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domenica 19 settembre 2021

PROFESSIONE ASSASSINO

894_PROFESSIONE ASSASSINO (The Mechanic)Stati Uniti, 1972; Regia di Michael Winner.

Michael Winner, il regista di Professione assassino, si rese conto subito, evidentemente, di aver trovato l’interprete giusto, ossia Charles Bronson, per la sua poetica. Dopo averlo diretto in Chato, il regista britannico arruolò ancora l’attore per il quasi contemporaneo film sulla figura di Arthur Bishop, un sicario, freddo e spietato, con il quale provare a dare credito alle sue idee per la verità pericolosamente interpretabili come reazionarie. Che Winner fosse convinto che la società non soddisfacesse i criteri di giustizia, è evidente sin da questi due film, Chato e Professione assassino, entrambi del 1972, ma il punto di vista del regista diventerà celebre grazie soprattutto alla serie del giustiziere della notte, sempre con Bronson. In realtà, almeno stando a Professione assassino, la posizione di Winner non è così netta: traspare un certo disamore (eufemismo) per la società, per le leggi che devono essere rispettate per poter far parte della collettività, che imbrigliano la vena individualista. Ma, e lo dice lo stesso coprotagonista Steve Mckenna (Jean-Michelle Vincent) a Bishop, l’organizzazione nella quale il sicario opera per poter stare fuori dalle regole che la gente comune è costretta a seguire, gli impone altre regole, e quindi crolla tutto il castello di considerazioni fatte da questi in precedenza. In effetti, nei passaggi in cui Bishop spiega (spesso controvoglia) a Steve le motivazioni della sua professione, sembra trasparire parte della filosofia del regista, e questo rende legittima l’impressione di fastidio per una certa pretenziosità del testo. 

Ma poi la trama, soprattutto il finale, si conclude malamente sia per Bishop, finito sulla lista delle persone da eliminare della stessa organizzazione di cui fa parte, sia per Steve, colpito dalla vendetta postuma dell’esperto killer. Se consideriamo che Bishop non aveva esitato ad eliminare il padre di McKenna, suo grande amico, proprio per via degli ordini dall’alto, si comprende che i protagonisti si muovono all’interno di una spirale che non concede loro via di uscita. In questo senso, qualche dubbio sul fatto che il film comunichi valori reazionari deve venire, non avendo, nel film stesso, questi valori un risultato complessivo consolante. Dal punto di vista visivo, sia Winner che Bronson, nell’action-movie ci sanno fare, e numerose sono le scene interessanti. Dai primi 16’ in silenzio, al folle inseguimento ambientato sulla costiera a sud di Napoli, tra una meravigliosa Fiat 130 e una Peugeot 404, concluso poi con un’insolita Alfa Romeo 2600 Berlina e l’immancabile Alfa Romeo Giulia Ti che finisce distrutta dopo uno spettacolare volo nella scarpata sul litorale. Da segnalare anche un’altra nobile auto che fa una tristissima fine, ovvero la Ford Mustang rosso fiammante che salta per aria nell’esplosivo finale. Insomma, un film nemmeno disprezzabile, ma per il quale non potremmo parafrasare il saluto con cui Steve congeda definitivamente Bishop: vedi Napoli e poi muori, non può certo diventare vedi ‘Professione assassino’ e poi muori. Ci sono molti film da vedere, ancora, e molti di loro onestamente migliori di questa professionale opera di Winner.




Jill Ireland





venerdì 17 settembre 2021

CAPITAN FRACASSA

893_CAPITAN FRACASSA Italia, 1958; Regia di Anton Giulio Majano.

Tra i primi romanzi di respiro internazionale che la Rai decise di mettere in scena coi suoi celeberrimi sceneggiati, ci fu Capitan Fracassa nel 1958. Il programma televisivo fu diretto da Anton Giulio Majano, mentre il soggetto era naturalmente il romanzo d’appendice Il Capitan Fracassa di Thèophile Gautier, un’opera che, nell’Ottocento, ebbe grande successo. L’idea di prendere spunto da un racconto già strutturato in puntate dev’essere parsa congeniale agli autori Rai, in quanto l’architettura dei romanzi d’appendice prevedeva una serie di vicende minori quasi autoconclusive che erano collegate poi da una trama portante. In questo senso, anche le necessarie sforbiciate al voluminoso testo d’origine da portare sullo schermo, divenivano quindi possibili senza compromettere il senso generale dell’opera. In effetti lo sceneggiato televisivo aveva molti punti in comune con questo tipo di letteratura, dovendo garantire una certa autonomia della puntata che si iscrivesse in quella più generale del film completo. Il dopoguerra, particolarmente lungo in Italia, non aveva ancora del tutto lasciato il posto all’emancipazione, anche nei gusti narrativi, legata al boom economico e così, un racconto di cappa e spada, ambientato nella Francia del XVII secolo, fu accolto con favore. Il romanticismo che furoreggiò negli anni 50 al cinema aveva infatti delle attinenze con le vicende del barone di Sigognac (uno smagliante Arnoldo Foà) che, quando lascia il castello in rovina per unirsi ad un carro di una compagnia di attori itineranti, assume appunto il nome d’arte di Capitan Fracassa. 

Il nobile decaduto presto si innamora di Isabella (una Lea Massari gradevolmente acerba), con un moto sentimentale che sembra smarcarsi dalla tradizione. Infatti, nel ‘600, non era abitudine per i nobili mischiarsi con chi avesse origini popolari; almeno non farlo con intenzioni serie. Perché approfittare dell’avvenenza delle attricette (nel film c’è anche Scilla Gabel nel ruolo di Zerbina), era pacifico: così su Isabella mette gli occhi anche il Duca di Vallombrosa (il grande Nando Gazzolo) che finirà naturalmente per scontrarsi con Capitan Fracassa. Riguardo alla Gabel, sorprende la carica sensuale che venne concessa al suo personaggio e stupisce anche di più come l’attrice nata a Rimini, pur avendo solo vent’anni, sembrasse più matura, non nel senso di invecchiata ma di più consapevole della propria avvenenza, rispetto alla venticinquenne Massari che, in questa occasione, ha davvero ha un fascino all’acqua di rose. Il film è divertente, la stoffa teatrale degli interpreti approfitta dei tanti tempi morti per emergere qua e là, mantenendo desta l’attenzione. Ubaldo Lay, Alberto Lupo, Warner Bentivegna, Leonardo Cortese, Margherita Bagni, Fiorella Mari e molti altri: il cast è, come d’abitudine per gli sceneggiati del tempo, di grande livello. Tra gli intrighi che si dipanano si finisce per scoprire che Isabella aveva origini aristocratiche: il che era un po’ il vizio europeo, in chiave narrativa, di tirare il sasso e nascondere la mano. Si mostra coraggiosamente che è giusto potersi amare anche tra appartenenti a classi sociali diverse ma, tanto per non sbagliare o avere problemi, prima della fine si risistema il tutto; nella maggioranza dei casi si scopre che l’eroe di umili origini era in realtà nobile o, come in questo caso, la ragazza popolana è anch’essa di sangue blu. 

In pratica ci si preoccupa di non smentire il dogma narrativo (l’eroe è nobile per definizione) che precedentemente si è cercato di mettere in discussione. Mentre sopraggiunge la conclusione lo sceneggiato esagera un po’ con le sdolcinature, e non sono nemmeno troppo funzionali gli inserti umoristici come quello coi quadri degli avi del barone che, come già negli episodi precedenti, si animano per commentare la situazione cercando di essere divertenti (senza riuscirci, in onestà). Il finale è naturalmente lieto, con il barone e Isabella che si apprestano a vivere serenamente insieme. Nel romanzo di Gautier addirittura il barone di Sigognac trova seppellito nel castello un tesoro con il quale può tornare a guardare con pari dignità economica sua moglie, ora divenuta nobile e ricca. Il ritrovamento è costruito con uno stratagemma divertente: Belzebù, il gatto di casa, non abituato ai banchetti che adesso il barone si può permettere, stramazza. Nel seppellirlo, viene appunto rinvenuto il tesoro dei Sigognac. Questo ultimo passaggio, come detto, nello sceneggiato non c’è: buon per il gatto.  
 

  Lea Massari



Scilla Gabel




Fiorella Mari




mercoledì 15 settembre 2021

QUANDO TUONA IL CANNONE: Capitolo 5_AFFONDATE LA EMDEN!

Quando la città dorme presenta:

QUANDO TUONA IL CANNONE

IL KOLOSSAL DOSSIER

Capitolo 5

AFFONDATE LA EMDEN!

Come in tutti i conflitti, anche nella Prima Guerra Mondiale erano cruciali i rifornimenti che, in piena epoca coloniale, viaggiavano in modo rilevante sui mari per arrivare ad alimentare gli eserciti e i popoli dei paesi impegnati nello scontro. La sicurezza delle rotte era quindi determinante da un lato e il tentativo di ostacolare i rifornimenti del nemico dall’altro divennero quindi un ulteriore terreno di scontro nella Grande Guerra. Sul finire del 1914 l’ammiraglio tedesco von Spee lasciò la SMS Emden nei pressi di Tsingtao, base coloniale tedesca in Cina, e si diresse verso il Sud America, dove si rese protagonista di due scontri navali, ben descritti nel notevole The Battle of Coronel e Falkland Islands che apre il primo capitolo dedicato alle battaglie sui mari del nostro colossal dossier. Intanto, la citata HMS Emden, a cui è dedicato il titolo di questo capitolo, battendo il nord dell’Oceano Indiano, si ergerà a leggenda dei mari: dopo l’arcaico For honour of Australia che risale addirittura al 1916, Unsere Emden è il primo film tedesco che, nel 1926, aprirà una sorta di ciclo che celebrerà il mitico incrociatore. Due anni dopo gli australiani, che l’Emden avevano affondato grazie alla loro HMAS Sidney, presenteranno The exploits of the Emden e dopo tre Sea Raider, sempre sul medesimo argomento. La risposta tedesca sarà affidata all’ottima versione sonora della storia, Kruiser Emden, prima del pretesto propagandistico che chiuderà il discorso per l’epoca, Heldentum und todeskampf unserer Emden. Tutti questi film, compresi tra il 1926 e il 1934, si occupavano della storia della Emden fino al suo affondamento; per conoscere (almeno cinematograficamente) il destino dei marinai sopravvissuti si dovrà attendere il 2012 con Die Manner den Emden, bel melodrammone bellico tedesco. Dal quale si evince che la colonia tedesca di Tsingtao era presto caduta: come del resto documentato, (forse non proprio il verbo adatto, eh!), dal curioso e fantasioso Duello di Aquile, imprevedibile incursione giapponese nella Grande Guerra che racconta appunto dell’assedio di Tsingtao. Dopo questa crociera sui mari e terre esotiche sarà tempo di tornare a casa, del resto un famoso proverbio recita Natale con i tuoi… e, ad attenderci sul più canonico fronte occidentale, sarà proprio la tregua natalizia di fine 1914. Ma le emozioni non mancheranno, non temete: ci aspettano uomini, bestie ed eroi!

Il programma

Capitolo 5: AFFONDATE LA EMDEN!

Dalla notte del primo Ottobre

Tema

Primi scontri sul mare

Film

Appendice storica

 

THE BATTLES OF CORONEL AND FALKAND ISLANDS

 

FOR HONOUR OF AUSTRALIA

 

UNSERE EMDEN

 

THE EXPLOITS OF THE EMDEN

 

SEA RAIDER

 

KREUZE EMDEN

 

HELDENTUM UND TODESKAMPF UNSERER EMDEN

 

DIE MANNER DER EMDEN

 

DUELLO DI AQUILE

 


Buona lettura!

LA VALLE DEI MOHICANI

892_LA VALLE DEI MOHICANI (Comanche Station); Stati Uniti, 1960; Regia di Budd Boetticher.

Settimo film in cinque anni per la Ranown, una produzione associata tra l’attore protagonista Randolph Scott e Harry Joe Brown (da cui il nome, Ran-own), anche La Valle dei Mohicani vede alla regia il solido Budd Boetticher. Prima di tutto una precisazione: in Italia il titolo del film è stato cambiato da Comanche Station in La valle dei Mohicani, creando un’incongruenza storico/geografica ininfluente per la fruizione della pellicola, forse per risolverne un’altra legata all’aspetto degli indiani, che poco aveva a che fare con quello dei nativi del sudovest. Il film si pregia di un solido e semplice canovaccio, come da copione abituale della rodata coppia Burt Kennedy (sceneggiatore) e Budd Boetticher (regista). I personaggi sono pochi: oltre all’immancabile Randolph Scott (nei panni di Jefferson Cody), qui abbiamo il notevole Claude Akins (il poco rassicurante Ben Lane), che è affiancato da un paio di simpaticissimi malviventi che sembrano presi da un fumetto (Frank e Dobie, rispettivamente Skip Homeier e Richard Rust); la bella di turno è Nancy Lowe, a cui presta volto e fisico di prim’ordine una Nancy Gates in splendida forma. I dialoghi sono interessanti, ben costruiti e mai banali; i personaggi, pur nella loro semplicità, sono molto ben caratterizzati. Soprattutto il cattivo, Ben Lane, si rende protagonista di comportamenti che rivelano una struttura sfaccettata nella propria personalità. Lo sviluppo della trama si fonda nell’acquisizione di conoscenze di risvolti e presupposti passati ed è molto ben congegnato rendendo il film particolarmente avvincente. 

Questo è molto interessante in Boetticher, visto che i suoi personaggi hanno in genere un percorso già stabilito a cui è impossibile sottrarsi (si prenda ad esempio la fine di Ben Lane), ma in questo caso il regista riesce a mantenere comunque una dose di suspense superiore grazie a questa impostazione narrativa. Il finale, con i due colpi di scena, prima la vista del figlio di Nancy, poi la condizione del marito di lei (cieco), precludono ogni speranza a Cody, che ritorna al suo destino di cavaliere solitario. Bellissimi gli scenari e la fotografia, che dimostrano come anche produzioni cosiddette di serie-b, possano essere formalmente ineccepibili. Oltre che notevoli anche in senso assoluto, tanto che possiamo considerare La valle dei Mohicani in lizza per essere il migliore lavoro nella pregiata filmografia del regista. Da segnalare l’omaggio a Ombre rosse (1939, John Ford), film che raccontava di un viaggio in diligenza (Stagecoach, il titolo originale) e dove la meta era quella città di Lordsburg che, in Comanche station (titolo originale che fa riferimento ad una stazione di cambio della diligenza), viene citata in continuazione come destinazione senza che mai vi si arrivi. Come dire che quando il cinema di genere prende come fine ultimo di riferimento un grande classico, senza per altro pretendere di raggiungerlo, non fallisce di sicuro.











Nancy Gates








lunedì 13 settembre 2021

I QUATTRO DELL'AVE MARIA

891_I QUATTRO DELL'AVE MARIA  Italia, 1968; Regia di Giuseppe Colizzi.

Secondo episodio della trilogia iniziale della coppia Terence Hill e Bud Spencer, rispettivamente nei panni di Cat Stevens e Hutch Bessy, I quattro dell’Ave Maria di Giuseppe Colizzi è uno spaghetti western di onesta fattura. Il film ha forse uno slancio minore rispetto al precedente Dio perdona…io no! e, sebbene in qualche passaggio persino l’espressione truce di Terence Hill cominci a vacillare, la vena ironica che pervade tutto il film non è sfruttata in modo congruo e consapevole dal duo. Colizzi, dal canto suo, si affida anche a Eli Wallach (Cacopoulos), un attore che è in grado di gestire sia il registro drammatico che quello comico, volendo in modo simultaneo. Del resto, al tempo, la chiave ironica era uno degli elementi portanti degli spaghetti-western, sebbene la trilogia di Colizzi, pur disponendo della coppia che poi porterà all’estremo questo tema, la lasci comunque un po’ troppo sottotraccia. Tra i due, Spencer è chiamato ad un ruolo che gli è comunque congeniale, sia che la vena ironica sia tanto esplicita o che lo sia meno; è un personaggio esagerato, almeno fisicamente, e quindi sopra le righe lo è già naturalmente, mentre Hill fatica molto di più. L’attore veneziano, infatti, non ha il carisma di Clint Eastwoood, (visto nello stesso ruolo nei film di Leone, a cui Hill si ispira come tutti gli interpreti principali degli spaghetti), non ha l’espressione seria e determinata di Franco Nero (Cat Stevens ricalca fedelmente il personaggio Django interpretato appunto da Nero), e nemmeno la simpatia spaccona di Giuliano Gemma e del suo Ringo. Terence Hill troverà poi, con Trinità, un personaggio indimenticabile e perfetto ma, prima di allora, era solo un attore che giocava in un ruolo non del tutto suo. Il punto è che Terence Hill è, volenti o nolenti, il personaggio principale de I quattro dell’Ave Maria, e quindi, nonostante il buon apporto di Spencer, Wallach e del bravo Brook Peters, il film non può certo dirsi perfettamente riuscito come scelta del cast e dei ruoli. Inoltre, Colizzi, pur girando con mestiere, si perde un po’ troppe volte il filo della narrazione, con passaggi poco funzionali e inerenti al tema del racconto; il che, in un’opera di 132 minuti, non è certo un vantaggio. 
Insomma, il film è certamente gradevole e divertente, ma si poteva fare meglio: Hill maggiormente centrato sul suo proprio registro e trama snellita e condensata. In quel caso, avremmo avuto un’opera certamente più funzionale.