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sabato 19 settembre 2020

IL COLLARE DI FERRO

637_IL COLLARE DI FERRO (Showdown); Stati Uniti, 1963. Regia di J.R. Springsteen.

La ricetta per far funzionare un B-Movie è abbastanza semplice e, quando viene rispettata, raramente tradisce. Il collare di ferro, che è un tipico western di serie B dei primissimi anni sessanta, ne è un esempio cristallino: il film corre spedito ed appassionante e non registra praticamente mai passi falsi. Si diceva dell’importanza degli ingredienti e in questo caso ci sono tutti, ben dosati ma senza economia. C’è innanzitutto una buona storia, narrativamente abbastanza forte: due cowboy, al centro di una rissa in seguito ad una sbronza, vengono coinvolti nelle vicende di una banda di veri fuorilegge. C’è la regia ordinaria ma efficace, supportata da aspetti tecnici, in primo luogo una splendida fotografia in bianco e nero, davvero di prima scelta. Ci sono gli interpreti, l’eroe giusto, la ragazza bellissima, l’amico con qualche debolezza di troppo, il cattivo veramente cattivo e le forze dell’ordine non precisamente affidabili. Ecco, se detta così si potrebbe già anche comprendere perché poi il film sia gradevole, se scendiamo nei dettagli possiamo notare che la cura di ognuno di questi aspetti eleva ulteriormente il prodotto finale. La storia: che è buona si è detto, ma è anche originale. Chris (Audrey Murphy) e Bert (Charles Drake) sono due amici, il primo è un domatore di cavalli e il secondo un veterinario. Quest’ultimo ha la tendenza a ficcarsi nei pasticci, ha il vizio del gioco e la sbornia facile; inoltre deve recuperare altri soldi oltre quelli della paga perché vuole spedirli ad Estelle (una deliziosa Kathleen Crowley). Morale della favola, i due finiscono incatenati al palo in centro del paese, alla fine di una rissa tra ubriachi. 

Qui c’è l’originale particolare che dà il nome al titolo italiano: non avendo una prigione, lo sceriffo tiene alla catena i detenuti tramite un collare di ferro. Il punto è che tutti i prigionieri finiscono legati allo stesso unico palo così Chris e Bert si trovano gomito a gomito con il terribile Lavalle (Harold J. Stone) e la sua banda. Nottetempo i criminali organizzano una fuga che coinvolge ovviamente anche i nostri due protagonisti; la loro fine sembra segnata, in quanto Lavalle non è solito lasciarsi alle spalle testimoni ma Bert, nel parapiglia, si è impossessato di 12.000 dollari in buoni pagabili a vista del portatore e, con quelli, ottiene in cambio, per sé e per il suo amico, di essere lasciati in vita. Ne Lavalle e nemmeno uno dei suoi sgherri, potrebbero infatti recarsi in un ufficio per farsi cambiare i buoni, visto che le loro grinte sono note a tutti nella regione. Questi particolari narrativi non sono importanti di per sé ma testimoniano la cura nella sceneggiatura, tipica di un prodotto hollywoodiano, da sempre uno dei pregi del cinema americano. Nel proseguo Bert, ossessionato dall’idea di ripagare un vecchio debito con Estelle, tradisce sia Lavalle che il suo amico Chris, che già si trovava nei guai a causa sua; ovviamente il criminale non digerisce la cosa e per il veterinario si mette davvero male. Chris, nonostante la scarsa lealtà mostrata dal suo compare, riesce a convincere Lavalle a lasciargli fare un tentativo di recuperare i soldi, in cambio delle loro vite. I 12.000 sono ora nelle mani di Estelle che se ne sta tornando all’est e non vuole sentire ragioni arrivando a prendere a revolverate il povero Chris. 

Audrey Murphy ci ha però abituato ad essere, in queste produzioni di serie B, un eroe incorruttibile e imperturbabile oltre che sempre votato ad uno sguardo positivo ed onesto. La donna se ne rende conto e dimentica il tradimento di Bert, per il prevedibile lieto fine che vede anche recuperare il ragazzino rimasto orfano ad inizio film, che si unisce e lei e all’eroe della storia, Chris. Pur nella loro relativa semplicità, i personaggi ci sono e sono tratteggiati in modo netto, ben definito, come si conviene ad un prodotto che, vista la natura avventurosa, conserva sempre la sua matrice educativa. E, se è vero che i pregi de Il collare di ferro non risiedano propriamente nella regia di R. J. Springsteen, va però riconosciuto il suo rigore professionale oltre ad un buon senso del ritmo. Insomma, Il collare di ferro è indiscutibilmente un buon film. E il suo pezzo forte è proprio quello che può sembrare il suo aspetto più ingenuo, ovvero l’ostinazione con cui Chris fa sempre quello che va fatto, quello che è giusto fare, senza curarsi mai di cogliere le opportunità o di tutelare i propri interessi. Emblematico il fatto che, nel finale, vada a riportare i 12.000 dollari che non aveva rubato in prima persona e che mai aveva cercato di tenersi per sé: quando ne ha l’opportunità sceglie senza esitazione di riportarli ai proprietari. Certo, si potrebbe cogliere l’aspetto che la sua onestà è motivata dalla volontà di non fare il fuorilegge a vita ma nelle sue parole possiamo cogliere il vero senso della sua scelta. Ad Estelle che nel finale rifiuta quei soldi che precedentemente aveva difeso a spada tratta, dice che li restituirà per tornare ad essere un uomo libero. Eccolo, quindi, un significato vero e autentico del sogno americano; ed è singolare ma anche significativo che si trovi in un western di serie B con Audrey Murphy, che fu un vero eroe, decorato nella guerra mondiale. La vera libertà è nell’essere onesti.  





      Kathleen Crowley






giovedì 17 settembre 2020

DOV'E' ANNA?

636_DOV'E' ANNA?  Italia, 1976. Regia di Piero Schivazappa.

L’epoca d’oro degli sceneggiati Rai fu tra gli anni sessanta e i settanta e, in quest’ultimo, decennio vennero prodotti alcuni assoluti capolavori di questo format televisivo. Eppure già in opere in genere considerate riuscite come Dov’è Anna? di Piero Schivazappa si intuiscono i primi segnali che il momento culminante è ormai alle spalle. Siamo nel 1976, quando la Rai manda in onda questo sceneggiato giallo in sette puntate, nel pieno dei seventies quindi, ma Dov’è Anna? anticipa alcuni limiti tipici delle produzioni televisive che esploderanno compiutamente dagli anni 80 in poi. Intendiamoci, quello di Schivazappa è nel complesso un buon lavoro, avvincente quasi fin da subito e con un finale desolante che, nel suo pessimismo, denota un certo coraggio da parte degli autori. Il racconto è incentrato sulla misteriosa sparizione di Anna (Teresa Ricci), una giovane donna che vive a Roma. Il marito Carlo (Mariano Rigillo) si metterà sulle sue tracce, soprattutto quando il commissario Bramante (Pier Paolo Capponi) alzerà bandiera bianca non riuscendo a cavare un ragno dal buco; a suo fianco, Paola (Scilla Gabel) collega di Anna segretamente innamorata di lui. Questi aspetti, l’ambientazione nella quotidianità italiana di un racconto giallo e soprattutto l’intraprendenza del privato cittadino a fronte dell’incapacità delle forze dell’ordine, possono aver aiutato lo spettatore del tempo, che si ritrovava in quegli anni in una società che stentava a riconoscere come ambito di appartenenza. Tuttavia un caso di una donna che sparisce senza lasciare traccia, in qualunque contesto, desterà sempre l’attenzione; e questa leva rimante l’elemento di maggior peso di Dov’è Anna? 

In generale, la produzione è di buon livello, ancora fortemente ancorata alla tradizione Rai che, non lo si dirà mai abbastanza, fino a quegli anni era davvero eccellente; basti pensare all’efficacia dell’ossessivo tema musicale dello sceneggiato, opera di Stelvio Cipriani. Dal canto suo, il pubblico rispose in modo assolutamente positivo, con ascolti record ancora oggi lusinghieri; lo si è detto, il tema giallo di una persona scomparsa è, in Italia, il paese del mistero, un argomento che suscita sempre interesse. In questo quadro generale certamente positivo, ci sono alcune note stonate che, lì per lì, poterono passare anche inosservate, ma che invece erano intuizioni negative degli autori. Ad esempio l’uso strumentale di situazioni sociali inserite alla bisogna nei vari episodi, quasi ad allungare il brodo in salsa politicamente corretta di una storia che avrebbe dovuto avere uno sviluppo naturalmente più stringato. Questo rifacendosi, ovviamente, agli elementi forniti dagli autori stessi nella storia da loro raccontata: Anna era, stando a quanto si apprende, una donna semplice e normale che, ad un certo punto, sparisce. A quel punto si scopre che poteva essere la possibile amante del suo datore di lavoro, il signor Lari (Marco Guglielmi), ma si tratta di una falsa pista. Fin qui niente di strano, sia chiaro; la storia di Lari e dei suoi ricatti ai danni del suocero si snoda nella seconda puntata, Anna era stata presa a pretesto e la cosa finisce lì. Anna rimane comunque introvabile. 


 
I problemi incominciano quando lo stratagemma narrativo portante della seconda puntata, una vicenda diversa ed estranea ai reali motivi della scomparsa di Anna che vi si innesta in modo un po’ pretestuoso, è ripetuto dagli autori nei successivi tre capitoli dello sceneggiato. La cosa viene un po’ a noia, si potrebbe dire, tanto è scolastico e palese l’intento degli autori. Il terzo episodio si scopre che Anna voleva adottare un figlio, non potendone avere; nel quarto la gelosia di Guido (Silvano Tranquilli), amico di Paola, si mette di traverso, arrivando ad accusare falsamente Carlo di uxoricidio con una lettera anonima; poi è la volta dell’amante di infanzia di Anna che si rifà vivo per dare corpo al quinto episodio. 

Ma sono tutte trovate estemporanee e poco convincenti e che hanno lo scopo di rivelare, spesso in modo falso, aspetti nascosti nella personal
ità di Anna; se i primi dubbi di Carlo nello scoprire nuove caratteristiche della moglie possono essere un argomento interessante, che ci dice quanto sia difficile riuscire a conoscere una persona, nel corso dello sceneggiato si esagera. Certo, è curioso notare anche come il nostro protagonista sia pronto a cambiare idea sulla propria moglie, dando retta alle varie ipotesi che si profilano in un racconto del genere; ma la ripetizione eccessiva dello stesso meccanismo narrativo finisce per svilire la storia nel suo complesso. L’altro elemento che mina decisamente la riuscita dell’opera è la prestazione d’attori. 

Quasi nessuno è all’altezza del compito e, se Rigillo è sostanzialmente anonimo, ben peggio fa la Gabel. La sua dizione fortemente accentata è resa plausibile dall’origine romagnola del suo personaggio ma non aiuta a rendere credibile la sua performance: certo, in realtà è perfettamente plausibile che una ragazza romagnola che vive a Roma parli con l’accento dialettale delle sue origini ma lo sceneggiato, come del resto anche il cinema, ha le sue regole, la sua alchimia, perché un prodotto di finzione non è tale e quale alla realtà ma deve piuttosto veicolarne l’idea. In effetti, per fare un esempio, negli sceneggiati (
Dov’è Anna? compreso) gli interni soffrono sempre di una certa artificiosità che denota una parentela col teatro, che viene perdonata dallo spettatore perché compensata da altro; ad esempio dall’enfasi recitativa degli interpreti, che è sbilanciata nel senso opposto. Qui, invece, ad una sciatteria (gli interni posticci) se ne somma un’altra, con la Gabel che, pur essendo un’attrice tutto sommato di nome, parla come una banalissima vicina di casa. L’aspetto avvenente dell’attrice acuisce questa sua scarsa preparazione come interprete e peggiora eccessivamente l’effetto definitivo sullo schermo. Ecco, la sua prestazione è un po’ lo specchio dell’intero sceneggiato Dov’è Anna?: si notano più le lacune che gli aspetti positivi. 


Scilla Gabel






mercoledì 16 settembre 2020

HAMMAMET

 635_HAMMAMET . Italia, 2020. Regia di Gianni Amelio.

“Qualcuno mi aiuti a dire che il mio Hammamet non è un film su Craxi. E’ piuttosto un film su Fausto” [Gianni Amelio su Film TV n.1 del 7/1/2020]. E il regista calabrese non si limita a queste parole ma, sulla citata rivista, scrive direttamente un articolo che fornisce alcune istruzioni per il suo film, in concomitanza con l’uscita nelle sale. Che, detta così, fa davvero brutto, ma Amelio se lo merita. Non perché sia un cattivo regista o perché il film in questione, Hammamet, sia da evitare; ma scrivere un articolo preparatorio suona un po’ come una excusatio non petita, accusatio manifesta. Insomma, se Amelio si prende la briga di preparare il suo pubblico è perché, evidentemente, si rende conto che nel film qualcosa non gira per il verso giusto. D’altra parte, perché scomodare Craxi se poi su vuole parlare di tal Fausto, tizio che non esiste (sempre stando al famoso articolo) e che ha un nome di un precedente personaggio della cinematografia di Amelio. Nel suo scritto il regista va oltre, riportando i nomi dei film che si vedono sugli schermi televisivi di Hammamet, ammettendo esplicitamente che si tratta di una sorta di richiesta di aiuto a Jacques Tourneur, Anthony Mann e Douglas Sirk, gli autori delle opere in questione. Viene difficile pensare che questi tre giganti del cinema mondiale possano in qualche modo aiutare Amelio nel suo tentativo di schivare quella sorta di monumento che è Craxi che, forse un po’ incautamente, l’autore italiano si è tirato in casa. 

Perché quella di Bettino Craxi è una figura chiave della realtà contemporanea italiana che non è ancora stata affrontata in modo compiuto e quindi tutt’altro che sdoganata. Non si può prendere Craxi e parlare di Fausto, o del rapporto tra padre e figlio o di qualunque altra cosa che non sia tangentopoli; non si può ancora. O meglio, si può, naturalmente, ma poi occorre scrivere un goffo articolo per cercare di istradare il pubblico, come se un film non fosse un’opera autonoma. Hammamet non affronta la questione storica di tangentopoli ma accosta al personaggio di Craxi, riportato in vita da una maiuscola prestazione attoriale di Pierfrancesco Favino, alcuni personaggi perlopiù inventati: il Fausto che si diceva (Luca Filippi), suo padre Vincenzo (Giuseppe Cederna), l’esponente politico in visita (Renato Carpentieri), l’amante (Claudia Gerini). Più ancorati alla realtà i famigliari dell’ex presidente del consiglio: sua moglie (Silvia Cohen) e i figli, Anita (Livia Rossi) e Bobo (Alberto Paradossi). In effetti l’idea di inserire un personaggio storico interpretato in modo mimetico in un contesto con elementi inventati è assai stuzzicante; ma il personaggio deve appunto essere storico, cioè passato alla Storia. 

Il problema, in Italia, è che non esistendo più una capacità sociale di affrontare e superare i propri problemi, questi rimangono sospesi in eterno, restando sempre d’attualità anche fossero passati decenni. E le parti in causa rimangono sulle proprie barricate, pronte ad ogni occasione a rinfocolare la disputa in modo strumentale. C’è, al massimo, il tentativo di confondere l’analisi storica, per sua natura fredda e distaccata, con la messa in pratica di sanatorie e condoni che ascrivano tutto alle convergenze e circostanze dell’epoca in questione; proprio Craxi fu uno dei massimi esponenti di questo modo di pensare, ma lo fu soprattutto quando era parte in causa e cercava una scappatoia che alleviasse le sue responsabilità. E’ soprattutto perché manca, probabilmente in Italia più che altrove, la capacità di affrontare a piè fermo argomenti spinosi o scomodi che ci sono temi che non possono essere utilizzati dalla narrativa d’evasione in modo del tutto proprio. 
E anche Amelio, in fondo, con il suo Hammamet, che su Craxi non prende alcuna posizione, e in ambito non aggiunge nulla a quanto non fosse già abbondantemente risaputo, si inserisce nel solco della tradizione italica di cercare di non pestare i calli sbagliati. Purtroppo, nonostante l’articolo preventivo, se vedo Favino aggirarsi per lo schermo uguale sputato a Craxi, me ne frego di Fausto o di chicchessia e spero di cogliere qualcosa che mi faccia capire come diavolo arrivammo a quella assurda situazione stroncata dall’inchiesta mani pulite. Perché uno sguardo lucido, asettico, neutrale, ma proprio per questo implacabile, su fatti e personaggi di quella vicenda non l’abbiamo ancora avuto. E, se mai l’avremo, conoscendo il cinema italiano di cui Hammamet è un tipico esempio, non lo troveremo certo nel buio di una sala.



Claudia Gerini



lunedì 14 settembre 2020

TOMAHAWK - SCURE DI GUERRA

634_TOMAHAWK - SCURE DI GUERRA (Tomahawk). Stati Uniti, 1951. Regia di George Sherman.

Ennesimo esempio che dimostra come il western classico fosse già filo indiano fin dagli anni cinquanta, Tomahawk, scure di guerra, è un valido romanzo storico cinematografico. Il film pone subito in chiaro le ambizioni di non essere unicamente opera di svago ma di avere anche un ruolo almeno parzialmente didattico. E forse questa impostazione un po’ schematica può essere intesa come una debolezza del film di Sherman sebbene sia un limite sopportabile. Al cinema western, negli anni del dopoguerra, fu infatti deputato lo scopo di raccontare epicamente la nascita della nazione, compiuta in modo concreto e al tempo stesso identificata simbolicamente, con la conquista del west. Ma questa celebrazione della grandezza americana rischiava di dimenticare chi ne aveva pagato il conto più salato, ovvero gli indiani d’America. Questo deve aver pensato George Sherman che, con il suo film, racconta, in modo romanzato, del tentativo degli americani di aprire una pista, il Bozeman Trail, attraverso i territori Sioux del capo Nuvola Rossa. L’idea era quella di costruire una serie di forti militari in territorio indiano per garantire il flusso dei coloni verso i terreni auriferi del Montana, scoperti in quel periodo. Protagonista del racconto è Jim Bridger (Van Heflin, bene in parte), personaggio storico realmente esistito; a suo fianco, Sol Beckworth (l’ottimo Jack Oakie) e, a cercare di mettere un po’ pepe rosa, pur senza grande costrutto, Julie (Yvonne De Carlo, peraltro gradevole). Interessanti i cenni storici, tutto sommato abbastanza fedeli agli eventi, come i trattati di Laramie non firmati da Nuvola Rossa o il forte dato alle fiamme a vicenda conclusa.

Interessante anche l’attenzione posta sui fucili a retrocarica introdotti dall’esercito statunitense, un’innovazione meccanica decisiva nelle guerre indiane. Ma ad avere la ribalta migliore sono gli indiani: i Sioux, e in particolare Nuvola Rossa, sono raffigurati con pregevole attenzione. Il capo è mostrato in modo adeguato, col cimiero di penne d’aquila, all’incontro per i trattati o durante le azioni di battaglia, mentre nel campo lo vediamo con un’unica penna, esattamente come nelle fotografie più note che lo ritraggono. L’interprete John War Eagle ci offre un’ottima interpretazione, decisamente carismatica pur non avendo poi tutto questo spazio a disposizione sullo schermo. In ogni caso, la cultura indiana è mostrata con rispetto, magari in sequenze che riprendono azioni poco affini alla nostra comune morale, come l’abitudine dei ragazzi pellirossa di rubare cavalli nell’intento di compiere atti di coraggio per dimostrare il proprio valore. 

Oppure direttamente dalle parole di Bridger: lo scout descrive in modo oggettivo, seppur brevemente, la cultura degli indiani delle praterie basata sulla caccia al bisonte, mentre è molto più accorato quando racconta della sua tragedia famigliare. La povera Julie, inizialmente un po’ superficialmente razzista, si invaghisce dell’uomo, che però le racconta di come fosse sposato ad una donna indiana, trucidata poi con il figlioletto, da una squadra della milizia di volontari americana. La faccenda la turba un poco e, quando vorrebbe scusarsi, per aver tenuto un comportamento discriminatorio nei confronti della giovane nipote di Jim, la cheyenne Monahseetah (Susan Cabot, molto carina), l’orgoglio la frena. Suo zio Dan (Tom Tully) le dà però un parere illuminante: se fosse veramente pentita, scusarsi non le costerebbe fatica; osservazione nient’affatto banale. 

Ma va anche detto che, in un film prevalentemente di azione, c’è poco tempo per le parole e quindi anche la storia d’amore tra Jim e Julie non trova il modo di svilupparsi e andare in porto, almeno per quello che si vede. Preme maggiormente, a Sherman, mostrare la conclusione della vicenda storica, con il successo (almeno temporaneo) dei Sioux. E anche in tema di parole, c’è un ulteriore dettaglio che nel film premia con maggior attenzione gli indiani. Seppur i dialoghi tra i nativi sono probabilmente non attendibili, c’è almeno una parola, wasichu, che Nuvola Rossa pronuncia distintamente e che era il termine usato dalle tribù di lingua dakota per definire gli uomini bianchi. Il termine pare significasse ‘he takes fat’, ad indicare l’attitudine dei discendenti degli europei a accaparrarsi il grasso, la parte migliore delle cose. L’utilizzo di un termine autentico è forse un dettaglio marginale, ma a suo modo significativo, del rispetto dell’opera nei confronti dei nativi americani. E poi, almeno per questa volta, i bianchi il grasso l’han dovuto lasciare. 







Yvonne De Carlo






Susan Cabot