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mercoledì 23 agosto 2023

LA SETTA DEI TRE K

1334_LA SETTA DEI TRE K (Storm Warning). Stati Uniti, 1951; Regia di Stuart Heisler.

A fronte di un’opera come La setta dei tre K di Stuart Heisler, un quesito rischia di mettere in ombra qualsiasi altra considerazione. Il film tratta una vicenda legata al del Ku Klux Klan, una piaga diffusa nel Sud degli Stati Uniti dopo la fine della Guerra Civile Americana, ma lo fa senza tirare in ballo la questione razziale. È un’operazione corretta e coerente? Per dovere di cronaca, nel film alcune persone afroamericane fanno la loro comparsa, ma sono marginali alla traccia del racconto. A finire sotto i colpi del KKK è un giornalista, attivista dei diritti civili o cose del genere; fatto sta che dava fastidio e finisce morto ammazzato. È proprio sulla scena del delitto che si innesta la traccia della protagonista, una splendida e intensa Ginger Rogers nel ruolo di Marsha, un’affermata modella. Notare che Ginger era sulla quarantina eppure risulti decisamente credibile nel ruolo; bellissima, in forma strepitosa e sempre elegante, attraversa con la sua classe anche una storia tragica come La setta dei tre K. Tra gli altri interpreti, stupisce positivamente Ronald Regan nei panni del giudice istruttore Burt Rainey, che cerca in tutti i modi di arginare la nefasta opera del Klan nonostante l’omertà dei cittadini di Rock Point. Apparentemente gli abitanti sembrano tutti brava gente; in realtà, molti di loro sono fanatici membri del Klan e si macchiano dei crimini più odiosi. È proprio il caso di Hank (Steve Cochran), cognato di Marsha, per conoscere il quale la ragazza si era giusto fermata nella piccola cittadina. Ad attenderla aveva trovato sua sorella minore Lucy (Doris Days, giovanissima), tutta orgogliosa del buon marito che si era appena trovata: se non fosse che, proprio sotto gli esterrefatti occhi di Marsha, nascosta in un androne, era stato proprio lui ad uccidere il giornalista. Per Marsha, già scioccata dall’agghiacciante scena vista appena messo piede in città, scoprire che l’assassino era suo cognato era decisamente troppo. Di questo suo stato di debolezza ne approfitta, nel corso della storia, il giudice istruttore Rainey, che riesce a strapparle qualche informazione preziosa. Qui scatta il tipico meccanismo per cui i benpensanti provano a mettere a tacere il magistrato, per il quieto vivere, ma Rainey non ci sta. La trama ha un buono sviluppo, la Rogers illumina lo schermo con il suo charme che le riusciva utile anche nelle storie drammatiche e, sotto un certo aspetto, anche lo sguardo etico del film è rispettato. Tuttavia rimane il problema citato in apertura: perché fare un film sul KKK senza coinvolgere direttamente gli afroamericani, che erano il dichiarato obiettivo della setta? Per lo stesso quieto vivere che il film mette sotto accusa? Un dubbio mica da poco.   









Ginger Rogers 






Doris Day 



Galleria di manifesti 













lunedì 21 agosto 2023

JOE PETROSINO - LO SCENEGGIATO

1333_JOE PETROSINO - LO SCENEGGIATO . Italia, 1972; Regia di Daniele D'Anza.

Ci sono due elementi narrativamente spiazzanti ne Joe Petrosino – Lo sceneggiato: il primo, in ordine cronologico, è che il momento della verità del racconto viene svelato sin da subito, sin dalle immagini della sigla introduttiva. Joe Petrosino, interpretato in questa riduzione televisiva dal grande Adolfo Celi, muore sotto i colpi d’arma da fuoco di un misterioso mafioso. Il personaggio è storico ma è difficile pensare che più di qualcuno, in quel 1972 in cui la Rai mandò in onda la miniserie, si ricordasse di questi fatti avvenuti all’inizi del secolo. Più probabile che una certa notorietà potesse essere ereditata dagli anni Trenta, quando la rivista a fumetti L’Avventuroso pubblicò una striscia dedicata al poliziotto italoamericano realizzata da Fernando Vichi. Quelle stesse vignette usate poi come sfondo nella sigla di chiusura, ulteriore testimonianza della cura con cui Daniele D’Anza in regia, e tutti i suoi collaboratori, hanno prestato alla realizzazione di Joe Petrosino – Lo sceneggiato, giustamente considerato ancor oggi uno dei capisaldi della fiction Rai. In questo senso vanno anche citati lo scrupoloso soggetto di Arrigo Petacco, pubblicato anche come romanzo biografico da Arnoldo Mondadori Editore, su cui lavorarono in sede di sceneggiatura lo stesso D’Anza oltre a Lucio Mandarà, Fabio Gualtieri e Luigi Guastalla. Ma non si può tacere lo straordinario supporto musicale dell’opera: sotto la direzione di Romolo Grano, la colonna sonora è puntuale ed evocativa, sfruttando a dovere il motivo della sontuosa sigla introduttiva Black Hand cantata dai New Trolls; giustamente di altro tono la chiusura, affidata alla calda voce di Fred Bongusto con la sua 4 colpi per Petrosino. Ma in apertura si era parlato di due elementi spiazzanti nell’opera e manca ancora da ricordare il secondo di questi. Che è sempre inerente alla morte sotto quattro colpi di arma da fuoco del protagonista: la cosa sorprendente è che questo tragico evento non è utilizzato per una chiusura in grande stile della serie, ma sancisce la fine del penultimo episodio, lasciando tutta la puntata finale, flashback a parte, a Petrosino ormai morto. 

E’ una scelta oculata e funzionale, del resto gli autori fanno un gran lavoro di costruzione e l’opera gira come un orologio, primissime fasi di studio a parte dove si devono gettare le coordinate per un’architettura narrativa con un discreto numero di personaggi. Le numerose figure storiche, americane e italiane, hanno tutte un ruolo significativo anche in caso di piccoli parti, proprio come Storia insegna. Ad esempio, nel nefasto esito della fatale missione in Sicilia raccontata nella vicenda, cruciale è la strategia del generale Bingham (Enzo Tarascio). Il capo della Polizia Newyorkese prima organizza in gran segreto il viaggio in Italia del suo miglior agente che agirà in incognito, salvo poi rivelare in conferenza stampa tutti i dettagli della missione vanificando l’effetto sorpresa e mettendo la vita di Petrosino, nel frattempo ancora sulla nave, in evidente pericolo al suo arrivo. Cosa spinse Bingham ad una simile, assurda, scelta? L’urgenza di guadagnare i favori della piazza, come ipotizzato nel film, oppure qualcosa di ben più grave, come eliminare il suo uomo?
Altro dettaglio ben tratteggiato è la melliflua accoglienza del funzionario politico Camillo Peano (Antonio Battistella), che fa buon viso ad un evidente ingerenza americana negli affari interni italiani. Una condotta comune un po’ a tutti i rappresentanti delle istituzioni dello Stivale, ovviamente non intenzionate ad urtarsi con un famoso poliziotto come Petrosino ma neanche troppo felici di vedere quello che, origini a parte, è un funzionario straniero di un paese straniero venire a ficcare il naso nelle italiche faccende. 

Non dispiace, in questo senso, il fastidio palesemente mostrato, ma non in presenza di Petrosino, dal Questore Ceola (Mario Feliciani, molto bravo), che perlomeno risulta sincero. Bene grosso modo tutti i cattivi, sebbene manchi il personaggio di spicco: ma forse in questo modo è resa in maniera fedele la struttura ramificata della Mafia. Nel film, per la verità, l’organizzazione criminale in primo piano è quella della Mano Nera, una derivazione americana di Cosa Nostra. Massimo Mollica è bravo nel tratteggiare l’ombroso e sornione don Vito Cascio Ferro, boss americano indicato anche qui come organizzatore dell’omicidio di Petrosino; ma di buon livello anche un giovanissimo Michele Placido nei panni di Carlo Costantino, Pino Ferrara in quelli di Ignazio Lupo e Glauco Onorato in quelli Paolo Palazzotto, tra gli altri. 

Il comparto femminile del cast è assai stringato: Maria Fiore è Adelina, la povera moglie del protagonista, mentre un’altera Franca Parisi è la Baronessa Santamà, ma per il gentil sesso lo spazio è davvero risicato. L’attenzione degli autori è incentrata sulla ricostruzione storica dei fatti, almeno per come sono in genere conosciuti. E il lavoro di D’Anza e compagni è di ottima fattura, attento nei dettagli ma lasciando alla personalità degli interpreti – Adolfo Celi su tutti, naturalmente – il compito di dare spessore e credibilità alla vicenda. Se non fosse per le scenografie, apprezzabili nella loro peculiarità ma non eccessivamente credibili da un punto di vista strettamente estetico e visivo, la produzione non sfigurerebbe nemmeno in ambito cinematografico. Ma va detto che gli sceneggiati Rai, al tempo, avevano raggiunto una tale autorevolezza da imporre come credibili i propri stilemi, anche quelli che, a prima vista, potevano sembrare i loro punti deboli. In effetti spesso la televisione di stato si era concentrata su riduzione dalla grande letteratura, dove una certa dose di immaginazione era quasi naturale fosse richiesta allo spettatore. Joe Petrosino – Lo sceneggiato era invece una serie di natura storica, sebbene la matrice giallo-investigativa era una consuetudine della Rai che spesso aveva frequentato il genere con le sue riduzioni. Di cui Joe Petrosino – Lo sceneggiato è, a buon diritto, considerato uno dei fiori all’occhiello.    





Maria Fiore  

Copertine alternative 


sabato 19 agosto 2023

LE FRONTIERE DELL'ODIO

1332_LE FRONTIERE DELL'ODIO (Copper Canyon). Stati Uniti, 1950; Regia di John Farrow.

Nel noir o nel poliziesco, l’australiano John Farrow aveva già dimostrato il suo valore quando provò a prendere dimestichezza anche con il genere principe del cinema americano degli anni Cinquanta, il western. Frontiere dell’odio non è il suo esordio, nel cinema dei cowboy, tuttavia si avverte un’aria un po’ insolita, in questo godibile film ambientato appena conclusa la Guerra Civile americana. Probabilmente è un tema, quello delle conseguenze dello spaventoso conflitto intestino agli Stati Uniti noto nei nostri lidi come guerra di secessione, più canonico nei western degli anni Quaranta, mentre nel decennio successivo il tema portante fu lo scontro con gli indiani. In effetti il film uscì un po’ a cavallo tra i due periodi e, se l’argomento riprende temi del decennio appena trascorso, la regia consapevole di Farrow, la fotografia dai colori caldi di Charles Lang e la musica di Daniele Amfitheatrof, fanno pensare già alla golden age del genere, quella dei classici. Anche il cast ripresenta questa atipica atmosfera: i nomi degli attori sono altisonanti, tuttavia nessuno di loro è una specialista dei western. Ray Milland è Johnny Carter, il protagonista, e non era certo un habitué del genere, e forse anche per questo si presenta nei panni di una sorta di artista della pistola, ruolo altrettanto insolito. Dal canto suo Hedi Lamarr è addirittura all’esordio, nel western, per quanto se la cavi grazie all’insuperabile bellezza per dar corpo a Lisa Roselle, una specie di femme fatale che non sembra mai cattiva come la descrivono. 

Più vissuto è l’apporto di Macdonald Carey che si assume la parte del villain Lane Trevis e, nel suo caso, è il fatto che sia il vicesceriffo del paese a metterci un’altra pulce nell’orecchio. Ma che razza di western è, Le frontiere dell’odio? I nordisti sembrano quelli dalla parte del torto, l’eroe è una specie di gambler, il cattivo un vicesceriffo, la ragazza bellissima, quella destinata al protagonista, è una poco di buono, o almeno ce la vendono come tale. Va ricordato che siamo nel 1950 e non in uno spaghetti-western o in un western-crepuscolare, dove il ribaltamento dei temi e dei cliché era ormai la norma. In effetti, al momento cruciale, grosso modo tutto rientra nei canoni generali del genere: Carter si rivela essere effettivamente il colonnello Desmond, un glorioso ufficiale confederato, e guida i buoni alla riscossa contro il vicesceriffo e i suoi sgherri, che gettano infine la maschera. Il tenente Ord (Harry Carey Jr), con la sua tenera storiella sentimentale con la dolce Caroline (Mona Freeman), riscatta l’onorabilità dei nordisti e via di questo passo per un quadro complessivo meno insolito, almeno rispetto alle premesse. Il film non è un capolavoro ma un solido western lo è di sicuro e si fa ricordare, comunque, proprio per queste note fuori dal consueto. L’eroe che viaggia in incognito e si nasconde facendo l’artista da baraccone, la splendida dark lady che non è cattiva e non prova nemmeno simpatia per il suo losco complice – il vicesceriffo – e la situazione storica in cui, tra i vincitori, ci fu chi approfittò oltre il lecito delle condizioni favorevoli a guerra conclusa. Non certo gli ingredienti ideali da assimilare tra loro in un western del tipo classico ma Farrow ha abbastanza manico per riuscirci. E senza mai farci venire neanche un dubbio in merito.  


Hedy Lamarr 





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