Translate

sabato 18 febbraio 2023

GUILTY BYSTANDER

1224_GUILTY BYSTANDER Stati Uniti, 1950; Regia di Joseph Lerner.

Poliziesco cupissimo ambientato in una New York quasi irriconoscibile, Guilty Bystander di Joseph Lerner lascia basito anche il più scafato spettatore. L’epoca è quella del noir americani ma il film di Lerner non ha l’ombra della poesia di quel tipo di film; non ci sono dark lady affascinanti o eroi sul punto di cedere, ma solo un’umanità immersa nel crimine e nel malaffare. Ci sono anche le istituzioni positive, sia chiaro: in fondo il protagonista, Max Thursday (Zachary Scott) ne rappresenta ben due. Ma in chiave degradata, come prevedibile visto il contesto: è un ex poliziotto e un ex marito. La polizia è quindi lasciata un po’ fuori, da questa storia che verte sul misterioso rapimento di Jeff, il piccolo figlio di Max; in ogni caso, quando viene chiamata in causa, non è che si affanni troppo. Diverso il rapporto con la famiglia: l’ex moglie Georgia (una Faye Emerson un po’ spenta) si rivolge a lui quando è disperata per via del citato rapimento. Ma in qualche passaggio, non certo edificante, chiarisce in modo quanto mai esplicito che non le interessa se Max finirà ammazzato nella ricerca di Jeff. In effetti l’amore verso il piccolo, da parte della madre ma soprattutto da parte di Max, è l’unica nota positiva del racconto. Il protagonista è un alcolizzato che ha perso il lavoro in polizia per questo motivo ed ora, abbandonato anche dalla moglie, è alla completa deriva. La notizia del rapimento lo scuote e il film si snoderà seguendo la sua ricerca tra i mille intrighi del malaffare di una New York raramente squallida come in questo caso. Perfino la presunta dark lady della storia, Angel (una sfiorita Kay Medford) è ingannata dal protagonista, che non esita poi a scagliarla contro i gangster di turno per farsi scudo. Un comportamento inqualificabile, a cui non basta la giustificazione del figlioletto rapito, per quello che è in definitiva l’eroe della nostra storia. La donna se ne andrà piangendo, umiliata per il trattamento poco galante ricevuto più che per le conseguenze della baruffa: nelle sue lacrime, per quando non è che si tratti di un personaggio memorabile, c’è un po’ dell’amarezza di veder calpestate in questo modo le ultime tracce di cavalleria che pure nel noir o nei polizieschi dell’epoca venivano conservati quasi gelosamente. Ma Max è un personaggio così, prendere o lasciare; non sorprende, in fondo, se la mente dietro tutte le malefatte del film sia Smitty (Mary Boland), la grassona, presunta amica sua, presso il cui hotel l’uomo si era rifugiato. E questo la dice lunga sul fiuto che, in qualità di ex poliziotto, l’uomo avrebbe dovuto comunque avere. Nel complesso il film è godibile, con almeno un personaggio memorabile: Otto Varkas (J. Edward Bromberg), boss criminale non certo aitante – Bromberg era piccolotto e paffuto – che, tra uno scatto di nervi e un passaggio viscidamente amichevole, si controlla ripetutamente la pressione arteriosa premendosi le dita sul polso. Il finale, grazie al ritrovamento di Jeff, vede il magico ricomponimento della famiglia, col piccolo accompagnato da Max e Georgia felicemente di nuovo insieme. La scena, illuminata e ambientata in una ridente campagna, sembra presa da un altro film. E convince quindi ben poco. 


Faye Emerson 



  Mary Boland 


Kay Medford 


Galleria di manifesti 




giovedì 16 febbraio 2023

BANDOLERO!

1223_BANDOLERO! Stati Uniti, 1968; Regia di Andrew V. McLaglen.

Raquel Welch vale sempre la pena di essere vista, e non fa eccezione nemmeno questa volta. Per la verità, in quest’occasione, il suo personaggio è tirato in mezzo sempre un po’ controvoglia, ma certo non può essere quello il motivo per cui, alla fin fine, almeno un poco deluda. Maria, la donna messicana interpretata dalla Welch, prima viene comprata da mister Stoner, divenendo così la signora Stoner; poi viene presa ostaggio dai banditi in fuga mentre è ostinatamente inseguita dallo sceriffo July Johnson (George Kennedy), che sembra avere più interesse nei suoi confronti rispetto ai fuggiaschi. Non è un tipo che lascia indifferenti: tutti la desiderano, i banditi come anche lo sceriffo che infine la salverà, senza per altro conquistarla. Ma pur con tutto questo turbinare di uomini attorno, la povera Maria concluderà poco: il marito era un brav’uomo, come del resto lo sceriffo, ma niente più. Meglio i fratelli Bishop, pur se stanno tra i banditi; anzi, meglio uno di loro in particolare, Dee Bishop (Dean Martin): una bella storia d’amore che però rimane solo potenziale, mai consumata. Ecco, la storia di Maria, contesa tra tanti uomini e tanti pericoli, fila via scorrevole ma alla fine le manca il mordente: un po’ come al film. Piacevole, o al massimo poco di più. McLaglen scomoda pure James Stewart (nella parte dell’altro Bishop, Mace), trova una buona trama (bella l’idea della forca), gira con solido mestiere (dialoghi e situazioni con cadenze e rimandi al tempo giusto) ma un po’ come al solito gli manca la zampata che lasci davvero il segno. 

Il regista tenta di mediare tra varie componenti, e ripropone un film sulla frontiera dal sapore vagamente classico, con inserti presi dal western crepuscolare o dagli spaghetti-western (la polvere, la colonna sonora, l’ambientazione messicana): operazione un po’ artificiosa ma svolta diligentemente. Gli attori, chi più chi meno, fanno la loro parte: il più convinto è George Kennedy, lo sceriffo spasimante di Maria; di contro la Welch è bella ma non ha un ruolo realmente incisivo; Dean Martin è bravo, ma non regge il ruolo di vero leader, anche perché il carisma Stewart è troppo ingombrante; il vecchio Jimmy, dal canto suo, ha un ruolo un po’ fuori dai suoi schemi e lo interpreta in modo un po’ beffardo; comunque se la cava, sia chiaro. Qualche volta è un po’ inopportuno, quando sbuca sullo schermo nelle scene romantiche di Martin e della Welch, ad esempio; ma la scena in cui minaccia con la pistola il vecchio bandito, quasi ci riporta il James Stewart dei film di Anthony Mann. Il finale del film è sorprendente ma, ancora in questo frangente, l’opera tradisce un po’ le ambizioni, non avendo la portanza tragica che si prefiggeva. Godibile, si diceva, ma un po’ di rammarico rimane; certo, ripensando al paragone tra il film e il personaggio di Maria, alla donna è certamente andata peggio.




Raquel Welch 







Galleria di manifesti 







mercoledì 15 febbraio 2023

LA SIRENETTA (1989)

1222_LA SIRENETTA (The Little Mermaid)Stati Uniti, 1989; Regia di John Musker e Ron Clements.

Sul finire degli anni Ottanta la gloriosa galleria di classici Disney sembrava destinata ad un inevitabile declino. Dal 1973, anno di uscita di Robin Hood, lo studio aveva prodotto poco e quasi mai in modo convincente: al botteghino memorabile rimane il fiasco di Taron e la pentola magica (1985), ma non è che gli altri lungometraggi avessero ottenuto questi maggiori consensi. Se spesso può non essere particolarmente indicativo riferirsi al successo commerciale di un film per valutarne la qualità, con i film Disney, esplicitamente rivolti ai ragazzi, il dato è più interessante. Difficilmente un film Disney che ottiene un grande successo è un’opera mediocre: se il racconto riesce a catturare il pubblico giovane per l’ora ben abbondante della tipica durata, siamo di fronte ad un lavoro fatto come si deve nel peggiore dei casi. Qualcosa, probabilmente in termini di magia Disney più che di bontà del racconto in sé, ai classici dell’opaco periodo citato doveva quindi mancare. Poi, nel 1988 uscì nelle sale Chi ha incastrato Roger Rabbit? del geniale Robert Zemeckis che dimostrò in modo quanto mai lampante che i film di animazione potevano rientrare perfettamente nei gusti del pubblico del tempo. Bastava fare film notevoli, che avessero forza: capolavori, insomma. La Disney colse subito la palla al balzo. Ancora una volta, lo studio di Burbank per imprimere una svolta decisiva alla sua galleria, ricorse al versante femminile, quello delle Principesse, che ne era il vero marchio di fabbrica. Il primo classico, infatti, quello che inaugurò la serie, fu Biancaneve e i Sette Nani (1935) e dopo un qualche anno di appannamento, legato anche al periodo bellico, nel 1950 fu Cenerentola a rilanciarla alla grande. Adesso, nel 1989, era il turno de La Sirenetta, capolavoro musical ispirato alla celebre fiaba di Hans Christian Andersen. 

Il successo fu tale che, anche grazie alla qualità dei successivi classici, si parlò di Rinascimento Disney. La bontà de La Sirenetta è che si fonda su due aspetti che erano i tipici punti di forza dell’epoca d’oro e che dalla metà degli anni Settanta sembravano invece essere scaduti e obsoleti. Sono due elementi evidenti e chiari sin da subito, non ci sono equivoci e anzi il film vi punta sopra in modo convinto: innanzitutto, La Sirenetta si basa su una storia sentimentale, la più romantica possibile. Non ci sono mezze misure: Ariel si innamora perdutamente a prima vista del principe Eric e decide di rischiare il tutto per tutto per seguire il suo cuore. Ai tempi, sul finire degli Ottanta, erano anni che nei classici Disney certe sdolcinature si vedevano assai raramente; chissà, forse era stato anche lo scarso appeal che aveva riscontrato La Bella Addormentata nel Bosco (1959), il capolavoro assoluto in senso grafico artistico, a far accantonare il tema romantico allo studio. Dalle gesta della bella Aurora dovettero passare 30 anni perché un’altra canonica principessa salisse alla ribalta su uno schermo di un classico Disney: e Ariel non deluse le attese.  Moderna, spigliata, curiosa, dinamica e avventurosa ma anche romantica e sentimentale, la Sirenetta del film Disney seppe incarnare in modo mirabile le aspirazioni e i sogni delle ragazze del tempo. L’altro punto di forza del film furono le canzoni. Ai tempi, il musical attraversava un buon momento, eppure per un lungo periodo si preferì evitare o limitare le canzoni nei classici Disney. Da un certo punto di vista, la scelta probabilmente rispondeva simbolicamente a certe lamentele di quei ragazzi che nelle platee dei cinema si erano spesso dimostrati insofferenti durante le canzoni che interrompevano il racconto filmico. 

In effetti le canzoni dei classici erano un elemento a due facce: se spezzavano eccessivamente il ritmo, potevano infastidire, ma era anche vero che, nel caso fossero pezzi trainanti, divenivano un volano eccezionale per il film stesso. Di fronte a qualche possibile lamentela per un po’ di noia che poteva affiorare durante i brani musicali, la risposta giusta non era eliminare le canzoni, come avvenne per ben quattro classici consecutivi tra i Settanta e gli Ottanta, ma scrivere pezzi memorabili e travolgenti. Come il calypso In fondo al mar (di Alan Menken e Howard Ashman) straordinario brano cantato dallo strepitoso granchio Sebastian, vincitore del premio Oscar come miglior canzone nel 1990. Ma tutta la colonna sonora de La Sirenetta è eccezionale, tanto che ai tempi si disse che era il film d’animazione che per primo era riuscito a cogliere lo spirito dei musical di Broadway. 

Il romanticismo e la musica, due degli elementi cardini della Golden Age dei classici, venivano quindi completamente riscoperti dopo anni in cui erano stati sostanzialmente ignorati, e queste scelte furono le fondamenta per il Rinascimento Disney. Ma c’era un altro elemento che da un po’ di tempo mancava, forse anche da un tempo maggiore rispetto al romanticismo e alla musica: un cattivo davvero cattivo. In parte perché con la rivoluzione culturale legata al ‘68, l’idea di cattivo in sé e per sé era un po’ scaduta, dando luogo a personaggi più sfumati, anche nella narrativa per ragazzi. In parte perché laddove si era cercato di tratteggiare un bel cattivone si era poi sostanzialmente mancato l’obiettivo per un motivo o per l’altro, fatto sta che l’ultima cattiva degna di vera considerazione in un classico Disney risaliva al 1961: Crudelia de Mon. Ne La Sirenetta, l’idea di ricorrere alla Drag Queen Divine come fonte di ispirazione per Ursula fu geniale: il mondo del travestitismo offriva un universo di spunti in genere ignorati dal cinema mainstream e la definizione caratteriale di questo villain disneyano poté farne man bassa, seppur in modo discreto, risultando nel suo ambito, quello dell’animazione, perfino nuova e originale. Inoltre, le scene in cui Ursula riceve la voce di Ariel in cambio del suo satanico patto, è particolarmente spaventosa così come, del resto, anche il finale con lo speronamento subito dalla cattiva è esplicito al punto da sembrare splatter. Insomma, gli autori calcano la mano sui passaggi forti, spaventosi o comunque d’impatto, per compensare il romanticismo del versante sentimentale della storia. Con la musica di Sebastian in sottofondo a creare la giusta alchimia, la magia Disney è assicurata al cento per cento. Se ci si ricorda quelli che erano i tempi, si può facilmente convenire che La Sirenetta fu capolavoro di coraggio. Oltre che un capolavoro in senso assoluto, questo senza alcun dubbio.



Ariel






Ursula 


Galleria di manifesti 


lunedì 13 febbraio 2023

7 SCONOSCIUTI A EL ROYALE

1221_7 SCONOSCIUTI A EL ROYALE (Bad Times at the El Royale)Stati Uniti, 2018; Regia di Drew Goddard.

Nonostante sia un cineasta polivalente, principalmente produttore e sceneggiatore, prima di 7 Sconosciuti a El Royale Drew Goddard si era cimentato alla regia solo una volta, con Quella casa nel bosco nel 2011. Ma forse in virtù dell’esperienza più generale nell’ambito cinematografico, Goddard si rivela subito capace anche dietro la macchina da presa: era stato bravo ad interpretare l’horror nel suo esordio e qui è addirittura in grado di realizzare un film, 7 sconosciuti a El Royale che richiama fortemente il cinema meta-nostalgico di Quentin Tarantino o qualche esempio di quello dei fratelli Coen. Non uno genere specifico, quindi, ma un modo di fare cinema molto in voga, certo non limitato agli autori citati ma comunque abbastanza peculiare, che Goddard, a livello formale, riesce a ricreare con competenza. Del resto anche Quella casa nel bosco aveva una fortissima connotazione metalinguistica che, a questo punto, potrebbe proprio essere la cifra poetica del regista. Dopo i cliché horror del precedente film, stavolta Goddard si cimenta con  quelli di questi nuovi thriller autoreferenziali. Ambientazione anni Sessanta, décor dettagliatissimo, fotografia dai colori caldi, attenzione maniacale alla musica, violenza talmente estrema da risultare astratta, utilizzo dei flashback e della scomposizione della linearità temporale, impiego di didascalie anche formalmente bizzarre: insomma, un concentrato di tutte, o quasi, le caratteristiche di questo tipo di film. L’insieme funziona sia per l’abilità di Goddard, che si è detto è anche valente sceneggiatore – il che non guasta mai – sia per il cast a dir poco sorprendente. Nientemeno che Jeff Bridges è Padre Flynn poi, tra gli altri, c’è Chris Hemsworth nel ruolo del folle Billy Lee mentre Dakota Johnson è Emily e la debuttante Chintya Erivo la vera protagonista, la cantante Darlene Sweet. 

Quest’ultima è l’unico personaggio che in qualche modo potrebbe rientrare nei canoni di quelli che al cinema un tempo venivano considerati buoni: in effetti lei vorrebbe unicamente fare quello che ama, cantare, ma la vita la pone d’innanzi a più di qualche difficoltà. Poi, quando le si para davanti la possibilità di arricchirsi con denaro rubato non sembra farsi il minimo scrupolo per via dell’ambigua provenienza dello stesso. Il che qualche dubbio sulla sua dirittura morale ce lo pone, ad essere onesti; ma vabbè. Anche Padre Flynn eticamente non è proprio malaccio, come personaggio: non sarà un prete vero ma ha una sua specie di morale, sebbene l’aver scontato la pena per la rapina, e averci in questa perso il fratello, non lo rende legittimamente proprietario dei dollari rubati. Il punto, o quello che si potrebbe presumere che lo sia, è che nel film non ci sono vere possibilità di scelta: si va da personaggi presi dalla politica istituzionale, con i continui riferimenti impliciti a JF Kennedy, ad altri presi dalla contestazione del sistema, laddove Billy Lee ricorda i rivoluzionari pazzi alla Charles Manson, tutti quanti accomunati dalla sintetica descrizione che ne dà Darlene Street: gente che vuole incantarti con le parole ma che, alla fin fine, vuole unicamente fottere chiunque. Può bastare a giustificare la sua scelta di accettare l’offerta di Padre Flynn e diversi il bottino? 

Siamo sul finire degli anni Sessanta, la citata contestazione è appena cominciata, eppure, anche grazie al Vietnam, tirato in ballo dall’impiegato dell’hotel El Royale, Miles Miller (Lewis Pullman), si è capita la vera natura del Sogno Americano. Forse c’era qualcuno in buona fede che ci credeva, come l’agente Sullivan (Jon Hamm) che disobbedisce agli ordini che gli intimano di fregarsene del rapimento a cui gli capita di assistere, visto che l’unica cosa che conta è recuperare i filmini compromettenti che potrebbero infangare la memoria del presidentissimo. Ma l’onesto Sullivan, dedito soltanto ad un banale doppio gioco, dura pochissimo in una simile contorta e corrotta situazione: Rose (Cailee Spaeny), la rapita, è una pazza pericolosissima mentre sua sorella Emily, la rapitrice, è meno folle ma non meno pericolosa. Nell’assoluta mancanza di valori positivi, se non nella disperata delusione di Darlene, il film non sembra darci scelte ma, in compenso, ci pone subito di fronte ad un bivio: anche simbolicamente l’El Royale è infatti spaccato in due dalla linea di confine tra California e Nevada. Il film quindi è costretto, proprio come i suoi personaggi, a fare una scelta anche se sembra un filo assurda, del tutto virtuale e non molto significativa. Comunque c’è una decisione narrativa da prendere, praticamente inevitabile, e quindi si va avanti. Ci rimane sul gozzo, almeno al livello ideologico, la questione del bottino che non è risolta in modo pulito, sia chiaro. Eppure, alla fine, sentendo Darlene cantare, non possiamo che condividere la scelta di Goddard. La sua voce, che ce ne saranno anche di migliori – come sostiene Billy Lee – ma è bellissima, sembra perfino in grado di guarire un personaggio discutibile come Padre Flynn.
E, per un’ora e mezza, anche noi. 




Chintya Erivo


Dakota Jhonson 


Cailee Spaeny


Galleria di manifesti