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sabato 19 luglio 2025

FRATELLI D'ITALIA

1700_FRATELLI D'ITALIA , Italia 1952. Regia di Fausto Saraceni

Ingiustamente relegato in quel limbo dell’anonimato in cui l’intellighenzia italiana del dopoguerra segregò tutti i riferimenti patriottici italiani, Fratelli d’Italia è un onesto film che racconta una fase importante della nostra nazione. Per nazione, letteralmente, si intende quella comunità che ha in comune origine, lingua e storia e, quindi, il fenomeno dell’irredentismo istriano, oltre a non essere campato in aria, appartiene di diritto al nostro vissuto. Era evidente che, nel 1952, a Seconda Guerra Mondiale appena conclusa, la questione fosse spinosa, visto che a liberare l’Italia pochi anni prima erano stati quegli stessi americani che, per mano del presidente Wilson, avevano arbitrariamente deluso le nostre più o meno fondate istanze sulla questione istriana. In Italia, si sa, c’è sempre la mania di essere più realisti del re, ed ecco quindi che l’élite politico culturale del nostro paese troverà il modo di compiacere i nuovi alleati (in cambio di copiosi aiuti e finanziamenti, questo va riconosciuto) andando a epurare dalla nostra tradizione popolare tutti quei riferimenti scomodi alle nuove esigenze. La figura di Nazario Sauro fu tra quelle che pagò questo scotto così come quella di Enrico Toti o di Francesco Baracca. Per decenni, in Italia, i ragazzini conosceranno a menadito le imprese di Davy Crockett e del colonnello Custer, mentre le figure storiche di eroi italiani come Toti, Sauro, Cesare Battisti (il patriota, non il terrorista) e compagnia resteranno completamente ignote. Certamente il cinema fece la fortuna degli Stati Uniti, della sua storia e della sua cultura ma non è che in Italia non conoscessimo la settima arte. Purtroppo, come si è detto, l’élite artistica sposò in toto una linea diversa, dando vita a fenomeni cinematografici di primo livello (ad esempio il neorealismo) ma raramente qualcuno si prese la briga di ribadire il valore e l’eroismo di certi nostri compatrioti. Anche perché, l’intellighenzia (ovvero l’élite intellettuale non artistica) operò in modo sistematico tacciando di anacronismo (nel migliore dei casi) questi argomenti sbandierando continuamente lo spettro del fascismo. In realtà, oggettivamente, per quel che riguarda i temi della Prima Guerra Mondiale, il fatto che il regime del Ventennio avesse utilizzato tutta la retorica possibile inerente alla Vittoria (e ancor più alla Vittoria mutilata), questo non rendeva questa materia necessariamente di loro esclusiva competenza. I Toti o i Baracca erano stati e continuano tutt’ora ad essere eroi italiani. A quel tempo l’Italia, giuste o sbagliate che fossero le scelte che prese il governo in carica, chiese a questi uomini di combattere e questi uomini fecero ben più di quello che erano chiamati a fare, ovvero il loro dovere, tanto da meritarsi pienamente l’appellativo di eroi, per quanto si possa, oggi, pensare che sia desueto. All’epoca non lo era: e Nazario Sauro, protagonista di Fratelli d’Italia, eroe lo fu di sicuro. Nel film, Sauro (interpretato efficacemente da uno statuario Ettore Manni), irredentista istriano, fugge in Italia per arruolarsi nella Regia Marina. Il tenore dell’opera di Fausto Saraceni, produttore in questa circostanza prestato alla regia, risente della corrente melodrammatica che negli anni cinquanta imperversava nella penisola e che, con i suoi eccessi, ben si prestava al connubio coi temi patriottici. In effetti la scena iniziale con Fausto che saluta sua madre Anna (Olga Solbelli) prima di abbandonare Capodistria, sembra raddoppiare il rapporto materno dell’uomo. E’ vero che Sauro lascia la madre naturale in Istria ma, approdando in Italia, lo fa quindi per abbracciare la sua patria, che è la sua terra madre

Tuttavia la figura di Anna è introdotta sin dal principio, definendone il forte legame col figlio, anche per far comprendere bene la natura del suo comportamento nel processo finale, nel quale la donna sarà chiamata a deporre. Sauro si era, nel frattempo, fatto valere sotto le armi ma, per poter essere imbarcato in un ruolo attivo senza eccessivi rischi, aveva dovuto cambiare nome in Nicolò Sambo, con il quale divenne noto come una vera e propria ira d’iddio. Il cambio di nome non era un vezzo: se fosse stata nota la vera identità, il nostro poteva essere facilmente ricattabile dagli austriaci, vivendo la sua famiglia in una terra sotto il dominio imperiale. La cosa diveniva di pericolo estremo in caso di cattura del valoroso militare. Cosa che avvenne allorché il sommergibile Pullino finì incagliato nelle acque della costa adriatica del golfo del Quarnaro; una volta catturato, Sauro si qualificò come Nicolò Sambo ma venne fortuitamente riconosciuto, nel film dal tenente Sarnich (Carlo Hintermann). Il Sarnich era già stato al centro della scena, nella pellicola, durante una discussione quando Sauro stava ancora a Capodistria; a fronte dell’irredentismo convinto di Nazario, il compagno aveva controbattuto che l’Impero Austroungarico, con la sua forza e importanza, offriva protezione e sicurezza. C’è quindi, nel racconto, il tentativo di dar corpo alle istanze diverse dalla prospettiva principale del narrato. Tornando a Sarnich, in tribunale non sarà comunque lui ad essere l’elemento chiave ma questo ruolo se lo disputeranno Steffé (Paul Muller) e la madre di Nazario, Anna. Steffé era il cognato di Sauro oltre che maresciallo della guardia di finanza austriaca e non si fece problemi a riconoscere il prigioniero che si proclamava essere Nicolò Sambo con la vera identità di Nazario Sauro. La madre, chiamata anch’essa a deporre, si trovava in una difficile situazione: era di fronte al figlio potenzialmente condannato a morte, per cui decise di non riconoscerlo per evitargli la forca. Ma questo voleva dire non poterlo nemmeno riabbracciare oltre a rischiare di essere processata per falsa testimonianza. Infatti, se negava di essere la madre, perdeva il beneficio concesso per il suo stretto legame con l’imputato, e si poteva procedere contro di lei per verificare se avesse detto la verità. Una sorta di paradosso legale, in quanto bene o male era chiaro che Anna e Nazario erano madre e figlio. Tuttavia il capitano March (Marc Lawrence), incaricato di sostenere l’accusa, vi ricorse paventando contro Sauro la minaccia di inquisirne e interrogare, con i mezzi necessari per farla confessare, sua madre. L’irredentista però non cedeva e negava di essere Sauro, suddito dell’Impero Austroungarico e passibile, quindi, di pena di morte per diserzione e alto tradimento. March faceva leva su una presunta vigliaccheria di Sauro che si nascondeva dietro le bugie della madre per sfuggire la giusta condanna: e, in qualche frangente, il dubbio sembra assalire anche la prospettiva del racconto filmico. Era da considerare, infatti, onorevole per un eroe coinvolgere la madre nelle proprie imprese? Si trattava però di tener fede ad un giuramento, quello fatto da Nazario al momento del suo arruolamento presso la Regia Marina. Poi, quando March propone un confronto diretto tra Anna e Steffé, Nazario crolla: nel racconto riaffiora prepotente il tenore melodrammatico dell’inizio, Sauro rompe gli indugi e appella la donna con l’inequivocabile termine “mamma!” condannandosi praticamente a morte. La donna sembra rendersene conto e continua a negare quasi perdendo il lume della ragione: davanti alla sua disperazione, mentre due militari la portano fuori, la corte del processo si alza rispettosamente in piedi. E’ certamente un passaggio che trabocca un sentimentalismo, in questo caso tragico, esagerato, come era d’abitudine nei melodrammi strappalacrime dell’epoca: ma, forse, la morte per impiccagione come traditore, per un uomo che ha semplicemente combattuto per la sua gente, anzi, per la sua patria, è una situazione che giustifica gli eccessi di una simile narrazione. Nel bilancio complessivo molti fattori possono concorrere ma, alla luce della storia del cinema del nostro paese, Fratelli d’Italia non è tanto un buon film o un cattivo film, quanto un film indispensabile: essendo l’unico che ci narra le imprese di Nazario Sauro.









giovedì 17 luglio 2025

MATA HARI (1931)

1699_MATA HARI , Stati Uniti 1931. Regia di George Fitzmaurice 

Ispirato alla reale figura della spia olandese Margaretha Geertruida Zelle, Mata Hari è più che altro l’occasione di vedere una delle interpretazioni memorabili della divina Greta Garbo. La scena della danza è tutt’ora di grande impatto visivo e la Garbo, che sfoggia una serie di fantastici costumi, sfodera una classe che ne giustifica la fama arrivata fino ad oggi. La sua versione di Mata Hari è la quintessenza del fascino della femme fatale, un ruolo che calzava a pennello all’attrice svedese. In Mata Hari la sua interpretazione è da manuale: la seducente spia è una donna perduta che si fa gioco degli uomini da cui deve attingere informazioni, ma la sua anima non è del tutto dannata. Finché si tratta di ingannare il generale russo Shubin (Lionel Barrymore), che pare per altro consapevole delle manovre dell’amante, Mata Hari non si pone alcuno scrupolo. E se obbedisce ad Andriani (Lewis Stone), il losco capo dell’organizzazione spionistica, è solo perché le fa comodo lasciarsi andare ad una dissoluta vita di piacere condita da ben più di un pizzico di pericolo. Ma quando si trova per le mani il giovane tenente Rosanoff (Ramòn Navarro), che si innamora di lei in modo romanticamente ingenuo, dalle profondità in cui l’aveva rinchiuso emerge il suo buon cuore. In questo la Garbo è davvero divina, termine che le affibbiarono giustamente: sublime la sua capacità di gestire i due registri interpretativi, passando senza strappi da quello conturbante ma in realtà freddo e distaccato a quello appassionatamente genuino e trepidante. La dark lady ha infatti questa natura: sotto la scorza dura deve nascondere un cuore di panna, come attrici del calibro della Garbo o Marlene Dietrich sapevano perfettamente. Peccato che Greta non amasse questo tipo di ruoli, al punto da smettere precocemente la sua attività di attrice forse proprio perché non riuscì a ritagliarsi uno spazio diverso nel mondo del cinema. E, vedendola nella danzare negli aderenti costumi in Mata Hari, non può che far venire ben più di un rimpianto. 



Greta Garbo 








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martedì 15 luglio 2025

DISONORATA (1931)

1698_DISONORATA (Dishonored), Stati Uniti 1931. Regia di Josef von Sternberg

Da un punto di vista visivo Disonorata di Josef von Sternberg con la divina Marlene Dietrich è un film molto affascinante. La storia in sé, invece, non appare troppo convincente e questo è forse un limite che stavolta il grande regista di origine austriaca non è riuscito a mascherare a dovere. Abilità nella quale l’autore era in genere sublime maestro: del resto il tema delle maschere è onnipresente anche in Disonorata, dalla festa carnevalizia ai travestimenti a cui si sottopone la Dietrich. E poi, in qualità di racconto della Prima Guerra Mondiale ambientato tra gli alti ufficiali degli Imperi Austroungarico e Russo, con loro caratteristiche uniformi, Disonorata sembra quasi un film in costume. La protagonista poi, passa da due ruoli che prevedono in un certo senso l’utilizzo di maschere: è una prostituta, e quindi si veste secondo i codici del desiderio, che diviene una spia, nome in codice X-27, che del travestimento fa uno degli strumenti per ingannare il nemico. E, in definitiva, Disonorata è un inganno: a partire già dal titolo, sebbene pare che von Sternberg avesse previsto X-27 per intitolare l’opera. Tuttavia il Disonorata poi scelto è funzionale: Marie, il personaggio della Dietrich, è disonorata per aver tradito il proprio paese nel momento in cui agisce, per la prima volta, per vero amore, e quindi semmai con azione degna del più alto onore. E’ un film importante, Disonorata, sia per von Sternberg che per la Storia del cinema in generale; Marlene merita un discorso a parte, essendo una vera divinità cinematografica e quindi al di fuori, meglio al di sopra, queste classificazioni. Disonorata è importante perché ribalta completamente il ruolo della donna nell’economia di un racconto di avventure; per di più un racconto di guerra, e quindi un racconto maschile per antonomasia. Certo, si parla di spie e questa attività, con il tema del mascheramento e dell’inganno, rimette in gioco la figura femminile in modo già noto all’epoca: la donna è da sempre maestra nell’arte del desiderio e quindi dell’inganno e questo la rende perfetta per il ruolo di spia. Ma l’operazione di von Sternberg è sopraffina e niente affatto scontata. 
Ovviamente con Marlene sullo schermo per la maggior parte del tempo se ne sfrutta la capacità seduttiva: difficile trovare qualche altro esempio con il fascino che aveva la diva di origine tedesca. E nel film, non si eccede nemmeno troppo, in questa direzione, tanto che con l’attendente zarista la nostra X-27 gioca a fare l’ingenua contadina russa perdendo tempo senza concedere nulla, in termini piccanti, al povero ufficiale. Certamente più consono alla fama della Dietrich il modo in cui gioca il colonnello Hindau (Warner Oland), l’ufficiale austriaco traditore, nella prima parte del film. Ma il passaggio cruciale è quello decisivo ed è di tutt’altra natura: ovvero quando offre la possibilità di fuggire all’acerrimo nemico, il colonnello russo Kranau (Victor McLaglen). Kranau è una spia e si è già scontrato due volte con X-27, la seconda delle quali venendo sconfitto e graziato dall’uso di un semplice sonnifero da parte della donna. Ora Kranau è prigioniero, è stato riconosciuto come pericolosissima spia e quindi va incontro a morte certa. Marie non dimentica, però, che l’uomo le concesse una notte d’amore quando era lei a trovarsi in quella scomoda posizione; o forse erano state le parole dell’ufficiale, che aveva più volte detto di essersi innamorato di lei, a farle sciogliere l’ostentata freddezza sentimentale. 
Fatto sta che ora Marie amava quell’uomo condannato a morte e, lasciandolo fuggire, si sacrificava al suo posto. L’aspetto inconsueto non è nell’estremo sacrificio della donna per l’uomo amato; ma è che la donna, in questo caso, ha soppiantato l’uomo nel suo ruolo. In pratica è la damigella in pericolo a salvare il cavaliere. Marie è una spia tanto quanto Kranau, ma è stata più in gamba di lui; ora è lei ad avere la pistola dalla parte del manico (riferimento, se vogliamo, anche fallico). Ciononostante la Dietrich ha fatto questo senza perdere un grammo del suo fascino femminile ma semmai condensando su di sé i ruoli attivi, rilevanti e dominanti. Kranau è un bellimbusto, aitante e sorridente, ma non può andare oltre ad una certa verve fisica. Non a caso, probabilmente, è interpretato da Victor McLaglen, un attore bravo ma senza lo spessore, anche scenico, di un Gary Cooper o di un John Wayne. Il suo ripetere più volte la parola amore, il più profondo dei sentimenti, fa il paio con la superficialità con cui, appena vede uno spiraglio per fuggire, vi si butta a capofitto senza nemmeno accorgersi che Marie aveva volutamente, e in modo smaccatamente esplicito, perso la pistola di mano per favorirlo. Il finale, con la fucilazione della donna ritornata nei panni di prostituta, chiude il film in un cerchio perfetto. Con un suicidio di una donna di facili costumi si era aperto Disonorata, con un suicidio (di fatto) di una donna della stessa risma si chiude. Come a smentire che con il suo film von Sternberg abbia detto qualcosa di nuovo: se siamo degli ottusi come Kranau o gli ufficiali austriaci, non abbiamo di che preoccuparci. Diversamente, sapremo perché Marlene Dietrich è Marlene Dietrich.      





Marlene Dietrich 







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domenica 13 luglio 2025

AMERICA COSì NUDA, COSì VIOLENTA

1697_AMERICA COSì NUDA, COSì VIOLENTA, Italia 1970. Regia di Sergio Martino 

la carriera registica di Sergio Martino si svilupperà negli anni all’interno di quel cinema ‘di genere’ in cui l’autore poteva costantemente infrangere, o quanto meno insidiare, i normali confini del buon gusto. In ambito erotico, con le sue commedie scollacciate, o in quello violento, con i suoi thriller, il cineasta romano ne fu uno dei migliori interpreti, capace di gestire al meglio l’ambiguità di queste produzioni. Quasi a fornire prima una sorta di credenziali sui suoi reali convincimenti, Martino cominciò la sua filmografia dirigendo documentari in cui si issò a severo censore morale. Se, nel suo esordio, Mille peccati, nessuna virtù, aveva preso di mira i paesi del nord Europa e la loro emancipazione di stampo progressista, con America così nuda, così violenta, mise sotto la lente dell’obiettivo della macchina da presa la culla della società borghese e del capitalismo. Un ulteriore dimostrazione della capacità «democristiana» del regista romano, che in seguito, gli sarà utile per interpretare sempre i gusti del pubblico anche quando il paese sembrò cambiare profondamente. 
Gli Stati Uniti, all’alba degli anni Settanta, offrirono a Martino una marea di spunti, più sul versante violento che su quello erotico, testimonianza dei tempi difficili che il paese stava attraversando. La critica non degnò di particolare interesse America così nuda, così violenta: “Droga, corruzione, alcolismo, nel film-inchiesta a colori che Sergio Martino ha girato in America con l’intenzione di mettere a nudo le pieghe degli States. Ci sono altresì i riti satanici, gli sbandamenti e le morbosità della gioventù dei due sessi, ora attratta dal misticismo, ora vittima della perversione. Non nuovo a impietose di radiografie di questo genere, il documentarista Martino ha cercato di puntualizzare problemi e fenomeni complessi e contradditori”. [Da oggi in prima, America così nuda, così violenta, Stampa Sera, anno 102, n. 178, giovedì 3-venerdì 4 settembre 1970, pagina 7]. Un commento che lascia intendere come il film abbia convinto pienamente l’anonimo recensore del giornale di Torino, il che lascia un po’ stupefatti, per la verità. Forse, non a caso, il giorno dopo, lo stesso quotidiano corresse il tiro: “Scene dal vero pur alternate ad altre realizzate visibilmente in studio, cercano di dare un quadro degli USA d’oggi. C’è una ricerca del sensazionale che confina con l’effettismo degli horror in certe sequenze, tra le quali non va raccomandato agli spettatori di stomaco debole (non stimolante per chiunque la veda prima di cena) quella dei ghiotti mangiatori di scarafaggi. L’America del benessere è, come d’uso, messa a confronto con quella «amara» e peggio che tale, ossia quella delle perversioni e dei riti satanici (non manca la sinistra villa di Bel Air). E, alla tragica strada di Dallas, si contrappongono gli astronauti percorrenti le vie celesti con meta la Luna. Il commento, che sottolinea a dovere il bene e il male dell’America «nuda» e «violenta» è detto dalla voce suadente di Giorgio Albertazzi”. [America così nuda, America così nuda, così violenta, Stampa Sera, anno 102, n. 179, venerdì 4-sabato 5 settembre 1970, pagina 7]. Il problema principale del film, è, manco a dirlo, la difficoltà di stabilire quali siano le parti ricostruite e quali, se ve ne sono, reali. Perché, se alcune mostrano palesemente la propria artificiosità, altre sembrano attendibili, ma nei Mondo movie è doveroso dubitare di ogni fotogramma. In ogni caso, la scena con il ritrovamento del cadavere di un suicida nei dintorni di Las Vegas, se ricostruita, è un capolavoro di credibilità, e mantiene intatta, in ogni caso, la sua efficacia drammatica. Interessante anche l’intervista a Marie Farr Walker, direttrice del Fayette Chronicle, quotidiano di Fayette, Mississippi, un paesino in cui era stato eletto sindaco Charles Ever, un uomo di colore. La signora in questione non si fa alcun problema a esternare frasi palesemente razziste che, provenendo da una donna e giornalista, in ottica «liberal» bilanciano in parte l’ottimismo che l’elezione di un afroamericano come Ever poteva far intendere.

Il film non convince del tutto, per essere onesti, ma alcuni passi del commento lasciano intendere il tipico umorismo che il cinema di Martino, almeno nella sua sponda «leggera», avrà poi in seguito. Per la precisione il testo letto da Giorgio Albertazzi porta la firma di Guido Gerosa e Gian Franco Venè ma, è presumibile che il regista, autore anche del soggetto, abbia sicuramento influito in qualche misura. In ogni caso, alcune battute sono, a loro modo, memorabili: descrivendo le abitudini alimentari che hanno dato come risultato le «bellezze da spiaggia» di Miami, la ‘voce over’ cita “statistiche alla mano, natiche al rallentatore”, mettendo d’accordo commento e immagini sullo schermo; sulle scene prese dall’Altamont Free Concert, lo spirito degli hippy accampati è sintetizzato con un laconico “pace all’americana, pace alla marjuana”. Qui c’è una classica imprecisione tipica dei Mondo movie, anche se potrebbe essere una svista genuina: il commento ci informa che, a fronte di tre nascite, durante questa sorta di Woodstock californiana, ci furono cinque morti. Il conteggio finale che, con un certo humor nero riduce il bilancio ad un “morte batte vita 5 a 3”, non è però attendibile in quanto pare che i bambini nati sui prati dell’Altamont Raceway Park furono quattro e i decessi altrettanti. Ma, certo, un pareggio, nell’ottica dei Mondo movie, è forse la cosa peggiore che ci sia da raccontare. Le scene di sesso libero degli hippy alimentano il versante erotico del film che, quando affronta uno dei cliché del genere, quello degli omosessuali, piazza un paio di battute che potrebbero essere intese anche come scivoloni, forse anche senza scomodare il vigente «politicamente corretto». Ascoltando Albertazzi scopriamo che gli spettatori omosessuali siano esigenti nella scelta degli spettacoli perché “ammettono il loro vizio ma non ammettono di essere truffati”. Quando poi il film torna a mostrare gli eterosessuali, la ‘voce over’ li presenta come “uomini uomini”, affermazione che lascia un po’ disorientati. Più simpatica la battuta con cui vengono suggellati gli spogliarelli integrali femminili: se inizialmente di parlava di «top-less», per alzare la temperatura degli spettacoli si era passati ai «bottom-less»: “abbiamo toccato il fondo”, chiosa Albertazzi.
Insomma, pur nella drammaticità di un quadro a tinte fosche –dal momento che, effettivamente, gli Stati Uniti, nei primi anni Settanta, erano un paese profondamente violento– Martino provò ad alleggerire il suo racconto con un po’ di spirito. Non tagliente come quello di Jacopetti, ma di grana un po’ più goliardica; il che non è necessariamente un limite.     






           

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