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mercoledì 20 dicembre 2023

ZAKHAR BERKUT

1409_ZAKHAR BERKUT . Unione Sovietica, 1971; Regia di Leonid Osyka.

Alla base di Zakhar Berkut, film di Leonig Osyka del 1971, c’è l’omonimo romanzo storico di Ivan Franko, ambientato nel 1241, quando le popolazioni stanziate sui Monti Carpazi dell’odierna Ucraina, riuscirono nell’impresa di sconfiggere i temibili invasori mongoli. Da un punto di vista letterario, siamo in pieno clima epico; quindi, più che una ricostruzione fedele ai fatti narrati, va forse considerato il periodo di produzione dell’opera artistica. Il romanzo di Franko uscì a fine 1800, con l’Ucraina ancora divisa tra l’Impero Asburgico e la dominazione russa e il racconto Il falco nascente, titolo con cui è conosciuto il testo, lascia trasparire tutta l’insofferenza del popolo ucraino, mentre cerca di fomentare un po’ di amor di patria, come ogni opera epica che si rispetti. Quasi un secolo dopo, con l’Ucraina ormai completamente assoggettata all’Unione Sovietica, con il suo film, Leonid Osyka riporta in voga questi temi non propriamente in linea con le direttive del Cremlino. Certo, con un po’ di buona volontà, si potrebbe scorgere, nella disputa tra eroi popolari come Zakhar Berkut (Vasyl Symchych), e il suo rivale, il boiardo Tugar Vovk (Kostantin Stepankov) una metafora della “lotta di classe” tipicamente comunista. Ma si tratterebbe di una lettura forzata. Osyka sembra piuttosto interessato ad una rappresentazione se non mistica, certamente mitologica, con un uso del colore, delle musiche, delle scenografie e dei costumi, che danno luogo ad una messa in scena ammaliante per fascino estetico. Zakhar Berkut è a capo di Tukhlya, uno sparuto villaggio nascosto sui Carpazi, e porge l’invito al nobile a cui fa riferimento la zona, il boiardo Tugar Vovk, di partecipare alla Veche, la comune assemblea collettiva che si svolgeva nella Rus’ di Kiev in quei remoti tempi. Incaricato di questa missiva è Maksim (Ivan Gavrilyuk), uno dei due figli di Zakhar Berkut; la risposta di Tugar Vovk non è certo entusiasta, ma accetterà di recarsi al villaggio se il giovane parteciperà alla caccia all’orso. Galeotta sarà questa caccia perché il valente giovanotto salva la vita alla bella Miroslava (Antonina Leftiy), figlia proprio di Tugar Vovk, e la prevedibile scintilla scocca quasi immediatamente tra i due, creando un cortocircuito nei piani del boiardo. Il nobile ha infatti tradito il suo popolo, essendo in combutta con i mongoli dell’Orda che stanno per invadere la zona. Arrivato a Tukhlya, Tugat Vovk prova a convincere l’assemblea a lasciargli gestire il rapporto coi mongoli, facendo intendere che sia da evitare uno scontro diretto. 

Purtroppo per lui nella riunione è presente anche Dmitrij (Fyodor Panasenko) che conosce i suoi intrallazzi con gli invasori; vistosi scoperto, Tugat Vovk colpisce l’uomo, uccidendolo. La situazione precipita: il boiardo è scacciato e, con la figlia al seguito, si rifugia presso i Tartari di Burundi (Borislav Brondukov) rivelando agli invasori mongoli la posizione di Tukhlya, che viene quindi attaccata. Maksym è alfine catturato, Burundi lo vorrebbe fare arrosto ma il giovane viene risparmiato purché faccia da guida all’Orda attraverso gli impervi monti Carpazi. Maksym consegna a Miroslava un messaggio per il padre: condurrà i Tartari in una vallata dove sarà possibile farli finire sott’acqua, facendo crollare opportunamente la roccia nota come Sentinella. Il Mito sta quindi per compiersi: i mongoli sono arrivati nel punto stabilito, l’enorme masso cadendo ostruisce lo scorrere del fiume che allaga la valle. Sulle alture Zakhar Berkut osserva i tartari finire a mollo; Burundi offre la vita di Maksym, suo prigioniero, in cambio di una via di fuga. Miroslava è disperata perché il padre del suo amato non cede alle richieste mongole, consapevole che, una volta in salvo, l’Orda tornerà ad insanguinare le loro terre. Il destino si compie: muoiono i Tartari, Burundi e Tugar Vovk, ma anche Maksym e perfino suo fratello Lyubomyr (Ivan Mykolaychuk). Miroslava piange, mentre Zakhar Berkut abbassa lo sguardo, ripensando forse all’amara decisione che è stato costretto a prendere, scegliendo il bene collettivo a discapito dei propri affetti. L’atmosfera è lugubre; ma presto il sole torna a splendere sui Monti Carpazi, indifferenti alle umane miserie. I problemi dell’Ucraina sono solo all’inizio.   




 Antonina Leftiy



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lunedì 18 dicembre 2023

OPPENHEIMER

1408_OPPENHEIMER . Stati Uniti, Regno Unito, 2023; Regia di Christopher Nolan.

Dopo i primi thriller a tinte cupe, Christopher Nolan aveva impresso alla sua carriera di regista una svolta fantascientifica: ora, dopo la sua prima incursione, Dunkirk (2017), lo ritroviamo di nuovo alle prese con la Storia. La Storia, quella con S maiuscola, almeno in linea di principio, non concede divagazione fantastiche e pretende massimo rigore; poi, d’accordo, le licenze poetiche sono ovviamente permesse ma, rispetto ad un film di fantascienza, almeno da protocollo occorre rimanere più attinenti alla realtà. Oppenheimer, il nuovo lungometraggio del regista angloamericano, è poi un film biografico, fatto che introduce un altro vincolo, quello legato alla vita del protagonista. Il film di Nolan è basato, per essere precisi, sul testo Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica di Kai Bird e Martin J. Sherwin, uscito nel 2005 e premiato, tra gli altri, col Pulitzer. In ogni caso, la vita di un personaggio tanto importante, responsabile ultimo di un’invenzione cruciale nel corso della Storia dell’Umanità e protagonista di un periodo storico ancora oggi determinante, non sembrerebbe lasciare troppo spazio alle derive fantastiche o sperimentali. Eppure, Nolan, anche in questo caso, riesce a confonderci le idee, pur parlando, in un film storico-biografico, di qualcosa di assolutamente scientifico e razionale. Se, nella sua precedente divagazione storica, Dunkirk, l’autore aveva dimostrato come la realtà, perfino la realtà storica, potesse sembrare un’esperienza onirica, con Oppenheimer utilizza la metafora della fisica quantistica per una rappresentazione, o meglio, più rappresentazioni, di quelle che possono essere le reali vicende accadute in luogo di un’unica e sola verità assoluta. Il racconto filmico, in effetti, è impostato su tre livelli temporali, non così facilmente distinguibili tra loro dal momento che due di loro sono a colori mentre uno di essi è in bianco e nero, non fornendo, quindi, una semplice lettura dei piani narrativi. La mancanza di linearità nella narrazione è una delle costanti dell’autore e, in questo caso, si innesta ad un tema particolarmente sfuggente, almeno per lo spettatore comune la meccanica quantistica non è pane quotidiano, e ai giochi di potere di Washington nell’America di uno dei suoi periodi più opachi. Nolan, forte del suo talento specifico in questo tipo di narrazione e dell’esperienza maturata nei suoi film fantascientifici, riesce a gestire alla grande il racconto che non molla mai la presa sullo spettatore, pur nella vaghezza dei riferimenti scientifici che sono praticamente tra i pochi punti cardinali della narrazione. Certo, la corsa alla realizzazione della Bomba Atomica, che gli americani dovevano realizzare prima dei nazisti, funge da valido supporto al ritmo narrativo, ma è emblematico che né il Trinity Test, la prima esplosione nucleare della Storia, né la notizia degli sganci su Hiroshima e Nagasaki, siano utilizzati per il gran finale del film. 

Non sono, le esplosioni, l’epicentro di Oppenheimer. Anche perché, quelle, a rigor di intenti di chi le ha provocate, sono state un successo e il film tutto sembra tranne che una celebrazione. Sui “benefici” delle esplosioni, poi, da un punto di vista morale, ci sarebbe da obiettare, e non poco, come appunto sostiene, ad un certo punto, lo stesso J. Robert Oppenheimer (Cillian Murphy, perfetto). Ma il presidente Harry Truman (Gary Oldman, divino) liquida velocemente la questione: la responsabilità dei morti è solo sua. Questo sarebbe un assist per un’interessante riflessione, in merito, ma Nolan è di diverso avviso, almeno in questo caso. Per due volte, lo scienziato recita il verso “Ora sono diventato Morte. Il distruttore di mondi” [da Bagahavad Gita, testo sacro sanscrito, opera di Vyasa], quasi che il suo Destino, e con esso il Destino dell’Umanità, fosse già scritto nell’antichità. 

Ma, come suo solito, Nolan procede su binari paralleli o comunque differenti ed è una frase che Oppenheimer confida a Albert Einstein (Tom Conti) a turbarci maggiormente. Lo scienziato, riferendosi agli iniziali timori che la reazione a catena innescata dalla bomba atomica potesse incendiare l’atmosfera e bruciare l’intero mondo, teme che non siano affatto scongiurati, nel loro risultato finale, considerato i rischi connessi alla prevedibile escalation nucleare. Previsione che si rivelerà fondata, visto la corsa agli armamenti atomici che si scatenò in seguito, ma, oggi, abbiamo problemi più urgenti. Guardando, infatti, al surriscaldamento globale, agli incendi, e alle varie catastrofi naturali che ci dicono essere indotte senza ombra di dubbio dall’attività umana, viene il sospetto che non ci sia nemmeno da aspettare lo scoppio della Terza Guerra Mondiale per vedersi concretizzare alla lettera le preoccupazioni di Oppenheimer. Ma, in tutto questo, cosa c’entra Lewis Strauss, interpretato da un Robert Downey Jr, al solito ambiguamente sopra le righe e vero anti-protagonista del film? Lui è il villain certo, il cattivo, ma lo è in modo quasi speculare a come Oppenheimer è il “buono”, il protagonista in qualche modo positivo. Il film si muove, tra le altre cose, tra due ambientazioni, quella scientifica e quella politica; più specificatamente, tra quella legata alla meccanica quantistica e quella della cosiddetta “caccia alle streghe” del senatore McCarthy. Se è Oppenheimer ad orchestrare la prima, assurgendo a leader nella costruzione della prima bomba atomica, Lewis Strauss si adopera per affossarlo lavorando nell’ombra della seconda traccia. Per entrambi, il film prevede che debbano superare alcune prove, venendo sottoposti a giudizio: di una speciale commissione lo scienziato, del voto dei senatori il politico. Se Oppenheimer subisce comunque delle umiliazioni, a Strauss va anche peggio, perché per un vanaglorioso come lui rimanere per l’eternità nell’anonimato è forse la dannazione peggiore. Ma la cosa che inquieta maggiormente è che, in tutti i giudizi a cui sono sottoposti i personaggi nel film di Nolan, non è previsto né l’onere della prova da parte dell’accusa, né tantomeno una vera e propria difesa come previsto dal Diritto in uso nei paesi civili. Sarà forse un tecnicismo legato ai tipi di procedimento che sono raccontati dal film, tuttavia viene naturale chiedersi il perché Nolan sottolinei più volte questa cosa. Forse per suggerire che il paese –gli Stati Uniti degli anni Quaranta, non così diversi dagli Stati Uniti di oggi– che ha il triste primato di aver sganciato ordigni nucleari su città e non su obiettivi militari, non sia da considerare un paese civile?  





 Emily Blunt 




Florence Pugh 


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sabato 16 dicembre 2023

KOLIYIVSHCHYNA

1407_KOLIYIVSHCHYNA . Unione Sovietica, 1933; Regia di Ivan Kavaleridze.

Prima che regista, Ivan Kavaleridze, ucraino con origini georgiane, fu un importante scultore dell’Unione Sovietica, le cui opere ornano ancora le piazze e le strade di molte città del paese. Non si tratta di sculture di poco conto: tra queste, si possono citare la statua della principessa Olha a Kiev e i suoi tributi a Taras Scevchenko –poeta, scrittore, pittore, ritenuto un pilastro della stessa lingua ucraina– ancora a Kiev, e poi a Sumny, a Romny e, soprattutto, a Poltava, dove è più evidente l’influenza cubista. Anche se, forse, l’opera che meglio esprime l’arte scultorea di Kavaleridze si trova nei pressi di Donetsk: a Sviatohirsk, dal 1927, troneggia un gigantesco Artem, il primo eroe bolscevico. Qui, le influenze cubiste, più evidenti nel monumento di Poltava, sono meglio coinvolte nell’anatomia della imponente e stilizzata figura umana. Questi dettagli artistico biografici non sono solo mere curiosità, in quanto la poetica cinematografica di Kavaleridze è fortemente influenzata dalla sua capacità di scultore come è già evidente dai suoi primissimi film. Tra questi, Koliyivshchyna, uscito nel 1933, era pensato come la prima parte di una trilogia storica che, pur avendo il seguito nel successivo Prometheus (1936), non verrà mai interamente conclusa. Da un punto di vista prettamente storico, Koliyivshchyna fa immediatamente riferimento alla grande ribellione Haidamaky, scoppiata nella Ucraina della Riva Destra nel 1768. Gli Haidamaky erano formazioni paramilitari composte da contadini e nobili locali decaduti che insorsero contro gli invasori polacchi che governavano la citata Riva Destra Ucraina, ovvero i territori a ovest del fiume Dnipro. A fomentare la rivolta c’erano anche i russi, interessati ad estendere la loro influenza oltre il grande fiume, che alimentavano l’ostilità dei cosacchi e della popolazione locale contro la dominazione polacca; un’ostilità già provata, tra le altre cose, dai contrasti di matrice religiosa tra quella cattolica degli occupanti e quella ortodossa degli occupati. 

I pogrom, le violente sommosse, travolsero il paese, dando vita a massacri a cui vennero sottoposti polacchi, ebrei, cattolici romani e bizantini. Il film di Kavaleridze esce nel 1933, nel pieno della propaganda cinematografica sovietica, e l’autore ha il suo bel d’affare a trovare la quadra tra la realtà storica, che gli interessa poco, e una narrazione epica che celebri le origini del suo popolo, l’Ucraina, senza indispettire troppo le autorità sovietiche che hanno altri intenti. Sulla scarsa attinenza storica di Kavaleridze non c’è da scandalizzarsi: l’epica non è mai Storia, a partire dai poemi dell’Antica Grecia fino al cinema Western americano e, oltretutto, l’autore sembra ispirarsi prevalentemente a Haidamaky, poema di Taras Schevchenko e opera teatrale di Les Kurbas. Kavaleridze riesce pienamente a conferire al suo lavoro la ricercata matrice epica, con gli scultorei personaggi che si stagliano sullo schermo in tutta la loro potente presenza scenica. 

Il suo protagonista, Semen Nezhivoy (Aleksandr Serdyuk), è un eroe monumentale, una figura mitica, mentre più controversa la rappresentazione di Ivan Honta, noto anche come Gonta, (Ivan Maryanenko) e Maksim Zaliznyak (Daniil Antonovich). Questi sono due eroi del folclore popolare ucraino, in genere considerati positivamente anche per via del loro ruolo di difensori della chiesa ortodossa nel confronto con quella cattolica della dominazione polacco-lituana. Lo sguardo di Kavaleridze, ad esempio nella sua attenzione alle differenti lingue parlate nel racconto filmico, non lascia intendere un utilizzo strumentale del cinema, se non nel senso epico del termine. Riguardo al trattamento riservato dal suo film ai due personaggi storici citati, stando alle parole di Lisnevska Alina Leonidivna (vedi nota 1), Kavaleridze si lamentò del fatto che gli storici che gli erano stati assegnati dalla apposita Commissione rielaborarono a loro convenienza le immagini dove erano protagonisti Gonta e Zaliznyak. Va precisato che un testo fortemente simbolico come quello di Kavaleridze, potrebbe risultare particolarmente soggetto a questo tipo di manipolazione; e i dialoghi, per quanto fossero presenti –si era agli arbori del cinema sonoro– non vennero utilizzati in senso moderno per dettagliare ogni risvolto della trama, ma lasciarono più che altro spazio alla capacità figurativa dell’autore, fungendo più che altro da supporto. Una soluzione pregevole, che però offrì il fianco al movimento che, negli anni Trenta, in Unione Sovietica, riteneva di utilizzare il cinema come strumento per uniformare il paese alle dottrine dettate da Mosca. 

In questo senso l’Ucraina rappresentava storicamente un problema: alla base della popolazione vi erano i contadini, e non il proletariato caro ai comunisti, e le teorie irredentiste, diffuse nel paese, erano dure a morire e andavano costantemente combattute. Stando ad interpretazioni comunemente accettate, l’Holomodor, la carestia che travolse l’Ucraina nei primi anni Trenta del XX secolo, è appunto il frutto di una di queste battaglie. Nell’intento di pianificare l’intero territorio dell’Unione delle Repubbliche secondo le proprie direttive, il governo Sovietico collettivizzò l’agricoltura ucraina, deportando coloro i quali opponevano resistenza, e mise infine in campo manovre per aggravare deliberatamente la carestia, causando qualche milione di vittime. Per quanto la questione possa essere dibattuta, in numerosi paesi e secondo risoluzioni da parte di organizzazioni internazionali, a questo proposito si parla esplicitamente di Genocidio. 

Proprio in quegli anni, Kavaleridze si propose con il suo Koliyivshchyna: se a prima vista avrebbe potuto sembrare inopportuno, considerato che raccontava una vicenda in grado di dare nuova linfa al nazionalismo ucraino, fu invece un’occasione colta al volo dal potere sovietico per un abile manovra propagandistica. L’interpretazione in chiave epica di Kavaleridze, con il suo simbolismo stilizzato, si prestò bene a queste manovre da parte della Commissione, come visto già denunciate dallo stesso autore nelle sue memorie. In quest’ottica, la lotta contro gli oppressori polacchi divenne la lotta di classe, mentre la Chiesa Ortodossa, al tempo contrapposta a quella Cattolica degli invasori, perse la sua valenza positiva, in nome del laicismo di Stato obiettivo dei bolscevichi. Allo stesso tempo, l’Impero Zarista, che era stato uno dei motori, almeno dal punto di vista economico, della ribellione, divenne un nemico più insidioso dell’occupazione polacca, dipinta come ormai decadente e anacronistica. Secondo il citato studio di Lisnevska Alina Leonidivna, nel 1968, le autorità sovietiche rimontarono completamente il film di Kavaleridze, in modo che rispettasse appieno i loro convincimenti e sostanziali differenze esistono, sempre secondo Leonidivna, tra la versione del 1933 e quella di 35 anni dopo. Sia come sia, la potenza figurativa della poetica cinematografica delle immagini di Ivan Kavaleridze è rimasta intatta anche su quelle versioni di Koliyivshchyna, onestamente non proprio impeccabili, che si possono trovare in rete. Mentre, se per la Storia ci si può rivolgere agli appositi manuali, per le manovre strategiche propagandistiche, che sono uno dei punti cruciali della stessa, nulla come il cinema può rivelarcene la potenza. Anche quando ne è lo strumento non del tutto consenziente.
Note:
1. Lisnevska Alina Leonidivna
Università Borys Grinchenko di Kiev
Professore Associato del Dipartimento di Giornalismo e Nuovi Media
Dottorato di Ricerca in Pedagogia
Interpretazione degli eventi storici come strumento di propaganda (sull'esempio del film "Koliivshchyna" di Ivan Kavaleridze, 1933). Pagina 4. 



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giovedì 14 dicembre 2023

DOWNFALL

1406_DOWNFALL . Regno Unito, 1964; Regia di John Llewellyn Moxey.

Al suo quarto lavoro per The Edgar Wallace Mysteries, John Llewellyn Moxey realizza una storia abbastanza inconsueta, almeno per i canoni della serie. Nel tipico episodio, spesso, il crimine, o parte di esso, avviene se non in principio del racconto quantomeno nella prima parte, per dar modo alla trama gialla di svilupparsi su qualcosa di concreto. In questo caso la stessa regia di Moxey, con i suoi raccordi tra diverse sequenze, sembra suggerire una sorta di formalismo senza sostanza dell’intrigo; anche le allusioni metaforiche, a cui evita di dare corpo, sono un altro indizio in questo senso. Sir Harold Crossley (Maurice Denham) è un avvocato penalista che ha appena fatto assolvere Martin Somers (T.P. Mckenna), nonostante tutti quanti siano convinti che l’uomo fosse colpevole. L’imputato era accusato di aver ucciso una donna: secondo la tesi sostenuta dal Procuratore della Corona Somers sarebbe uno psicopatico che corteggia le donne – pur odiandole – e quando queste le si concedono, non riuscendo a soddisfarle, le uccide. Tuttavia Sir Harold è una vecchia volpe e riesce a far assolvere il suo cliente, nonostante la sua stessa assistente, l’avvocatessa Jane Meldrum (Ellen McIntosh) nutra più di qualche perplessità nel merito. Tra i due avvocati, in ogni caso, c’è una bella intesa: Jane è una donna graziosa oltre che intelligente e l’uomo ne è pienamente consapevole. Il problema è che Sir Harold è un po’ troppo attempato e, soprattutto, è già sposato con una sventola come Suzanne (Nadja Regin, già Bond-Girl in A007, dalla Russia con amore e Agente 007 – Missione Goldfinger). Peraltro, il matrimonio in questione è in piena crisi: Sir Harold è preso dal suo lavoro mentre Suzanne se ne va in crociera senza curarsi troppo se i suoi flirt arrivano alle orecchie del marito. Del resto lei vuole il divorzio; lui, per via della carriera, non può permetterselo e sono ormai ai ferri corti. Così Sir Harold ha un’idea, piuttosto contorta ma del resto in linea con i soggetti della serie televisiva: qui c’è uno dei raccordi di montaggio citati, con l’uomo che esce con l’auto dal vialetto di casa e con una sorta di sovrapposizione ribaltata lo vediamo recarsi ad un colloquio con Somers. L’avvocato in cuor suo è convinto, come tutti, che Somers sia colpevole e, proprio per questo decide di ‘dargli una chance’ e subdolamente lo assume come autista personale della moglie. Naturalmente a Suzanne nasconde l’identità del suo nuovo chauffer ma fa in modo di lasciarli sempre più spesso soli. 

La donna, diciamo così, ha il sangue caldo ma Somers è consapevole di essere in una posizione rischiosa e rimane guardingo: qui Moxey semina qualche illazione visiva, con le statue di donne nude nel parco dove i due passeggiano, oppure con una posa che potrebbe essere equivoca. Ma Somers resiste; anche quando entrano in quello che sembra un hotel poi si fermano unicamente al bar a farsi un’innocente bevuta. Ma fino a che punto l’uomo si sta contenendo per una sua naturale correttezza e quanto per prudenza, non comprendendo bene il gioco dell’avvocato? La tensione, per quanto di tipo diversa dai soliti episodi, cresce lentamente. Sir Harold forza la mano: decide di assentarsi per tutto un week end e, con la scusa di una maggior sicurezza, consegna la sua pistola a Somers, così che possa difendere meglio sua moglie e la casa da eventuali malintenzionati. Intanto, fuori Londra potrà vedere di progettare il suo futuro con Jean; nel caso Somers uccida Suzanne, potrebbe infatti finalmente sposare la collega. Ma quando arriverà all’incontro con Jean avrà un’amara sorpresa: la ragazza gli dà il ‘lieto’ annuncio che si è appena sposata con un altro avvocato! Per Harold è un vero choc. Sul posto, oltre al neo marito della donna, si presenta un esimio collega di Sir Harold che gli comunica che l’ambiente non ha preso in modo favorevole la sua idea di tirarsi in casa un tipo losco come Somers. Se qualcosa andasse storto, sarebbe la fine della sua carriera. Per il povero Sir Harold è il panico: il futuro con Jean è andato in fumo, mentre ora rischia anche la carriera se dovesse succedere qualcosa a Suzanne. In effetti tra sua moglie e Somers alla fine la scintilla è scoppiata e quando vediamo la mano dell’uomo tirare con forza il braccio della donna possiamo legittimamente pensare al peggio. E invece no; Somers non sembra affatto uno che si tira indietro sul più bello, come sosteneva l’accusa al suo processo. Sir Harold guida come un pazzo per scongiurare il peggio e quando arriva a casa entra prudentemente di soppiatto; Somers, allertato dai rumori, ha preso la pistola. Quando capisce la trappola che il suo avvocato gli aveva teso, non la prende certo bene. Nella colluttazione parte un colpo, ad andarci di mezzo è naturalmente Suzanne. Un poliziotto della stradala aveva intanto seguito l’auto di Sir Harold, che viaggiava a velocità troppo alta; quando sente lo sparo, fa irruzione sorprendendo i due uomini. Quello più anziano ha una pistola fumante in mano; il corpo di una donna è steso sul pavimento. Davanti all’ispettore, sopraggiunto in seguito, l’avvocato prova a incastrare il suo assistito, ricordando che era stato da poco già accusato per l’omicidio di una donna; ma il poliziotto gli comunica che nuovi elementi ne hanno dimostrato l’innocenza. Allora Sir Harold ammette che c’era stata una colluttazione e il colpo era partito per sbaglio, in fondo si trattava solo di un errore, un incidente. “Mio marito ha cercato di uccidermi” è la frase che chiude ogni speranza all’avvocato. Per sua sfortuna, Suzanne non era affatto morta. Un film ben costruito, nonostante il pretesto narrativo un po’ troppo forzato, condotto con maestria e chiuso con un finale ricco di svolte e colpi di scena.


Nadia Regjn



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martedì 12 dicembre 2023

TARAS BULBA (1924)

1405_TARAS BULBA Germania,1924; Regia di Vladimir Strizhevsky e Joseph N. Ermolieff.

Nel settembre 2023, in un’intervista alla rivista italiana 7, il settimanale del Corriere della Sera, lo scrittore Andrei Kurkov ha dichiarato: «C’è troppa Ucraina [nella letteratura russa]. Il più ucraino degli scrittori classici russi è Gogol, che nei suoi libri ha reso l’Ucraina molto affascinante per l’impero russo. Ed è uno dei motivi per cui i russi non possono immaginare il loro Paese senza l’Ucraina». (Kurkov Andrei. «La colpa è di Gogol se i russi non sanno immaginare il loro Paese senza l’Ucraina» Marinelli Andrea. 7 il settimanale del Corriere della Sera. 13 settembre 2023.)
Un’opera particolarmente significativa nel senso delle parole di Kurkov è Taras Bulba, romanzo epico che racconta le gesta, a cavallo tra il XV e il XVI secolo, dei baldi cosacchi. La vicenda è infatti ambientata nell’attuale Ucraina e Taras Bulba e i suoi due figli possono, in un certo senso, raffigurare lo spirito del popolo ucraino: il protagonista è un vero cosacco, di cui il primogenito, Ostap, segue le tradizionali orme, mentre il fratello Andriy subisce maggiormente l’influenza europea occidentale, nel racconto incarnata dall’abbagliante bellezza di una principessa polacca. Gogol, per questo romanzo epico, lascia un attimo da parte lo stile satirico e infonde alla sua prosa una potenza degna degli eroi indomiti e brutali protagonisti, ma non lesina anche passioni estreme in grado di far saltare il banco. D'altronde, il Romanticismo era, nel 1835, in pieno fervore e la dichiarazione di Andriy alla bella principessa polacca, trasuda proprio ideale romantico, che l’autore, argutamente, mette in contrasto con ogni forma di patriottismo o nazionalismo. Spesso, in Italia ma anche in altri paesi, il romanticismo è associato ai sentimenti patriotici ma, se ascoltiamo le parole del figlio di Taras Bulba, che ne incarnano perfettamente lo spirito, si può facilmente notare una sostanziale alternatività. In effetti, il nodo della questione è proprio il tradimento di Andriy che, innamoratosi perdutamente della principessa polacca, passa al nemico giurato dei cosacchi, arrivando a combattere contro la propria gente. La punizione che gli infligge suo padre Taras Bulba è, agli occhi nostri, inaccettabile –lo uccide, sparandogli a sangue freddo!– ed è emblematica delle devastanti potenze che animano questi personaggi, del tutto soggetti alle proprie emozioni e incapaci di governale. Un testo pregno di tali forze primordiali è, ovviamente, manna per il cinema, tanto che il racconto di Gogol finirà ripetutamente sul grande schermo, curiosamente mai per mano ucraina. La prima versione filmata di Taras Bulba di Gogol prodotta in Ucraina sarà il modesto film televisivo A Thought about Taras Bulba, regia di Yevhen Bereznyak e Petro Pinchuk, che arriverà solo nel 2009. Una sorta di timida risposta al Taras Bulba di Vladimir Bortko, rutilante blokbuster uscito nelle sale quello stesso anno dove il protagonista diviene l’eroe russo per eccellenza e, nel quale, di Ucraina non si parla proprio. Del resto era stato russo anche il primo approccio all’opera di Gogol: nel 1909, il regista Aleksandr Drankov, uno dei pionieri del cinema russo, diresse un cortometraggio interpretato da Anisim Suslov. Ma quello di Drankov è solo un film di alcuni minuti, davvero troppo pochi per provare seriamente ad adattare il racconto Taras Bulba. La scelta del regista, per risolvere questo problema, è quella di mostrare solamente alcuni passaggi tra quelli più significativi: c’è il ritorno a casa dei figli di Taras Bulba, che li accoglie nel suo tipico modo guascone, nella quale vengono presentati i personaggi più importanti. Poi, c’è la scena dell’assedio a Dubno, con l’inserviente della principessa polacca che penetra nel campo cosacco per contattare Andriy, a cui segue il successivo fugace incontro tra i due giovani. Sbrigativamente, il cortometraggio si chiude un attimo prima dell’esecuzione di Taras Bulba, con l’eroico cosacco che si china mentre il boia è pronto con la sua ascia. Da notare che, se il film è destinato a chi già conosce il romanzo –altrimenti sarebbe incomprensibile– ci sono dettagli su cui la trama si sofferma a discapito dei tanti brani totalmente tralasciati. Ad esempio quando Taras Bulba si sveglia e sorprende il figlio Andriy abbandonare il campo con l’inserviente della principessa: è forse uno stratagemma narrativo di Drankov per rievocare con forza il racconto di Gogol, affidandosi poi alla memoria dello spettatore nei momenti mancanti. Quello citato è, per altro, un passaggio forse cruciale, nell’intenzione dell’autore, perché testimonia come il tradimento, per i cosacchi, fosse quasi inconcepibile. Infatti Taras Bulba vede Andriy andarsene con una donna, molto probabilmente proveniente dal castello sotto assedio, ma non prende minimamente in considerazione che il figlio possa passare al nemico. Nel complesso quella di Drankov è una rappresentazione che va a referto come approccio sperimentale e poco più. 

Quindici anni dopo è la volta di Vladimir Strizhevsky e Joseph N. Ermolieff, due cineasti nati nella Russia Imperiale, al tempo esuli in Germania. Ermolieff spesso è citato come co-regista anche se, in ambito prettamente tecnico, in altri casi è citato più che altro nel ruolo di supervisore; di certo era il produttore, visto che, questa versione di Taras Bulba, è uno dei tanti film di ispirazione russa realizzati dal cineasta-imprenditore negli studi Emelko di Monaco di Baviera, durante il suo esilio. L’industria tedesca, al tempo, era in crisi e questo pare fosse proprio il motivo che spinse il produttore russo a trasferirsi lì dalla Francia; approfittando della situazione contingente, Ermolieff acquistò uno studio di ripresa cinematografica nonché quote della Orbis-Films. La capacità imprenditoriale del cineasta gli permise di allestire una produzione quasi faraonica per la prima vera trasposizione del classico di Gogol: il Taras Bulba del 1924 fu uno dei film tedeschi con budget più elevato, con una troupe che contava centinaia di uomini. Anche gli interpreti scelti furono di caratura internazionale: J. N. Douvan-Tarzow, celebre attore teatrale russo, era Taras Bulba, Oskar Marion, un noto interprete austriaco, Andriy –in questa versione del classico di Gogol figura particolarmente importante– mentre per la principessa Panotschka, fu chiamata la diva Helena Makowska, attrice polacca che aveva già avuto una gran carriera, soprattutto in Italia. Un ruolo importante venne poi riservato all’ebreo Jankel, delatore presso Taras Bulba del tradimento del figlio, con la farsesca interpretazione di Alexander Polonsky che, sullo schermo, aiuta a mantenere agile il racconto. Nel quale, per altro, in ossequio alle pretese internazionali della produzione, furono eliminati tutti gli spunti estremi: non ci sono le vessazioni subite dagli ucraini, non c’è la brutalità dei cosacchi, né i pogrom contro gli ebrei e nemmeno la crudeltà dell’assedio Dubno, oltre a mancare anche tutta la parte della feroce vendetta di Taras Bulba. Il quale, tra l’altro, non muore ma fa ritorno in patria dove vive la sua vecchiaia rimpiangendo l’amaro destino dei figli. Questa versione, mondata da quasi ogni asperità narrativa, ebbe grande successo sia in Germania che in Francia, e il film ebbe una diffusione su larga scala, finendo proiettato perfino negli Stati Uniti. Un nuovo genere si affacciò quindi alla ribalta mondiale, il cinema sui cosacchi, e Taras Bulba venne definito film della settimana dalla rivista Liberté, ricevendo ottime recensioni anche su Cinemagazin così come, in generale, sulle stampa tedesca. I critici russi, che videro il film in Europa, lo accolsero invece tiepidamente; d’altra parte si trattava di un Gogol piuttosto annacquato, questo va riconosciuto. Tuttavia l’approccio all’autore russo, rispettoso e ben disposto, fu accolto positivamente; quello che non convinse la critica russa fu una certa approssimazione nelle scenografie e la scarsa dimestichezza del regista nelle scene di massa che, in un’opera come Taras Bulba, sono uno dei piatti forti. Come tutti i film realizzati dagli esuli russi fuori dalla madrepatria, Taras Bulba venne in primo luogo realizzato per essere distribuito in Unione Sovietica: proposito che, almeno stando alle cronache verificate, rimarrà vano. Secondo il ricercatore Gorelyk B. M., da cui sono tratte tutte queste informazioni, il film, infatti, non venne mai proiettato nell’URSS. I diritti, in realtà, vennero prontamente acquistati, anche perché, almeno fino al momento della realizzazione di Taras Bulba, i distributori sovietici acquistavano regolarmene film dall’estero per sopperire la scarsa offerta nell’Unione. Purtroppo, proprio in quei frangenti, per contrastare l’opera propagandistica, vera o presunta, degli esuli, l’apposita commissione definì “ideologicamente dannose” le loro produzioni e Taras Bulba fu quindi proibito in tutta l’URSS. La diffidenza verso il film perdurò a lungo, nell’Unione, nonostante quello di Strizhevsky ed Ermolieff sia sostanzialmente un onesto tentativo di conciliare le esigenze di un cinema mainstream in fase embrionale, e le spiccate peculiarità di un narratore come Gogol e della sua particolare terra d’origine. Cosa non certo facile, è vero; in ogni caso, è grazie al Taras Bulba di Strizhevsky che l’opera di Gogol ha cominciato a circolare su larga scala, come solo il cinema è in grado di consentire, è questo è senz’altro un punto a suo favore.
Le informazioni sul film Taras Bulba di Vladimir Strizhevsky e Joseph N. Ermolieff sono tratte da: Gorelyk B. M. “La prima versione straniera di Taras Bulba e il suo significato nella storia del cinema nazionale.” A cura di Vykulova V. F. “Gogol e la cultura artistica mondiale”
Copyright: Casa di Gogol – Museo memoriale e biblioteca scientifica. 2021.
Copyright: Autori. 2021.  


Helena Makowska