedeschi destinati al mercato francese. In effetti Clouzot aveva affinato l’arte registica presso lo Studio Babelsberg di Potsdam e nella Germania del tempo aveva avuto modo di apprezzare il cinema di F. W. Murnau e Fritz Lang. I tre filmetti che risalgono ai primi degli anni 30 sono commediole che poco sembrano avere a che fare con la poetica che il regista francese manifesterà nel corso della carriera. Tuttavia, quando Clouzot comincerà a lavorare seriamente nell’ambito cinematografico, ai tempi dell’occupazione nazista di Parigi, per i romanzi da adattare per la Continental Films troviamo quelli di Stanislav-André Steeman, che possono fungere da sorta di ponte tra le prime esperienze «leggere» del regista e i temi che davvero gli staranno a cuore. Inizialmente Clouzot firmò solo la sceneggiatura, adattando il racconto I sei morti dello scrittore belga, per il film L’ultimo dei Sei [Le dernier des six, Georges Lacombe, 1941] ma per il successivo romanzo di Steeman, oltre alla scrittura, ottenne anche la prima vera regia: L’assassino abita al 21 [L’assassin habite… au 21, Henri-Georges Clouzot, 1942]. Se il primo è un interessante giallo reso piccante dai numeri di varietà, L’assassino abita al 21 prova un connubio più impegnativo con la stessa coppia di protagonisti che si muove in bilico tra commedia brillante e thriller. Al centro del racconto ci sono, infatti, l’ispettore Wenceslas Wens (Pierre Fresnay) e la sua compagna, la cantante e soubrette Mila Malou (Suzy Delair), personaggi già visti nel citato L’ultimo dei Sei. Purtroppo, nessuno dei due ha le caratteristiche per reggere la scena per un ruolo tanto delicato: si tratterebbe di essere credibili in un contesto serio, l’indagine poliziesca, tenendo sempre un occhio al piano leggero, sul modello del film L’Uomo ombra [The Thin Man, W. S. Van Dyke 1934]. 

Purtroppo, se Fresnay perde in modo netto il confronto con William Powell, molto peggio fa la Delair paragonata ad una diva come Myrna Loy. La Loy era, anche solo con la sua magnetica presenza, un valore aggiunto alla pellicola, l’attrice francese, al contrario, è una fonte continua di disturbo tanto per le indagini del personaggio del compagno, quanto per lo spettatore. Suzy Delair, probabilmente, neanche aveva la presenza scenica per reggere il ruolo di protagonista e in una situazione delicata come quella di una commedia sofisticata intinta nel giallo, naufraga completamente e mette a rischio l’intera operazione. Per fortuna, nonostante sia alla prima vera e propria regia in autonomia, Clouzot ha già la mano caldissima, su entrambi i versanti, e L’assassino abita al 21 è, in definitiva, più che piacevole. Nell’ambito dell’indagine sulle gesta del terribile monsieur Durand, si intravvede subito la capacità del regista francese di gestire la suspense e gli intrighi gialli, con un colpo di scena finale che risulta inaspettato, ben congeniato e abilmente messo in scena, al punto da sorprendere ancora oggi. Ma il film risulta totalmente spiazzante sul piano dei brillanti dialoghi, a tratti davvero audaci e piccanti, oltre che divertenti al limite dello spassoso. L’unico problema del film, come detto, è rappresentato dall’invadente presenza della Delair, tanto petulante quanto sostanzialmente priva di talento, che si fa ricordare per essere probabilmente la prima donna immortalata dal cinema a schiacciare i punti neri al compagno. A ciascuno i propri meriti.






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domenica 17 agosto 2025

L'ULTIMO DEI SEI

1715_L'ULTIMO DEI SEI (Le Dernier des Six), Francia 1941. Regia di Georges Lacombe

Tratto dal romanzo Le dernier des six di Stanislas-André Steeman e sceneggiato da Henri-Georges Clouzot, L’ultimo dei Sei è un intrigante noir con venature più leggere, diretto da George Lacombe. Il soggetto di Steeman si basa su uno spunto giallo astuto, del resto lo scrittore belga era un vero specialista, e Clouzot, nella sceneggiatura, ne valorizza ulteriormente il testo. Il tono del racconto non è del tutto omogeneo, nonostante l’argomento pesante sia ben rappresentato dal bianco e nero della pellicola, e ci sono delle incursioni di altro tenore che alleggeriscono l’atmosfera. Il protagonista, il commissario Wensceslas Voroboevitch detto Monsieur Wens (Pierre Fresnay), duetta con la compagna Mila Milou (Suzy Delair) portando saltuariamente il film nell’ambito della commedia brillante, per quanto nessuno dei due abbia il carisma necessario ad una simile operazione. Anche perché il corpo del racconto è piuttosto angosciante con il gruppo di amici, i «Sei» a cui si riferisce il titolo, che saranno presi di mira da un misterioso killer. L’incipit è sin da subito utile per capire la sottigliezza del racconto: vediamo questo gruppo di cinque amici in attesa del sesto, di ritorno evidentemente da un evento importante, importante per tutti loro. Dalla tensione emotiva diffusa, dal taglio del narrato, dal contesto ambientale, sembra di essere al cospetto di una gang malavitosa: in realtà sono tutti in attesa di quella che si rivelerà essere una cospicua vincita al gioco che li rende immediatamente ricchi. Forse per una solidarietà che nasce nella fortuna comune, una curiosa forma di assicurazione reciproca, gli amici scelgono di vincolare le loro sorti economiche a vicenda. Decidono quindi di separarsi dandosi appuntamento di lì a cinque anni, per fare il punto della situazione dei rispettivi investimenti. Si tratta, per la verità, di un passaggio narrativo un po’ contorto, ma nel complesso l’attenzione dello spettatore è ben distratta dalla tensione della scena, dai rimandi alle atmosfere noir e dalla sorpresa per la natura dell’attesa, una banale vincita e non qualcosa di illecito. 

Ma, come detto, questa è solo l’introduzione: il corpo del racconto verte sulla progressiva eliminazione dei vari componenti del gruppo che, passati i fatidici cinque anni, stanno ricongiungendosi come si erano accordati di fare. Il primo omicidio sembra una mezza fatalità, con la notizia che Namotte (Raymond Segard) sia stato gettato in fondo al mare durante il viaggio in nave verso il fatidico appuntamento che certo è angosciante, ma non dà più di tanto adito ad ulteriori preoccupazioni. Ma le cose cambiano quando la morte colpisce inesorabilmente Gernicot (Lucien Nat) quindi Tignol (Jean Tissier) e in seguito Gribbe (Georges Rollins) lasciando in vita per il finale i soli Senterre (André Luguet) e Perlonjour (Jean Chevrier). Ormai è chiaro: l’assassino è uno dei Sei che vuole eliminare gli altri cinque per tenere per sé tutto il bottino. Da un punto di vista logico narrativo, i due superstiti devono quindi spartirsi i ruoli di ultima vittima e omicida e oltretutto la loro contrapposizione è enfatizzata dalla rivalità amorosa per la bella Lolita (Michèle Alfa) e dalla differente condizione economica. A questo punto subentra un colpo di scena tutto sommato difficilmente prevedibile, che scombina le carte in tavola sorprendendo lo spettatore tenuto col fiato sospeso fino ad allora. L’ultimo dei Sei è, infatti, un film con una buona tensione, numeri di varietà che interrompono la trama misteriosa a parte: pare, tra l’altro, che il regista Georges Lacombe, si rifiutò di girare un’ulteriore scena in un musical-hall, finendo in disaccordo con lo studio di produzione, la Film Continental. Chissà, forse fu a causa di questa rottura contrattuale che il successivo «noir con venature leggere» tratto da Stanislas-André Steeman verrà affidato alla regia di Henri-Georges Clouzot. 




Michèle Alfa



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venerdì 15 agosto 2025

IL MANGIATORE DI PIETRE

1714_IL MANGIATORE DI PIETRE , Italia, Svizzera 2018. Regia di Nicola Bellucci 

Il mangiatore di pietre è una sorta di opera prima, in quanto è l’esordio nel cinema di finzione di Nicola Bellucci, in precedenza già montatore, direttore della fotografia e regista di apprezzati documentari. Di per sé questo non deve essere motivo di particolare indulgenza, nei confronti di presunte lacune o difetti del suo film, ma considerato le scelte anche coraggiose di Bellucci, si può sospendere il giudizio su ciò che lascia perplessi, almeno fino ad un’eventuale ulteriore prova del regista toscano, e apprezzare quanto di buono c’è ne Il mangiatore di pietre. Dice, a proposito del suo film, lo stesso Nicola Bellucci: “Sono state le forti sensazioni suscitate in me dalla lettura del romanzo di Davide Longo (autore dell’omonimo libro preso a soggetto, NdA) a convincermi di voler realizzare Il mangiatore di pietre. Nella storia del «mangiatore» si rivelano i lati opachi delle cose, la duplicità dell’agire umano che mi affascina e spaventa, e che da tempo volevo cinematograficamente raccontare, arrischiandomi in un territorio affascinante e pericoloso, quello tra romanzo di formazione e film di genere. Il confine, territorio di mezzo, indeterminato e ambiguo: linea reale, convenzionale o culturale, che separa, sempre, ciò che è altro da sé è il luogo simbolico per eccellenza di questo film». [dal sito del Torino Film Festiva, pagina web https://www.torinofilmfest.org/it/36-torino-film-festival/film/il-mangiatore-di-pietre/36184/, visitata l’ultima volta il 7 agosto 2025]. È proprio il senso di indeterminatezza, di vaghezza, che traspare da Il mangiatore di pietre, l’elemento migliore del film di Bellucci. E quindi hanno probabilmente ragione i recensori che si trovano in rete, un po’ scettici nei confronti della struttura gialla dell’intrigo del racconto, che non sembra effettivamente irresistibile. Ed è vero che, soprattutto dopo la prima parte, con il paesaggio montano, grigio, freddo, molto evocativo, che legittima uno sviluppo più robusto del canovaccio di finzione, ci si ritrova poi per le mani una storia che effettivamente rischia di non decollare mai. 

Ma, forse, anche questa perenne stasi, questa sostanziale attesa per qualcosa che non si traduce in nulla di concreto –le indagini della commissario Sonja (Ursina Lardi), la corruzione del maresciallo Boerio (Leonardo Nigro), il ruolo della malavita e del boss Antonio (Peppe Servillo)– è parte di questa ambientazione sospesa. Un film irrisolto che fa di questo la propria cifra stilistica: è accettabile? Lo si è detto, a questo punto si può sospendere il giudizio su questo aspetto, in fondo non si devono avere per forza tutte le risposte, o almeno non subito. In ogni caso: il film ha certo dei pregi, ad esempio la prestazione di Luigi Lo Cascio nel ruolo di Cesare detto il Francese, il «passeur» protagonista, e del cast nel suo complesso. Ed è interessante anche come il racconto si relazioni a questa attività, il «passeur», sorta di traghettatore oltreconfine di clandestini, professione illegale e certamente discutibile in linea di principio. Sergio (Vincenzo Crea), che ci si improvvisa e alla domanda di Cesare sul perché si impicci in simili affari, risponde con una battuta ad effetto: “qualcuno lo deve pur fare”. Una frase da cinema, detta poi da uno sbarbatello alle prime armi, che suona quindi ulteriormente posticcia. Il traffico di esseri umani è sempre da condannare ma occorre anche mettersi nei panni dei migranti, che hanno esigenze e necessità così disperate e lontane anni luce dai regolamenti sanciti dai confini del nostro mondo. Nel caso specifico, poi, ci sono questi disperati immigrati dall’Africa, nascosti in una baita d’alta montagna, in attesa di essere condotti dal passeur incaricato oltreconfine, in Francia. Il problema è che il contrabbandiere in questione è Fausto (Emiliano Audisio), il figlioccio di Cesare, che è appena stato ucciso e sul suo omicidio verte la trama gialla del film. Intanto, però, i poveri migranti rischiano di morire di fame e di freddo. 

E qui subentra la coscienza di Sergio che, a differenza di quanto consigliatogli da Cesare, non chiama i carabinieri ma cerca di salvare questi poveri disgraziati, arrivando anche a rubare, per far loro qualcosa da mangiare. Evidentemente c’è la necessità di ribadire, da parte degli autori, che non è possibile restare dentro i confini della Legge. Diego chiede aiuto a Cesare, che conosce a menadito i passi alpini per farla in barba alle autorità di frontiera, ma il Francese non ne vuole sapere, è appena uscito di galera, era stato beccato ma non aveva tradito i suoi complici, e ora si trova coinvolto in un’altra bega, l’omicidio di Fausto, e tanto gli basta. La vicenda ha altri protagonisti, importanti per la soluzione del giallo, ma quello che conta è che poi, alla fin fine, Cesare darà retta a Sergio. Perché? Ma perché certi lavori qualcuno deve pur farli, che domande. È una motivazione sufficiente? Mah, difficile dirlo. C’è sempre qualcosa di sfuggente, ne Il mangiatore di pietre, come ad esempio nella scenografia, tanto che sembra un film ambientato negli anni 80 se non fosse per l’unica nota stonata rappresentata dagli smartphone. E, forse, è proprio in questa direzione che va cercata la soluzione al quesito che Cesare sottopone alla commissario sul perché la poliziotta non risponda mai al suo cellulare. La donna alla fine risponde al suo smartphone e il presunto mistero si squaglia come neve al sole. Un po’ come una vicenda che racconta di onore, forse malriposto, ma anche di altruismo e di coraggio, che poi si scopre abbia il suo centro in una banale questione di corna. Ma questa è la storia di un «passeur», una storia di confine. 





Ursina Lardi 





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mercoledì 13 agosto 2025

CAPCANA MERCENARILOR

1713_CAPCANA MERCENARILOR , Romania 1981. Regia di Sergiu Nicolaescu

L’aspetto più sorprendente, nel film Capcana Mercenarilor [t.l. La trappola dei mercenari] del prolifico regista Sergiu Nicolaescu, è legato alla matrice storica del film e a come, ancora nel 1918, in alcune remote lande della Romania resistesse una società di tipo medioevale. Stando alla didascalia introduttiva, i fatti narrati da Capcana Mercenarilor sono storici, sebbene siano stati leggermente romanzati e vi sia l’aggiunta di qualche personaggio inventato. Sull’attendibilità di Nicoaescu non dovrebbero esserci troppi dubbi, dal momento che, il regista, fu in seguito importante uomo politico, arrivando persino alla carica di senatore di Romania. In ogni caso, il Massacro di Belis fu effettivamente un grave episodio storicamente avvenuto l’8 novembre 1918 nella Transilvania. La Prima Guerra Mondiale non si era conclusa che già le varie regioni sottomesse all’Impero Austro Ungarico, ormai sconfitto, reclamavano la propria autonomia. La Transilvania era percorsa da differenti moti: c’era la volontà da parte della popolazione di origine rumena di unirsi con la propria madrepatria, ma la presenza ungherese, che aveva governato fino a quel momento, non era ovviamente dello stesso avviso. Pur con qualche comprensibile aggiustamento, la trama di Capcana Mercenarilor può servire per comprendere quanto successe in quei tragici giorni. I riferimenti agli ungheresi, nel film, sono piuttosto vaghi, in quanto, negli anni Ottanta in cui venne prodotto il film, i rispettivi paesi erano alleati sotto nel Patto di Varsavia e si era in piena Guerra Fredda. In ogni caso, nel racconto filmico il colonnello dell’esercito austro-ungarico barone von Görtz (interpretato da Gheorghe Cozorici), incarica il capitano Luca (Mircea Albulescu) di reclutare mercenari per una rappresaglia punitiva nei confronti degli abitanti di un villaggio, accusati ingiustamente di aver incendiato la falegnameria e la riserva di legname del locale castello. Su disposizione del colonnello, verranno uccise quasi cinquanta persone –uomini, donne o bambini indistintamente– una per ogni abitazione del villaggio. 

La notizia giunge al maggiore Andrej (interpretato dallo stesso regista Sergiu Nicolaescu) che organizza a sua volta un manipolo di incursori e si reca al castello per compiere giustizia. Su questa base, grosso modo attendibile storicamente, si intreccia una vicenda sentimentale imbastita nella sceneggiatura con la collaborazione dello stesso regista, vero mattatore del film. La moglie del colonnello, la contessa Ester (Violeta Andrei) ha una tresca con il capitano Luca ma, in passato, è stata amante del maggiore Andrej: adesso affoga i suoi dispiaceri nell’assenzio. Il castello di famiglia è un degno rappresentante delle roccaforti transilvane, il conte Dracula viveva da queste parti, e in qualche passaggio il film richiama questo tipo di suggestioni. In effetti, Nicolaescu forse esagera, perché Capcana mercenarilor, pur essendo sempre godibile, mette troppa carne al fuoco. Oltre all’apparato storico, si va dalle antiche citazioni, «venia nova peccata ciet», traducibile con «il peccato richiama nuovi peccati», che sprona i nobili a non perdonare i propri sudditi, ai tanti rimandi agli spaghetti western. Il richiamo con il cinema “di genere” italiano è funzionale, per quanto la musica dei film leoniani di Ennio Morricone, che riecheggia ogni tanto, lasci più perplessi che convinti, così come l’utilizzo di una carabina Winchester da parte del maggiore Andrej in luogo dell’arma in dotazione. Ma il regista vuole divertirsi e divertire, e lo fa ampiamente capire con i continui riferimenti al gioco delle carte e dei dadi, e, in definitiva, ci riesce anche. Importante per questo sono i variopinti personaggi, tra cui spicca la coppia di mercenari Frank (Amza Pellea) e “il Genovese” (Cornel Girbea). Si tratta di due figure davvero spassose, ma anche valide dal punto di vista dell’azione violenta, per cui in grado di reggere alla grande sia i toni “leggeri” che quelli più serrati. La cosa più interessante del film, unitamente al fondamento storico che è un buono spunto per approfondire gli avvenimenti, è proprio la loro evoluzione. I Nostri sono due individui davvero poco raccomandabili, capaci di cavare con la tenaglia un dente d’oro ad uno sprovveduto commilitone colto assopito durante la guardia. Opportunisti, scaltri, ubriaconi, dediti al gioco, violenti, quando si troveranno messi l’uno contro l’altro non esiteranno a scannarsi o imbrogliarsi. Eppure, nel momento davvero cruciale, entrambi riescono a cavar fuori dalle loro animacce nere un barlume di umanità che gli permetterà di scampare anche stavolta la pelle. Oltre che recuperare un minimo di dignità; che dire, due veri eroi. Perlomeno di cialtronesca simpatia.






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lunedì 11 agosto 2025

EROI PER CASO

1712_EROI PER CASO , Italia 2011. Regia di Alberto Sironi

E’ certamente un pregiudizio, ma accostare Flavio Insinna e Ambra Angiolini (più degli altri del cast) ad un tema delicato e sentito come la Grande Guerra, così, ad orecchio, sembra un azzardo oltre al lecito. Ma Alberto Sironi aveva dato già prova di avere uno speciale intuito, per questo genere di cose, quando aveva scelto Luca Zingaretti come protagonista della fortunata serie Tv Il commissario Montalbano. Pare, addirittura, che Andrea Camilleri, l’autore e creatore del personaggio in questione, non fosse affatto convinto della scelta tanto che sbottò: “Io lo avevo immaginato diverso, ho scritto un'altra cosa!". Come noto, proprio la figura del commissario ben impersonata da Zingaretti è uno dei punti di forza della produzione. E quando vediamo Eroi per caso, film televisivo in due puntate dedicato alla Prima Guerra Mondiale italiana, abbiamo un’ulteriore conferma in tal senso. Perché Insinna, nel ruolo di Cesare Magnozzi, fotografo romano arruolato nel regio esercito, se la cava in modo agevole e anche la Angiolini, a cui la storia regala la parte tragicamente eroica, fa altrettanto. Interessante, e probabilmente funzionale alla riuscita dell’interpretazione dell’Ambra nazionale, la scelta di affibbiarle un personaggio muto, forse ricordando come in Dobermann (1997, di Jan Kounen), Monica Bellucci aveva sciorinato un’interpretazione a suo modo memorabile con un ruolo nella simile condizione. Pare, infatti, che la corretta dizione della lingua italiana non sia tra le prerogative degli interpreti del belpaese; si pensa forse di sfruttare la genuinità della parlata fortemente accentata quando non dialettale ma si tratta di un elemento limitante nel momento in cui la Storia del cinema in Italia è stata forgiata dalla straordinaria abilità dei doppiatori della nostra tradizione. Vedere i nostri attori parlare come il vicino di casa, quando gli interpreti stranieri li abbiamo sempre sentiti scandire un italiano perfetto spesso si rivela un clamoroso autogol. Tuttavia in un contesto come quello della Grande Guerra l’inflessione dialettale è accettabile, ma probabilmente esagerare con le disparate provenienze avrebbe minato la credibilità del racconto. Nel quale abbiamo il Magnozzi che parla romano, Lulù la Belle (Serena Rossi) napoletano, mentre don Silvano (Neri Marcorè) e Piero Vanin (Michele Alhaique) se la cavano con un italiano senza particolari inflessioni e, nel complesso una volta contemplate le classiche comparse che fanno le battute nei dialetti del posto, l’equilibrio generale funziona. La questione linguistica non è secondaria, anzi, è uno dei presupposti alla funzionalità del racconto filmico: spesso la credibilità dei prodotti italiani è infatti minata proprio da dialoghi improbabili. Eroi per caso, pur non essendo certo un capolavoro e nemmeno un film degno di particolare segnalazione, funziona grazie al dosaggio di questi elementi. Insinna scorrazza per il film ma ha, tutto sommato, un certo garbo, una certa discrezione (si veda nelle avances al personaggio della Rossi); Marcorè tiene la barra dritta con professionalità e Alhaique è di supporto. Sul versante femminile la Angiolini lavora sottotraccia (non avendo i dialoghi che ne ostentino l’evidenza) ma proprio per questo risulta particolarmente convincente quando si guadagna i suoi spazi; bene anche la Rossi che gioca un po’ col suo ruolo in modo funzionale. La vicenda è solo un pretesto per vedere questi protagonisti inseriti in un contesto storico infarcito di personaggi giustamente (visto il tenore dell’opera) stereotipati. Il ritmo narrativo c’è e questo è certamente un altro elemento a favore di Sironi che, quindi, se la cava in modo egregio in un’operazione che, come detto forse per pregiudizio, sembrava davvero rischiosa. Ma onore al merito.    


Ambra Angiolini