Translate

venerdì 20 agosto 2021

TUTTO IN ORDINE

875_TUTTO IN ORDINE (Helpmates). Stati Uniti, 1932; Regia di James Parrott.

Negli anni Trenta Stan Laurel e Oliver Hardy erano già all’apice del successo: ormai la dimensione della breve comica era ritenuta un limite e la coppia cominciava ad avere a disposizione lungometraggi messi in cantiere proprio per sfruttare al meglio le loro qualità. Muraglie e I due legionari sono del 1931, Il compagno B del 1932; opere annoverate tra le migliori del duo in assoluto. Eppure il cortometraggio permetteva ancora ai nostri eroi di esprimersi altrettanto al meglio. Del resto, la storia, il canovaccio, era sempre un mero pretesto per vedere Stanlio e Ollio all’opera in qualcosa che, inevitabilmente, non erano minimamente in grado di fare. Tutto in ordine è una loro tipica comica che rivela sin dai credits le garanzie sulla funzionalità dei meccanismi narrativi: prodotta dal formidabile Hal Roach, storico agente del duo, sceneggiata dall’affidabile H. M. Walker e diretta dall’altrettanto affidabile James Parrott, una coppia di autori già avvezza a gestire Laurel & Hardy sullo schermo. E Helpmates, questo il titolo originale, è il classico cortometraggio nel quale succede quello che Stanlio e Ollio fanno abitualmente: ovvero demolire una costruzione. Qui il pretesto è il ritorno a casa della moglie di Ollio, dopo che questi ha ospitato un party nella propria abitazione, che ora si trova in condizioni pietose. Per evitare i problemi con la consorte (che è davvero un tipaccio) Ollio chiede all’amico Stanlio di aiutarlo a rassettare un po’ l’appartamento. A parte la follia della richiesta (almeno conoscendo Stanlio), senza la quale non avremmo però il cortometraggio, va detto che nello spazio esiguo e nel poco tempo, il duo dà sfoggio del proprio campionario comico sia fisico che dialettico. La comicità procede per accumulo e se le prime gags possono far sorridere, ora della fine è davvero difficile non scompisciarsi sonoramente. 





mercoledì 18 agosto 2021

PAISA'

874_PAISA' Italia, 1946; Regia di Roberto Rossellini.

Se il precedente Roma città aperta poteva in qualche modo essere inteso come un testo costruttivo, nell’ottica di mostrare l’Italia come un paese che cercava di superare il tragico momento storico disconoscendo il suo essere (stata) fascista, con Paisà Roberto Rossellini ci riporta coi piedi per terra. Il film è strutturato in sei episodi, e già questa è una scelta significativa e dimostra come per rendere un quadro un minimo attendibile del paese non si possa utilizzare un unico racconto, ma ne servano svariati e differenti. Un film frammentato per un paese frammentato; paese e non nazione: non a caso, i sottotitoli vengono usati non solo per i soldati alleati o tedeschi, ma anche per gli stessi italiani che, non essendo nazione, non parlano tutti la stessa lingua. Ma quello della lingua, in fondo, è solo un dettaglio: l’Italia nel suo profondo è un paese disperato e senza futuro. Che speranza possono avere gli abitanti siciliani del primo episodio, quando la sola ragazza che si presta ad aiutare gli alleati pagherà con la vita ma verrà ricordata come una traditrice sia dai suoi concittadini che dai soldati americani? E quale il bambino napoletano, che vede il militare di colore rinunciare addirittura alla funzione educativa (i rimproveri per il furto della scarpe) di cui si era volontariamente fatto carico, una volta visto che i quartieri partenopei sono ben peggiori della miseria della baracche dove viveva in America? E quale speranza può coltivare Francesca, la giovane romana, che in fin dei conti prova ad ingannare Fred, il soldato americano, cercando di non farsi riconoscere tra le ragazze di vita e di recuperare (in modo posticcio) la propria verginità? 

Fred non la riconosce a livello individuale ma la riconosce per quello che è (e che rappresenta: l’Italia). Una ragazza che ha svenduto la propria innocenza e che, all’occorrenza, prova a ingannare il prossimo pur di recuperare una parvenza di onestà. Senza riuscirci. E che speranza può esserci se il paese dell’arte si è messo a far la guerra, proprio come il Lupo, il pittore di Firenze? O per il paese custode della Chiesa, i cui però più devoti rappresentanti non riescono ad accettare tra loro la presenza di sacerdoti di altre dottrine?
Nessuna, naturalmente. 
Vedendo, nell’apertura del sesto capitolo, il cadavere che scorre nel Po, il grande fiume del paese, verrebbe da pensare che non sia solo quello di un partigiano, ma anche quello della stessa Italia. Ma l’episodio è solo all’inizio, e poi verrebbe a mancare il famoso tema dell’attesa, tanto caro a Rossellini.

Quell’attesa sempre delusa per i protagonisti di Paisà: il finale di ogni episodio ha sempre un sapore amaro, compreso quello dei frati, incapaci di accettare intimamente l’altro. Ma l’ultimo paragrafo del film è quello forse con l’ambientazione più congeniale alle tematiche dell’autore romano, con il grande fiume che scorre lento accompagnando, insieme alla lugubre musica, i protagonisti, un gruppo di soldati americani fiancheggiati dai partigiani, che cercano scampo verso il mare. Ma prima che possano giungervi, arrivano i tedeschi: e allora gli americani imprigionati in casa, con l’ufficiale tedesco ad offrir loro da bere e a parlare e a capirsi nella stessa lingua, pur essendo di nazioni diverse; cosa che, nel film, quando ci sono di mezzo gli italiani, è sempre mostrata come più difficoltosa. Parlare discutendo di cose comuni, come delle grandi stufe che scaldano le case in legno in Germania, ma finendo, inevitabilmente, per esaltare l’orgoglio nazionale teutonico. Gli italiani, sorvegliati dai mitra, fuori, al freddo, come bestie.
Il giorno dopo, il mare: per i partigiani, nessuna possibilità, gettati nell’acqua fonda con le mani legate dietro la schiena.
L’attesa è davvero finita; e con lei le speranze dell’Italia.




Maria Michi


lunedì 16 agosto 2021

IL SUO ONORE GRIDAVA VENDETTA

873_IL SUO NOME GRIDAVA VENDETTA - DUELLO ALL'ULTIMO SANGUE (Gun Fury). Stati Uniti, 1953; Regia di Raoul Wlash.

Conosciuto in Italia con i titoli Il suo onore gridava vendetta e succesivamente Duello all’ultimo sangue, in originale fu distribuito come Gun fury: nessuno dei tre appellativi riesce però a calzare propriamente la storia filmata dal pur sempre valido Raoul Walsh. Intendiamoci, il film è buono, sicuramente godibile e ben fatto: ma non raggiunge mai il pathos che i tre titoli cercano di suggerire. Walsh ha la solita mano sicura, porta avanti la sua vicenda senza indugi e con buon tessuto narrativo, ma gli manca il cambio di passo o la scena che incendi definitivamente la storia. Forse è anche un po’ responsabilità degli interpreti: Rock Hudson (nel film è Ben Warren) è una presenza forte ma in questo caso troppo patinata, troppo anni ’50 per essere davvero credibile nel west; di contro non possiede un grande registro recitativo. Donna Reed (Jennifer, la futura moglie di Warren) è elegante e graziosa, diciamo pure molto bella, ma appare troppo a disagio e finisce per esprimere poche reazioni. Subisce le angherie dei rapitori, ma anche delle donne messicane, in modo troppo passivo: c’è un passaggio che sarebbe potuto divenire interessante, quando viene aggredita dall’amante del bandito, ma la lotta che ne segue è smorzata quasi subito. Deludente l’apporto di Lee Marvin, e questo è clamoroso, perché stavolta il suo è un bandito di mezza tacca, mentre il personaggio più interessante è forse interpretato da Leo Gordon, ovvero Tom, il cattivo che si ravvede: buona presenza scenica, e sguardo inquieto. Chi non si ravvede è Philip Carey, (è Slayton) quello che passa per essere il vero cattivo della storia: ha un bell’aspetto, aitante, adatto a rivaleggiare con Hudson, ma è forse troppo disincantato e finisce per non convincere del tutto. E poi il suo personaggio, alla fin fine, è un altro cattivo da quattro soldi, al netto di qualche sprazzo maligno, come quando prende al lasso Jennifer, trattandola alla stregua di un animale.  Questo passaggio, insieme a quello citato della rissa tra Jennifer e la ragazza di Slayton e a pochi altri, potrebbe dare mordente al film, ma nel complesso questi episodi non riescono in questa impresa, rimanendo solo spunti accesi ma solo accennati all’interno di un film di solida azione. Insomma, un western convenzionale portato a casa con mestiere da Raoul Walsh e, senza stare a sottilizzare troppo, anche dagli interpreti. A cui, in questo caso, manca forse lo spunto vincente, ma non la professionalità, piano sul quale Hollywood difficilmente deludeva.





Donna Reed



Roberta Haynes

domenica 15 agosto 2021

L'INTRUSA

872_L'INTRUSA . Italia, 1956; Regia di Raffaello Matarazzo.

Sulla base del dramma già portato in teatro La moglie del dottore di Silvio Zambaldi, con L’intrusa, Raffaello Matarazzo scatena i suoi tipici torbidi intrighi in una storia anche più tormentata del solito. L’impronta teatrale rimane ben visibile nella seconda parte dell’opera, dove l’azione si concentra prevalentemente nella casa del dottore in questione, Carlo Conti (un appesantito Amedeo Nazzari). A quel punto, la problematica donna che ha preso in moglie, Luisa, (Lea Padovani) si trova infatti a tu per tu con l’uomo, l’ingegner Alberto (Andrea Checchi) che l’aveva inguaiata in gioventù, abbandonandola dopo averla fatto abortire incidentalmente. Come di consueto, in Matarazzo gli intrighi si moltiplicano e si replicano quasi seguendo un modello matematico, in qualche caso perfino alimentati dalla buona fede maldestra di qualche personaggio. In quest’ottica, in L’intrusa, abbiamo don Peppino (Cesco Baseggio) e Rosa (Rina Morelli), che sbadatamente lasciano capire alla povera Luisa che, a causa dell’aborto subito in gioventù, non potrà più avere figli. Gli eccessi melodrammatici si sprecano e, in questo caso, sorprende il manifestarsi di sentimenti più che altro ostili, di Luisa nei confronti di Alberto e, successivamente, di Carlo nei riguardi della moglie. Più che sentimento, L’intrusa è un film che gronda risentimento: anche contro il Cielo, reo di aver permesso le cattiverie che vediamo dipanarsi sullo schermo. E’ quindi necessaria la bonaria figura di don Peppino che richiama i personaggi, in particolare Luisa, ad atteggiamenti meno rancorosi. 

Da un certo punto di vista, queste sacche di rabbia che esplodono durante il lungometraggio, rendono più credibile la storia raccontata: in genere era il sognante trasporto amoroso a far accettare allo spettatore le trovate più eccesive, tipiche dei melodrammi. In questo caso è il rancore: se un odio come quello di Luisa è credibile, ed è credibile, deve essere credibile anche la pur eccessiva storia che pare lo abbia scatenato. Ne L’intrusa questo sentimento negativo deve sgorgare, non può più essere represso; ci si mettono anche le circostanze, d’accordo. E’ infatti il caso se la moglie di Alberto venga accolta quasi partoriente proprio in casa dei Conti; la sua auto finisce fuori strada proprio a due passi dall’abitazione e, nelle sue condizioni, la donna non può sopportare alcuno spostamento. Partorirà il figlio di Alberto nella casa di Luisa, che invece apprenderà incidentalmente proprio allora che non potrà più avere figli; proprio lei che un figlio, da Alberto, lo aveva perso proprio per colpa di quello stesso uomo. Che l’aveva oltretutto ripudiata una volta scoperto fosse incinta. 

Ora Luisa è giustamente furibonda, ce l’ha con Alberto e, come detto, anche con il Cielo per averla rimessa in una situazione insostenibile; don Peppino prova a calmarla, ma è inutile, l’odio è troppo e non è più contenibile. In fondo, è una scelta coerentemente melodrammatica: il melò è il genere dove vengono resi manifesti i sentimenti, abitualmente romantici e amorosi, e così dev’essere anche per il loro opposti. Per altro, una volta superato l’acme drammatico, può tornare il sereno e con lui anche un credibile, perlomeno più di altre occasioni, lieto fine. Nel suo insieme, inteso come melodramma, L’intrusa è un film coinvolgente e girato con bravura da Matarazzo. La storia prevede anche scene in esterni e l’autore se la cava egregiamente, ad esempio con l’incipit in riva al mare; comunque molto bene anche le ambientazioni al chiuso. Un po’ imbolsito Nazzari, mentre la Padovani è funzionale al suo ruolo di donna sofferta e sospesa. Il tono melodrammatico della storia è ben contrappuntato tra scene sentimentali e i citati momenti biliosi, mentre l’ironia, tenuta sempre desta da Rita Morelli, alleggerisce il clima. Insomma, un lavoro originale per certe sue scelte e sorprendentemente molto ben equilibrato tra i suoi eccessi.      

Lea Padovani




venerdì 13 agosto 2021

LA BATTAGLIA DI ALAMO

871_LA BATTAGLIA DI ALAMO (The Alamo)Stati Uniti, 1960; Regia di John Wayne.

Per quanto affetto si possa nutrire per il grande John Wayne, è davvero difficile dirsi completamente soddisfatti della visione del suo La battaglia di Alamo.  Nonostante alla base ci fosse un evento storico che sembra fatto su misura per costruirci una storia epica (dove la narrazione prevarichi la cronaca) è proprio sul piano del ritmo del racconto che il film palesa le pecche più evidenti. Non aiuta, in questo senso, la lunghezza del film, che si protrae un po' troppo stancamente per 167 minuti. Tra gli aspetti poco convincenti ci sono anche i dialoghi, in particolare alcuni scambi di battute; in primo luogo quelle di David Crocket (John Wayne) sempre troppo artificiali per essere credibili. Fastidiosa anche la retorica che pur, in certo senso, era prevedibilmente intrinseca al soggetto. Insomma, nel film funziona davvero poco. Si possono salvare la presenza scenica di Wayne (è pur sempre il Duca) e Richard Widmark (Jim Bowie) oltre alla confezione generale della pellicola, comunque sul livello medio hollywoodiano dell’epoca. Curioso l'uso delle immagini statiche, quasi fossero composizioni, come quella dei soldati messicani che trovano la donna e i due fanciulli nel finale. Pregevole il dispiegamento di forze per rendere la magnificenza dell'esercito messicano e, all'interno dell'aspetto bellico della vicenda, interessante il tentativo, da parte del regista, di essere imparziale. Il finale rimarca questo ultimo punto: seppur Wayne non conosca il modo per rendere la scena epica come pare evidente fosse nelle sue intenzioni, si può senz'altro apprezzare come il suo film cerchi di celebrare l'eroismo dei texani senza andare a discapito della nobiltà militare dei loro rivali. Tutto sommato un po' poco per un tema potenzialmente così allettante e per le oltre due ore e mezza di immagini.   




Linda Cristal 





Joan O'Brien



 

mercoledì 11 agosto 2021

L'ORO DELLA CALIFORNIA

870_L'ORO DELLA CALIFORNIA (Westbound). Stati Uniti, 1959; Regia di Budd Boetticher.

Rinunciando a parte del recente ma ormai consolidato staff (nello specifico, lo sceneggiatore Burt Kennedy e il produttore Harry Joe Brown) Budd Boetticher gira per la Warner Bros un nuovo western, rigorosamente un B-movie, con l’inossidabile Randolph Scott protagonista. Il film rende più di un omaggio al caposaldo del genere, Ombre Rosse di John Ford: un posto di rilievo comune alle due pellicole è ovviamente la diligenza e anche il tema musicale che accompagna l’incedere della vettura è molto simile, per quanto nel film di Boetticher risulti persino eccessivo. Anche il nome della città della stazione di cambio funge un po’ da richiamo: qui tutta la vicenda si svolge a Julesburg, nome che riecheggia quel Lordsburg che era la destinazione della diligenza del lungometraggio di Ford. Se il film del 1939 era in bianco e nero, questo è in sfavillanti Warner-color che già nei titoli di testa tingono il cielo di rosa quasi a preannunciare la rilevante presenza femminile nel cast agli ordini di Boetticher. Nell’opera, infatti, trova posto una star di prima grandezza come Virginia Mayo che però, nella specifica pellicola, viene superata in bellezza e importanza da Karen Steele, davvero favolosa. Particolare non secondario, Boetticher aveva già diretto la giovane Karen in Decisione al tramonto (e la dirigerà anche nel successivo L’albero della vendetta) e, anche considerando l’attitudine del regista a fare squadra coi suoi abituali collaboratori, va detto che con la giovane attrice c’era un’intesa sentimentale. Sui manifesti (e anche nelle intenzioni originali della produzione) la Mayo era, insieme a Scott, l’attrazione principale, ma poi le cose andarono diversamente. La decisione del ribaltamento dei ruoli previsti per le due attrici trova, ovviemente, la sua più naturale spiegazione nella relazione che c’era tra Boetticher e la Steele. Ma, da un punto di vista cinematografico, vedere il personaggio della Mayo, la diva affermata di Hollywood, uscire di scena dal finestrino della diligenza mentre la più giovane rivale si prende tutto lo schermo nell’arrivederci all’eroe, sembra una rivendicazione propria del cinema di Boetticher che non teme il confronto con i classici (in questo senso si possono intendere i rispettosi riferimenti a Ombre rosse) ma rivendica un legittimo riconoscimento di qualità. E se ad interpretarla fisicamente è Karen Steele, non potremmo essere più d’accordo con il vecchio Budd.  





Karen Steele





Virginia Mayo