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mercoledì 23 ottobre 2024

JUDGMENT DEFERRED

1565_JUDGMENT DEFERRED. Regno Unito 1952; Regia di John Baxter

Per essere un piccolo B-movie girato in economia, Judgement Deferred di John Baxter si prende come riferimento nientemeno che M - Il mostro di Dusseldorf di Fritz Lang, da cui il tribunale dei senzatetto che si riunisce in una cripta è un evidente ma ingombrante debito. Peraltro, il film riprende molti elementi già visti in Doss House, film del 1933 dello stesso Baxter, a testimonianza dell’interesse del regista per queste tematiche e per le ambientazioni nei ceti sociali più disagiati dell’Inghilterra post bellica. Il lungometraggio può essere ascritto al «genere» crime, e si apre con l’ingiusta condanna a Bob Carter (Fred Griffiths) per traffico di droga. In realtà il colpevole è Coxon (Elwyn Brook Jones), un laido boss malavitoso, forse il miglior personaggio dell’intera storia. Nominalmente, il protagonista è il reporter David Kennedy (Hugh Sinclair), affiancato dalla bella e algida moglie Helen (Kay), ma si tratta, tutto sommato, di figure ordinarie. Più interessanti i personaggi che si riuniscono nella citata cripta, sorta di covo dei disagiati, tra cui si possono segnalare il Cancelliere (Abraham Sofaer), Dad (Bransby Williams) e Flowers (Leslie Dwyer). Ma Judgement deferred è ricordato, doverosamente, per il primo ruolo di rilievo di Joan Collins: nel film la giovanissima attrice inglese, non ancora ventenne, è Lil, figlia di Carter, l’uomo ingiustamente accusato all’inizio del racconto. Lil è una ragazza piuttosto intraprendente e non esista a chiedere aiuto ai senzatetto della cripta, debitori nei confronti di suo padre, se la giustizia ordinaria si rivela tanto ostile. Il racconto filmico fa quindi un balzo di un paio d’anni, nei quali Carter passa da recluso ingiustamente ad evaso, ma quello che stupisce è trovare Lil divenuta una ragazza di strada, capace anche di prendere a pistolettate il cattivo della storia per vendicarsi, dopo essersi addirittura arrampicata sul tetto di un edificio. Ci penseranno David ed Helen a salvarla dalla brutta strada prima nella scena finale che, come anticipato, riprenderà il processo a Peter Lorre in M – Il mostro di Dusseldorf. Lil è al banco dei testimoni dell’accusa, nell’improvvisato tribunale dei senzatetto allestito nella cripta, Coxon finalmente su quello degli imputati. Il finale, per altro, è particolarmente interessante: Coxon, già sfuggito dalla Giustizia ufficiale, sul più bello, si sottrae anche alla condanna dei disadattati, grazie al provvidenziale intervento dei suoi tirapiedi. I gangster hanno interrotto il processo a suon di colpi di pistola, e, lanciato una fune a Coxon, lo stanno issando per svignarsela, in barba a tutti quanti, quando la struttura cede e seppellisce tutti i cattivi della vicenda. L’inquadratura che chiude Judgement deferred è un carrello ascensionale sull’architettura gotica della chiesa sovrastante la cripta, e sembra indicare che l’unica giustizia davvero efficace sia quella divina. Come detto, Joan Collins era al suo primo ruolo di rilievo, benché non fosse certo la protagonista: tuttavia è evidente che la sua presenza scenica, nonostante l’aspetto non sia affatto sofisticato ma sia quello di una semplice ragazza del popolo, si mangi letteralmente il film. Oltre a ciò, Joan dimostra una sorprendente capacità di interpretare a dovere i differenti passaggi che il copione le sottopone. È credibile come figlia di un padre vittima di un’ingiustizia, come ragazza di strada e, nel confronto finale in tribunale, regge perfettamente la tensione della situazione: è nata una stella.





Joan Collins 

martedì 9 gennaio 2024

GLI ANGELI CON LA FACCIA SPORCA

1419_GLI ANGELI CON LA FACCIA SPORCA (Angels with dirty faces). Stati Uniti 1938; Regia di Michael Curtiz.

C’è una sorta di analogia tra le vicende private di James Cagney e quelle del suo personaggio ne Gli angeli con la faccia sporca, film di Michael Curtiz del 1938. Il lungometraggio –insieme al coevo Boys meet Girls, regia di Lloyd Bacon– segnò il suo rientro alla Warner Bros dopo un paio d’anni di allontanamento e battaglie legali con lo studio. Analogamente, Rocky Sullivan, il protagonista di Gli angeli con la faccia sporca, fa ritorno a casa dopo un breve soggiorno in carcere. A rincarare la validità del parallelo –altrimenti piuttosto labile, bisogna riconoscerlo– c’è anche la questione del tipico ruolo interpretato da Cagney, che ha trame che riecheggiano anche nella storia raccontata dal film di Curtiz. La Warner aveva sì riaccolto l’attore –dopo aver perso la causa, questo va precisato– e con la citata commedia di Bacon avevano assecondato il desiderio di Cagney di variare un po’ il suo registro interpretativo. Ma, quello che premeva allo studio, era tornare agli argomenti che garantivano maggior incassi quando c’era di mezzo Cagney, ovvero i crime-movie. Gli angeli con la faccia sporca arrivò giusto a pennello, perché era un film coi gangster, ma permetteva all’attore di imprimere una svolta al suo cliché nel merito. Che è poi quello che, in maniera drammaticamente enfatizzata, capita a Rocky, alla fine del film di Curtiz.
La pellicola segue le vicende di Rocky Sullivan (Cagney, appunto), che, uscito di galera, torna al quartiere natio. Il vecchio amico e compagno di piccoli reati, Jerry Connolly (Pat O’Brien) s’è fatto prete: al tempo, fu il più lesto a scappare, mentre Rocky fu preso e finì al riformatorio. 

In questo dettaglio della sceneggiatura, la spiegazione che, a volte, la fortuna incide in modo cruciale nella vita di ognuno. Padre Connolly, forse anche in debito moralmente per l’amico, al tempo solo più sfortunato, prova a convincere Rocky a cambiar vita. Nell’alloggio in cui si sistema temporaneamente, Rocky incontra Laury (Ann Sheridan), che un tempo era una mocciosetta ma ora s’è fatta più che carina. Infine si reca finalmente dal suo avvocato, Frazier (Humphrey Bogart), che gli deve i soldi della rapina per cui il nostro protagonista si è sciroppato i tre anni di carcere. L’arrivo di Rocky mette Frazier a disagio, in parte perché non se lo aspettava ma, soprattutto, perché non ha affatto intenzione di rendere il denaro al suo assistito. Frazier si è ora associato con Mac Keefer (George Bancroft) con il quale conta di eliminare Rocky dalla partita. Ma, più che le beghe tra gangster, con Rocky che si dimostra ovviamente un osso troppo duro per i rivali, parallelamente il film intesse un’altra traccia, certamente più interessante. Un gruppo di teppistelli (i Dead End Kids) deruba Rocky salvo poi trovarselo ad attenderli proprio nel loro rifugio. Appreso che questi è il famoso Rocky Sullivan, i ragazzi restituiscono il maltolto e diventano autentici fan del gangster. Guarda caso, i giovani sono oggetto del tentativo di conversione da parte di Padre Connolly, che cerca di tenerli lontano dalla strada facendoli giocare a basket. 

L’intervento di Rocky è visto con preoccupazione da Laury e Connolly, perché potrebbe facilmente vanificare i loro sforzi e riportare i ragazzi sulla brutta via. Invece il gangster si dimostra attento nei confronti dei giovani, sebbene non abbia intenzione di cambiare vita né tantomeno sfuggire al suo destino che, in qualità di bandito, è inevitabilmente tragico. Dopo qualche “convenevole tra vecchi amici”, nei quali si annoverano un tentativo di omicidio e un rapimento, Rocky sembra aver ripreso il suo posto in seno alla malavita locale, in compagnia di Frazier e Mac Keefer. Nel frattempo, Padre Connelly prosegue la sua campagna mediatica contro la criminalità organizzata, parlandone anche alla radio. Nonostante abbiano rassicurato Rocky che la cosa non avrà conseguenze, Frazier e Mac Keefer non intendono tollerare l’attività del prete e progettano di eliminarlo. Rocky scopre il loro piano e risolve la questione alla sua maniera: sfortunatamente per lui, nelle fasi concitate che seguono al regolamento di conti, finisce al cimitero anche un poliziotto.   
E così, nel finale, si arriva al punto cruciale, dopo che Rocky è stato catturato dalla polizia e condannato alla sedia elettrica: nell’ultimo colloquio con l’amico Padre Connolly, questi gli chiede di morire vigliaccamente. Solo così potrà perdere quell’aurea eroica che ancora lo circonda e che ha tanta presa sui ragazzi del quartiere. Anzi, se andasse incontro alla morte con la sua tipica baldanza la sua influenza nefasta sarebbe inarrestabile. Ma il gangster non intende fare concessioni all’amico prete: che lo ammazzino pure, farà vedere a tutti di che pasta è fatto Rocky Sullivan. Un comportamento in linea con il tipico ruolo interpretato da Cagney nei suoi film sulla malavita, almeno fin lì. Poi, a pochi metri dalla sedia mortale, il condannato ha un ravvedimento e asseconda la richiesta di Padre Connelly: ai ragazzi raccontate pure che Rocky Sullivan morì da codardo. In fondo, il cinema non è l’arte della verità ma della finzione, e riesce ad essere più utile quando racconta bugie.
Persino più vero.  
 



 




Ann Sheridan 



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sabato 11 novembre 2023

KILLERS OF THE FLOWER MOON

1390_KILLERS OF THE FLOWER MOON . Stati Uniti 2023; Regia di Martin Scorsese.

C’è da fare una precisazione, anche prima di dire che Killers of the Flower Moon è un capolavoro: i 206 minuti di lunghezza, dell’ultimo film di Martin Scorsese, non sono troppi. Perché se c’è una cosa che, almeno andando a fiuto, sembra mettere d’accordo tutti, è che Killers of the Flower Moon sia esageratamente lungo. Ma non è così.
In ogni caso, prima di addentrarci nello specifico del film, c’è un altro elemento che salta prepotentemente all’occhio con Killers of the Flower Moon: Martin Scorsese ha fatto un western. Il cineasta di origini italiane è spesso additato, giustamente, come il più grande regista americano in circolazione. L’importanza del cinema americano è legata, al netto di Altman, del “Sundance Film Festival” o di quello che si vuole, ai suoi generi classici. Tra questi, due hanno probabilmente più rilevanza nella caratterizzazione a stelle e strisce del media cinematografico: il western e il poliziesco. Il cinema western è importante a livello collettivo, è l’epica della nazione americana, la sua celebrazione. Il poliziesco è di matrice più individuale, perché mette di fronte l’uomo al “Male”. Le varie sfaccettature che assume quest’ultimo tipo di narrativa, sono caratteristica della scuola che la produce. I Gialli alla Agata Christie e Arthur Conan Doyle, sono indagini in cui il Male è circoscritto e turba relativamente il protagonista di turno, prendete Sherlock Holmes per capirci. Gli americani, che rispetto agli inglesi hanno una matrice più pratica, non solo mettono al centro della scena investigatori non del tutto immacolati, pensate a Dirty Harry, l’ispettore Callaghan interpretato da Clint Eastwood, ma ribaltano sin dai primi anni del secolo scorso il punto di vista da cui osservare. Se gli yankee hanno il riconosciuto merito di aver messo come protagonista del loro tipico racconto l’uomo comune, i “John Doe” dei film di Frank Capra –e non il principe o, nel migliore dei casi, il povero-però-dalle-nobili-origini della tradizione europea– è con il crime-movie, ulteriore sfumatura del poliziesco, che compiono davvero l’opera. Nei film di gangster, il personaggio principale è un criminale: e Martin Scorsese, per celebrare la vera natura del suo paese, sceglie questo genere. I suoi “bravi ragazzi” raccontano l’America meglio di chiunque altro; manca però qualcosa. Scorsese era già, nel 2022, il più grande regista americano ma non l’aveva detta davvero tutta. I gangster, per come li intendiamo, erano entrati in scena a partita già iniziata, si erano eretti protagonisti di una società che, è evidente, palesava alcuni problemi di cui loro erano appunto una delle espressioni. Non si può, insomma, raccontare l’America senza il western, anzi, per essere più specifici, senza la questione indiana, e, finalmente, nel 2023, Scorsese colma questa sua lacuna. 

L’America nasce da una brutale ingiustizia più o meno tacitamente accettata ed è curioso che poi il paese si sia eretto come simbolo di libertà e garanzia a livello internazionale. Non si tratta di retorica antimperialista, sia ben chiaro, ma la pura e semplice realtà storica. Dalla quale, sostanzialmente, Scorsese decide di partire. Ai più distratti, sul principio, potrà anche essere sembrato che l’autore italoamericano si sia inventato un western distopico, dove gli indiani fossero i ricchi e i bianchi facessero loro da tirapiedi. Al contrario, si tratta di un fatto storico laddove la realtà supera la fantasia. Gli Osage, una tribù di nativi americani, cacciata dalla propria terra d’origine, finì relegata nell’inospitale Oklahoma, dove, ironia della sorte, fu trovato il petrolio proprio all’inizio della civiltà dell’automobile. Gli Osage si ritrovarono di colpo ricchissimi e la Storia tornò, come suo solito, a ripetersi. Gli indiani avevano qualcosa, prima una terra sconfinata ora il petrolio, su cui i bianchi metteranno gli occhi e poi le mani rapaci. La differenza sostanziale di questi due fatali rapine su larga, larghissima scala, sono giusto una cinquantina d’anni, quelli che passano tra l’apice dell’epopea del far west classico e gli anni venti del XX secolo in cui è ambientato Killer of the Flower Moon. E sono anche gli anni che permettono a Scorsese di far coesistere legittimamente il western con i suoi amati gangster movie, chiudendo a suo modo il cerchio. Il buon Martin sembra quasi voler dire: d’accordo, il western è indispensabile in un affresco dell’America ma i gangster sono la vera chiave che permette di risolverlo. Nel film, il gangster di riferimento è, manco a dirlo, Robert De Niro, nei panni del personaggio storico di William King Hale, zio di Ernest Burkhart, interpretato con magistrale mimetismo da Leonardo Di Caprio, fulcro centrale del racconto. 

Come detto, siamo nei roaring twenties, i ruggenti anni 20; anni rombanti, d’accordo, ma non si può più chiudere la questione indiana a revolverate. Va beh, non solo, almeno, visto che i morti indiani ammazzati da colpi di arma da fuoco non furono certo pochi anche nella vicenda degli Osage raccontata nel film. Occorre un po’ di mestiere, un po’ di maniera, un po’ di savoir-faire, e qui entra in gioco King Hale. Perché i gangster altro non erano che volgari criminali vestiti a festa, brutali banditi che si presentavano però come autentici gentleman. In questo, in questa loro ipocrisia, c’è già il lato oscuro dello spirito liberal americano e l’embrione del politicamente corretto tanto in voga adesso. L’attenzione formale è uno degli aspetti più curiosi di tutta quanta l’epoca dei gangster, basti dire, a titolo di curiosità, che Al Capone finirà arrestato per evasione fiscale e non per gli omicidi seminati: un caso, o meglio un pretesto, è evidente. Ma, a voler pensar male, sembra quasi che per gli americani siano più importanti i soldi piuttosto che la vita delle persone. Che, in effetti, è la filosofia che segna appunto Killers of the Flower Moon, come precedentemente aveva segnato la conquista del west. Del resto, il Sogno Americano, la possibilità data ad ognuno di avere successo, portava inevitabilmente a questo. All’ostentazione del risultato ottenuto, che si otteneva esibendo la propria ricchezza in modo sempre più evidente –i tanti status-symbol che la classe borghese disseminerà nei decenni– procedendo su un doppio binario. Da una parte si sono progressivamente alzati gli standard, in modo da permettere a pochi di distinguersi, dall’altro si è cercato di stemperare l’inevitabile deriva pacchiana. Dal punto di vista materiale, in questo senso, sono serviti la moda, gli stilisti, gli architetti e altre figure simili, ma l’aspetto più importante è sotto il profilo culturale. Riprendendo pedissequamente i modi dei personaggi come il William King Hale del film di Scorsese, i profeti del Politicamente Corretto applicato ad ogni ambito dello scibile umano, hanno indorato la pillola, e continuano a indorarla, permettendo a chi detiene il potere di fregare il prossimo, ma di farlo mettendogli amichevolmente una mano sulla spalla. 

È esattamente grazie a questo tipo di personaggi –di cui i gangster come King Hale non sono che il lato oscuro ma esistono, ovviamente, una serie di imprenditori, politici, intellettuali, che non sono poi molto diversi come natura– che l’America assurge a potenza mondiale. Individui come Thomas Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti d’America proprio negli anni in cui è ambientato Killers of the Flower Moon, che, per i più distratti, va ricordato fu un accanito sostenitore del suprematismo bianco e della segregazione razziale. Al momento opportuno, il futuro premio Nobel per la pace, sarà capace di spacciarsi come promulgatore dell’autodeterminazione dei popoli(!) nei famosi Quattordici Punti, puro distillato di Politicamente Corretto utilizzato con strumentale abilità. Un clamoroso caso in cui il politically correct, per definizione qualcosa di corretto a livello politico – che diviene però ingannevole e deprecabile fuori contesto, come ad esempio nell’arte, nel cinema, nei fumetti, eccetera, eccetera – riesce ad essere scorretto anche nel suo ambito, nella fattispecie nella Conferenza di Pace del 1919. Tutto questo c’entra marginalmente con Killers of the Flower Moon? Niente affatto, tutto ciò è esattamente la materia di cui è costituito il film di Scorsese. La figura del gangster, di cui King Hale è un efficace prototipo, assume una dimensione più completa, con questo ultimo film del cineasta nato a New York, proprio perché il suo rapportarsi agli Osage permette di comprenderne meglio la natura ambigua. 

Che i criminali dei roaring twenties fossero benvoluti dalla gente era già noto ma è nel modo in cui King Hale si affratella cinicamente agli Osage che si comprende meglio il suo vero animo, che è lo stesso degli imprenditori di successo, dei politici vincenti, di (quasi) tutti i leaders della nostra società. Non è un tema leggero. Non è, Killers of the Flower Moon un film su qualche omicidio avvenuto tra i nativi americani. Non è nemmeno lo sterminio pianificato di una tribù per accaparrarsi i suoi beni. No, è un trattato sull’America: il film che riassume il genere western e il crime movie, dove si può comprendere come sia possibile che nel paese dove è avvenuta la più grande ingiustizia sociale della Storia –la depredazione di un intero continente con lo sterminio degli occupanti– sia in vigore oggi un’ideologia basata su un rispetto formale assurdo che arriva ad impedire l’uso di determinate parole, perfino nelle opere di finzione, per non “urtare” la sensibilità delle minoranze. Questo senza passare da un reale e concreto pentimento, beninteso. E di questo parla Scorsese. Questo è, infatti, l’obiettivo di Killer of the Flower Moon, e per arrivarci, Scorsese non può dare retta alla premura degli spettatori. Sembra, infatti, che tutti gli spettatori abbiano fretta, che il film sia troppo lungo, eccetera, eccetera. Ma, forse, è una fretta non poi così diversa da quella che ha King Hale di vedere i suoi “amici” Osage morire per riuscire a mettere le mani sui loro averi. O forse no, forse è solo l’abitudine ad andare di corsa, che il Sogno Americano la competitività, e quindi la velocità, l’efficienza, la rapidità, ce le ha inculcate per bene. Purtroppo, per capire, in genere, ci vuole tempo. E per capire bene gli inganni di questo gangster che sembra una pasta d’uomo, ci vuole tempo, e altro ce ne vuole per capire Ernest, forse anche di più, sicuramente di più. Anche perché, il vero punto di vista del racconto, è quello di Mollie (Lily Gladstone, strepitosa), una donna osage –una squaw, insomma– una di quelle donne che, della pazienza e della capacità di sopportazione, erano vere campionesse. Mollie, per la verità, è anche intelligente e testarda, ma rimane una donna indiana di inizio Novecento e, quindi, per indole o forse per cultura e tradizione, disposta a concedere credito di fiducia quasi illimitato al proprio uomo. 

E se è lei la protagonista di Killers of the Flower Moon, è al suo ritmo che ci dobbiamo adeguare; almeno per una volta, almeno per questa volta, per il western forse davvero definitivo, proviamo a metterci realmente nei panni dell’altro. E guardiamo le cose dal suo punto di vista e con i suoi tempi, altrimenti torniamo ancora una volta a calarci nei panni di King Hale e del suo affabulante e letale modo di infinocchiare –ed eliminare– il prossimo. Se il personaggio principale è Mollie, il punto cardine del racconto è, come già accennato, suo marito Ernest Burkhart. Il nocciolo della questione è: Ernest è davvero pentito quando ha l’ultimo, commovente, colloquio con sua moglie? Non è una cosa che si possa liquidare troppo velocemente, e qui torna appunto utile la lunghezza del film, perché Burkhart ha ucciso, rapinato, pestato a sangue, fatto parte di un’odiosa organizzazione criminale. Nel frattempo, ha amato, forse davvero sinceramente, sua moglie, che poi era l’oggetto ultimo, la vittima designata, del piano criminale predisposto dallo zio King. Lo si è detto ma è meglio ripetersi: lei è una donna osage, una donna paziente e ben disposta nei confronti del marito, una donna che si fida delle parole del suo uomo. È qui che risiede forse l’aspetto più interessante del film: Ernest ama sua moglie, eppure accetta di far parte del piano per imbrogliarla e, in definitiva, ucciderla. Per assurdo, se l’uomo avesse mentito nel suo rapporto sentimentale con Mollie, sarebbe stato meno grave. Sarebbe stato semplicemente un pesce piccolo, un piccolo squalo, in un gioco gestito dai grandi squali come King Hale e gli speculatori di quella risma. Allora sì che si sarebbe potuto sforbiciare un’ora di film per ridurre Killers of the Flower Moon ad un minutaggio più canonico. Invece Ernest è un personaggio straordinariamente ambiguo, proprio un uomo del Novecento –anzi un “contemporaneo”, visto che, anche se non se n’è accorto quasi nessuno, siamo ormai in pieno XXI secolo– nel riuscire a tenere le sue “tracce comportamentali” separate: in famiglia, è marito e padre amorevole, quando è il nipote di zio King, uccide senza alcuno scrupolo. 

Quando muore la sua figlioletta Anna –e curiosamente muore proprio quando nell’indagine condotta dalla Polizia Federale si rievoca l’assassino di sua zia Anna (Cara Jade Myers), quasi una sorta di contrappasso, un atto d’accusa del racconto rivolto proprio ad Ernest– l’uomo sembra pentirsi della sua scellerata condotta. E, al processo, vuota il sacco e testimonia contro suo zio King svelandone i piani criminali. Ma, nella confessione al banco degli imputati, salva il suo amore per Mollie, un amore sincero, stando alle parole dell’uomo. Il piano di King Hale era, in soldoni, far maritare le donne Osage a parenti o persone fidate, mentre si provvedeva a decimare la popolazione di nativi, eliminando infine le donne, in modo da ereditarne le proprietà ricche di petrolio. Ernest però rassicura: quando si era messo a corteggiare Mollie, lo aveva fatto di sua iniziativa, per un interesse sentimentale e non seguendo un piano coordinato da King Hale. Che poi la cosa era tornata utile agli intenti dello zio, era una semplice coincidenza, evidentemente: Ernest amava Mollie al tempo e l’amava ancora adesso, quando l’aveva curata per il suo diabete. Lo zio King, del resto, aveva procurato il nuovo miracoloso farmaco, l’insulina, per poterla curare. Per dovere di cronaca, King Hale era sempre subdolo, e questo faceva parte del piano: Mollie doveva morire al momento opportuno, per canalizzare le eredità senza dar adito a sospetti. Ma Ernest? Ernest sapeva che i dottori ingaggiati da King Hale stavano facendo somministrare, insieme all’insulina, veleno alla sua Mollie? Forse no, ma la donna vuole guardare in faccia il marito, dopo il suo pentimento, vuole vedere la sua reazione di fronte a questa domanda, vedere se è davvero puro, una volta confessato la verità, come dice di essere. Non è un passaggio facile e, per questo, occorre una donna paziente e testarda come Mollie, per farcelo capire. 

Ernest ha ucciso e tramato, picchiato, rapinato; e si è pentito. Questo è vero; e glielo si può concedere. Ma può pentirsi un uomo di qualcosa di cui “non ha voluto accorgersi”? È convinzione diffusa che ci si possa pentire del Male che, con una certa dose di “dignità malvagia”, si fa in prima persona, o si spinge altri a fare. Di quelle azioni, per quanto odiose, ci si prende carico della responsabilità. E, chissà, forse, per questi peccati, è davvero possibile pentirsi, il pentimento può essere davvero sincero e non di comodo. I dubbi ci saranno sempre, ma nel dubbio si può sempre concedere una certa benemerenza; ce l’hanno insegnato in tutti i modi e allora proviamo a crederci. Ma, e qui Killers of the Flower Moon è davvero rivelatorio, ci si può pentire di qualcosa che si è voluto ignorare, che non si ha avuto il coraggio di affrontare ma si è opportunisticamente assecondato, untuosamente lasciato perdere, viscidamente evitato di vedere? In questi casi, la situazione diventa diversa; è una sorta di patteggiamento morale, un modo di essere già in parte pentiti prima ancora di commettere il male e allora il pentimento vero, quello definitivo, fatica ad essere accettabile come opzione. Zio King era stato molto chiaro con Ernest: il nipote doveva sposare Mollie per ereditarne il patrimonio, da lasciare poi alla “famiglia”, ovvero a King Hale stesso. Ernest non confessa, a processo, di essere d’accordo ad uccidere sua moglie e, alla stessa Mollie, non ammette di sapere che la stesse avvelenando. La mente di Ernest, con borghese chirurgia, aveva ammesso di essere stato un criminale e se ne diceva pentito ma era ben consapevole che, se avesse dichiarato di essere stato a conoscenza degli intenti di suo zio nei confronti di sua moglie, l’avrebbe irrimediabilmente persa. E allora Ernest, cerca di cavarsela tirando fuori la sincerità dei suoi sentimenti, leva su cui sa di poter contare per ammansire ancora una volta la donna. Ma stavolta non basta. L’amore è un motore certamente forte, ma che non può essere usato a piacimento. Soprattutto, occorrono rispetto e dignità, anche quando si fa del male. Occorre prendersi la responsabilità delle proprie azioni e, solo allora, si può in qualche modo sperare di essere convincenti quando si dice di essersi pentiti. Non bastano quattro moine politically correct o, nel caso specifico, gli occhi azzurri e tristi di Di Caprio. Per la verità, gli americani, nella questione indiana, l’hanno sempre sfangata in questa maniera.
Ma non chiedete di fare lo stesso a Martin Scorsese. 





Lily Gladstone



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lunedì 5 giugno 2023

LA CITTA' DEL VIZIO

1287_LA CITTE' DEL VIZIO (The Phenix City Story). Stati Uniti1955; Regia di Phil Karlson. 

Leggendo tra le reazioni del tempo al film di Phil Karlson La città del vizio, si può capire quanto diventi insidioso per un testo cinematografico pretendere di essere storicamente attendibile. La situazione di Phenix, Alabama, nel secondo dopoguerra era davvero terribile e l’idea di ricorrere al cinema per denunciare ed estirpare una volta per tutte la malapianta della criminalità fu senz’altro condivisibile. Il film di Karlson uscì nel 1955 e, pur avendo gli stilemi di un noir venato di crime movie, è a tutti gli effetti un instant-movie, tanto che alcuni criminali pare fossero ancora sotto processo quando il film era nelle sale. Lo spunto principale della storia è l’omicidio del neo procuratore Albert Pat Patterson (nel film, John McIntire, al solito validissimo), che si era preso la briga di ripulire la città dalle bische e dalle sale da gioco truffaldine che infestavano la Quattordicesima Strada di Phenix City, la città del vizio del titolo italiano. Purtroppo nello stendere la sceneggiatura gli autori decisero di enfatizzarne qualche passaggio narrativo, per rendere la vicenda più drammatica ed appassionante. Il che non sarebbe certo un male, sia chiaro; ma lo può diventare se poi il racconto cerca di ergersi a testo storicamente attendibile. Se sulla questione dell’omicidio di Patterson è dura avere un qualche riscontro, visto lo scarso risultato ottenuto ai tempi dalle indagini in merito, è sicuro che l’omicidio della piccola figlia di Zeke sia del tutto inventato. Il tasto dolente è che un dettaglio così clamoroso, una bambina afroamericana uccisa solo per dare un avvertimento a Patterson e a suo figlio John (Richard Kiley) – che in seguito sostituirà il padre nel ruolo di procuratore generale – offre il fianco a critiche di credibilità storica del film. 

Oltretutto inserendo un elemento, l’evidente antirazzismo, che pare non fosse proprio nelle corde dei Patterson e, in ogni caso, non in quelle degli abitanti dell’Alabama dell’epoca. Forse per prevenire queste perplessità, che in effetti sorsero, Karlson e la produzione aggiunsero, dopo una prima versione messa in circolazione nelle sale, un cappello introduttivo in cui alcuni cittadini di Phenix intervistati da Clete Roberts confermavano quanto il vizio e la corruzione attanagliassero la città. Tra i personaggi interpellati figura addirittura Agnes Patterson, fresca vedova di quell’Albert protagonista del film e che venne appunto assassinato in seguito all’acuirsi della situazione. 

L’intervistatore stimola i ‘testimoni oculari’ sulla questione di quanto fossero effettivamente libere le elezioni in quegli anni a Phenix. La democrazia non sembra avere dato grandi risultati, in quel piccolo lembo di America, e si cerca evidentemente di capire il perché. A vedere oggi la ricostruzione che ne fa la pellicola di Karlson, la cosa che sorprende, in assoluto, è quanto le istituzioni fossero corrotte: nel film l’accusa alle forze dell’ordine sembra poco credibile tanto è eccessiva tuttavia la reale indagine successiva alla morte di Patterson portò all’incriminazione di oltre settecento funzionari degli uffici pubblici o di polizia. Questo è uno degli elementi che spazza via le schermaglie politiche che cercarono di contrastare o, al contrario, ribadire, l’attendibilità storica de La città del vizio. Il problema della corruzione a Phenix c’era è inutile negarlo, ciononostante qualche dubbio guardando il film sorge comunque. L’errore, se vogliamo chiamarlo errore, di Karlson e dei produttori fu quello di focalizzarsi sul fatto singolo, non a caso il titolo originale The Phenix City Story ha un forte richiamo storico e specifico, come a dire che quella presentata era la reale vicenda inerente a quell’unico posto. Il tentativo di circoscrivere il male è manifesto anche nel ripetere continuamente che il luogo malsano della stessa città fosse la famigerata Quattordicesima Strada quando, per la verità, poliziotti e funzionari corrotti erano sparsi un po’ dappertutto sul suolo urbano di Phenix. Forse, ma non è detto, gli autori si accorsero della potenza devastante e su larga scala che la loro storia davvero raccontava. E cercarono, al contrario, di convincerci che si trattava di un problema limitato, specifico ad un unico luogo. 

A parte questo, c’è anche qualche altro passaggio usato in modo strumentale ma interessante: il riferimento biblico a Sodoma – scaltro richiamo puritano – o il parallelo con la Germania, additata dalla moglie di John Patterson, Mary Jo (Lenka Peterson), come luogo idilliaco per far crescere i propri figli. Patterson Jr. era un militare e con la famiglia era appena rientrato dall’Europa: la moglie, vedendo la situazione di Phenix si lamentò rimpiangendo quella Germania appena liberata da Hitler. La lezione per lei e per il pubblico a cui è rivolto il film è presto evidente: il male attecchisce se le persone perbene ne ignorano il trafficare, per quieto vivere o opportunismo; al contrario il male va combattuto come si è combattuto e vinto il Nazismo. Il che è certamente vero e condivisibile, sia ben chiaro. Tuttavia, una volta che si produce un testo che si spaccia per veritiero e non lo è, verrebbe da chiedersi se in una battaglia, fosse anche una battaglia giusta, sia lecito usare la menzogna come arma di convinzione di massa. Perché il punto focale, come si accennava, sembra altrove e non pare si voglia davvero metterlo a nudo. L’impressione è che lo sforzo di contestualizzare il discorso, di renderlo specifico al caso Phenix – già evidente sin dall’inizio e rinvigorito poi con l’incipit con le interviste – sia un tentativo di distogliere l’attenzione dal vaso di Pandora che si era – inavvertitamente? – scoperto. Perché quello che stigmatizza e condanna La città del vizio, in verità, è il modello occidentale, la democrazia, il sogno americano e qualunque altra forma di società vigente nel cosiddetto mondo libero. 

Evidentemente la democrazia aveva già mostrato i suoi enormi limiti nell’immediato dopoguerra e non solamente in tempi recenti dove è proprio impossibile non scorgerli. E qui ritorna in mente l’insistenza di Roberts nell’introduzione su come a Phenix nel periodo in questione non vi fossero state elezioni davvero libere. Se la democrazia non aveva funzionato, secondo Robert, il motivo andava ricercato nell’impossibilità per il sistema elettorale di rimanere indipendente. E’ quindi forse questo il vero motivo dell’inserimento dell’introduzione con le interviste: bisognava difendere l’ideale democratico che a Phenix aveva invece fatto cilecca. Solo a Phenix? In questa misura, forse sì, tuttavia il dubbio sull’effettiva infallibilità del modello democratico poteva sorgere. Certo, si dirà, la democrazia è la migliore forma di governo; si può essere d’accordo, nel qual caso lo è comunque in un’ipotetica gara al meno peggio. Per anni, al contrario, si è invece propagandato la democrazia come forma giusta in senso assoluto e il modello americano come quello da prendere come riferimento. Particolarmente forte era questa propaganda in quegli anni Cinquanta – ma è naturalmente attiva ancora oggi – anni in cui La città del vizio invece denunciava apertamente tutti quei limiti che, nel corso degli anni, abbiamo visto manifestarsi ovunque regni la legge della maggioranza. Una certa analogia tra Phenix e la ben più nota Las Vegas, capitale mondiale del gioco d’azzardo, è palese ma, al di là delle somiglianze superficiali, la situazione descritta ne La città del vizio è ben più diffusa. 

Truffe, corruzione, soprusi delle forze dell’ordine, eccetera, eccetera sono abitudini che si trovano ovunque. E, oltretutto, non sono affatto legate in modo diretto al mondo del gioco d’azzardo e dei locali notturni: è evidente che in certi ambienti pullula il malaffare ma per una serie di motivi circostanziali più che concettuali. Le regole della società borghese, spesso dipendenti dal quieto vivere – quello stesso quieto vivere citato nel film come elemento che permette al male di proliferare – dalle convenzioni o dalle credenze dei più – la maggioranza – creano per loro stessa natura un bisogno di trasgredire. La splendida Meg Myles, che nel film interpreta una ballerina da night club, non fa sostanzialmente nulla di male, se non giocare un po’ alla femme fatale con gli avventori, ma è simbolicamente usata come uno dei massimi esempi del degrado della città. 

L’ambiente in cui si muove è effettivamente malsano ma questo è dovuto principalmente agli enormi interessi che circolano attorno ai cosiddetti vizi proibiti E’ un po’ la storia del proibizionismo che non spense affatto l’attrazione per i superalcolici ma sortì forse proprio l’effetto contrario; poi, d’accordo che l’alcool se bevuto in quantità eccessiva sia dannoso per la salute ma i problemi, al tempo, erano la connessioni con la criminalità e non le bevande alcoliche in sé stesse. Insomma, anche la critica perbenista ai vizi della Quattordicesima Strada – il gioco d’azzardo, la prostituzione – sembra un tentativo di far assumere una garanzia morale al punto di vista del film. E l’antirazzismo pare essere un ulteriore ingrediente utile a questo scopo, seppur sia una sorta di autogol sul piano della veridicità storica. In realtà il vero male da estirpare è costituito dalla violenza, dal sopruso, dall’imbroglio, dalla corruzione, tutti elementi che nella Quattordicesima Strada di Phenix erano certamente condensati in modo esponenziale ma sono propri della nostra società come di qualunque comunità umana. Che la democrazia, di per sé, fa poco per combattere, essendo unicamente una forma che esprime un governo in base a percentuali di concordanza e non di merito. Certo, prova ad abbattere il privilegio precostituito – e, in effetti, nel film il protagonista viene eletto al ruolo di procuratore – che è una grandissima cosa, è ovvio. Ma da un punto di vista etico e morale il lavoro è tutto da fare ed è indipendente da essa anzi, a volte è ostacolato proprio dal pensiero comune, espressione della maggioranza e non necessariamente depositario di un qualche valore davvero importante in sé.
La vera battaglia, non quella puerile ai vizi dei locali notturni, è dura da vincere proprio perché la democrazia di per sé non è affatto un aiuto a prescindere. Anzi, come detto, spesso nel difendere ingiustamente la convenienza e il benessere di una parte, sia anche quella maggioritaria, è proprio l’ostacolo insormontabile.
Basta guardarsi in giro per averne quotidiana conferma. 






Meg Myles 





Katrhyn Grant 

Lenka Peterson 


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