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venerdì 20 marzo 2020

MOTORPSYCHO!

539_MOTORPSYCHO! ; Stati Uniti 1965. Regia di Russ Meyer.

Il precedente lungometraggio di Russ Meyer, Mudhoney, nella sua seconda e definitiva edizione, aveva ottenuto un relativo successo ma aveva al contempo avuto problemi con la censura, per via delle scene di sesso, tanto che ci fu chi lo considerò alla stregua di un film pornografico. Probabilmente questi contrattempi influirono nelle scelte artistiche di Meyer anche se, in quel 1965, il regista dirigerà altri due film, Motorpsycho! e Faster, Pussycat! Kill! Kill! e quindi non deve aver avuto troppo tempo per ponderare a lungo le sue scelte. Chissà che l’evoluzione del suo stile non sia stata anche legata ad una ricerca che soddisfacesse il suo gusto artistico, sebbene è indiscutibile che l’indispensabile riscontro del pubblico, unito alla necessità di scansare le noie della censura, siano state due coordinate certamente privilegiate. In ogni caso, se l’elemento sessuale, in parte aggiunto in un secondo tempo, era stato probabilmente la chiave del parziale successo di Mudhoney, forse in seguito ai problemi che fece scaturire come conseguenza, nel successivo Motorpsycho! Meyer propende per dare meno spazio alle scene piccanti in favore di quelle violente. Memore del tenore eccessivamente opprimente che rischiavano di avere i suoi racconti, che per far funzionare aveva appunto alleviato con le scene spinte, e non volendo stavolta ricorrervi, invece di sollevare il piede dal pedale della violenza, decide di spingerlo ancora più a fondo. L’idea è quella di stilizzare l’uso della violenza con un’ottica tanto eccessiva da sembrare iperrealista. 




E non solo: se in precedenza il quadro morale era ancora ben delineato, in Mudhoney, ad esempio, già solo con l’ambientazione durante la Grande Depressione che con il suo carico di povertà e miseria legittimava, in un certo senso, il diffuso disagio di cui era intrisa la storia, in Motorpsycho! siamo di fronte ad una situazione ben diversa. I tre protagonisti, Brahim (Stephen Oliver), Dante (Joseph Cellini) e Slick (Thomas Scott) sono tre sfaccendati che scorazzano per il contemporaneo southwest americano a bordo di ciclomotori, in cerca di avventure e violenza. Già in questi pochi elementi ci sono alcuni spunti interessanti del film: innanzitutto Motorpycho! anticipa I selvaggi di Roger Corman e Easy Rider di Dennis Hopper, le opere principali nella cosiddetta bikexploitation, la corrente che narrava delle gesta dei centauri degli anni 60/70. 

In realtà Meyer appare quasi più maturo, se così si può dire, dei suoi epigoni, in quanto i suoi motociclisti, che viaggiano in sella a ciclomotori e non a impressionanti chopper, sembrano più caricature che figure mitologiche. In pratica è come se quella di Meyer fosse già la farsa, un’evoluzione che in genere avviene a posteriori, di una corrente cinematografica ancora in divenire. Tuttavia ci sono altri elementi in cui Meyer dimostra di avere una particolare lungimiranza: Brahim, il leader del gruppo oltre quello con i problemi psicologici più seri, è un ex combattente del Vietnam, e anche questo aspetto, il disagio dei veterani della cosiddetta guerra sporca, diverrà un tema diffuso ripreso in moltissime e ben più importanti opere. 

I suoi compagni hanno caratteristiche diverse, ma sempre con rimandi alla realtà: Dante è un edonista che sembra essere rimasto agli anni 50 mentre più contemporaneo all’epoca è Slick, una persona insulsa che sommerge tutto con la musica psichedelica della sua radiolina. Ci sono quindi anche in Motorpsycho! delle giustificazioni sociologiche al disagio alle spalle dei tre protagonisti, ma in apparenza solo il Vietnam per Brahim può essere inteso come una solida fonte di disturbo per l’individuo. In realtà la vacuità di Dante o la superficialità di Slick, che chiama la madre e la rassicura nel bel mezzo delle loro scorrerie, sono indici di problemi sociali più profondi proprio perché apparentemente non hanno motivazioni concrete alle spalle. 

E poi, i motociclisti di Easy Rider potevano vantare, anche solo a livello iconico, l’ambizione ad essere i paladini della libertà contro il conformismo del sistema, in sella alle loro poderose motociclette che ricordavano i cavalli dei cow boys del far west. I tre disagiati di Motorpsycho! sono piuttosto tre balordi che nell’uso del ciclomotore colgono i vantaggi di potersi rapidamente spostare alla ricerca di qualche vittima della loro insensata violenza. Devono andare a Las Vegas, luogo di perdizione per definizione, ma la semplice opportunità di un po’ di divertimento trovato a portata di mano li fa cambiare destinazione. Il caso c’entra, quindi, ma i nostri non vengono indotti in tentazione mentre, per esempio, si recano al lavoro, ma quando sono sulla via per Vegas, la città del vizio: insomma, non hanno alcuna giustificazione. Sulla loro strada i tre baldi giovanotti trovano dapprima una coppia sulle rive di un fiume: l’uomo cerca di difendere la ragazza, ma viene pestato duramente, poi Brahim approfitta della giovane. 



La scena non contiene particolari aspetti piccanti, se non alcune riprese della ragazza in costume due pezzi mentre prende il sole, mentre sul piano della violenza questa è certamente più esplicita sebbene non particolarmente fuori dall’ordinario. Se non per il fatto, comune e ripetuto nel cinema di Russ Meyer, che la violenza viene esercitata sugli uomini e sulle donne allo stesso modo, non c’è infatti alcuna cavalleria nelle scene violente e, anzi, si può scorgere un nesso tra violenza e sesso che quindi finisce per enfatizzare maggiormente gli scontri misti rispetto alle scazzottate virili. Il sadismo degli uomini è evidente mentre per le donne, più che di masochismo, si può notare una spiccata vena esibizionista atta a stimolare e stuzzicare l’altro sesso. Manca, in Motorpsycho!, il fascino per l’uomo violento, che era invece in parte presente in Mudhoney, mentre nel successivo Faster, Pussycat! Kill! Kill! Meyer ribalterà i ruoli sadomasochistici che, in effetti, hanno in genere una funzionalità, diciamo, bidirezionale. 

Questo a testimonianza che non c’è, nel suo intento, una subordinazione della donna all’uomo in senso politico sociale. E’ la semplice costatazione che la violenza è affascinante perché è connessa al sesso e, quindi, si può dire che i cosiddetti due temi del cinema di Russ Meyer del cosiddetto ciclo gotico (da Lorna a Faster, Pussycat! Kill! Kill! ) siano in effetti sovrapponibili. Tornando a Motorpsycho! dopo il citato stupro introduttivo, comune ai due precedenti film, entra in gioco il protagonista morale della storia, Cory Maddox (Alex Rocco) veterinario sposato con Gail (Holle K. Winters). Mentre si reca dall’avvenente Jessica Fannin (l’esuberante Sharon Lee) per visitare la sua giumenta, a casa sua irrompono i tre psicopatici motorizzati. 

Così, in montaggio alternato, assistiamo alla violenza sulla povera Gail, mentre la fedeltà coniugale di Cory è messa a dura prova dalla avances di Jessica; l’uomo, ceduto ad un unico bacio, riesce poi a resistere alla tentazione anche se per farlo deve allontanarsi rapidamente dalla focosa allevatrice di cavalli. La povera Gail non può invece sottrarsi al suo destino e finisce davvero malconcia, tanto che se in un primo momento sembra essere sopravvissuta, poi viene addirittura data per morta. Questa, che sembra essere a tutti gli effetti un’incongruenza della trama, in un certo senso certifica, col suo essere un evento raro in Meyer, la relativa bontà di queste strutture narrative del regista californiano, nel complesso abbastanza plausibili. A questo punto Cory si lancia alla ricerca dei tre balordi, mentre lo sceriffo, interpretato dallo stesso Meyer, appare meno intraprendente. 

Qui c’è forse una divertente dichiarazione programmatica del regista: il suo personaggio, mentre si sofferma a guardare sotto la coperta della povera Gail, (e viene anche sgridato per questo dal medico dell’ambulanza), non pare troppo propenso a mettersi in caccia dei malviventi. Come dire: come già dietro la macchina da presa, anche nelle vesti di attore Meyer è più propenso a contemplare le bellezze femminili piuttosto che imbastire azioni avventurose. Un’altra conferma di questa tendenza metalinguistica del regista in quest’opera l’abbiamo anche dalle parole di Ruby (la conturbante Haji) che, per giustificare la sua storia intrisa di sesso e violenza, rivolta a Cory commenta acida: “che ti aspettavi, la storia di Fanny Hill?”, facendo riferimento al tentativo, fallito, di Meyer di entrare nella Hollywood mainstream (La cugina Fanny, 1964). 

Tornando alla storia, vista l’indolenza dello sceriffo, Cory si mette ad investigare in proprio e sulla pista dei motorpshyco l’uomo incontra così la suddetta Ruby, vittima, insieme all’anziano marito, della furia tre: il vecchio c’è rimasto mentre lei, fortunosamente, l’ha scampata. Nel finale, in uno scontro tipicamente western che rende omaggio all’ambientazione, Cory sconfigge, a suon di dinamite, Brahim e convola a lieto fine con Ruby (con buona pace della moglie Gail che, per altro, a quel punto viene data per morta). Il film pur avendone molte occasioni, nelle scene degli stupri, non indugia particolarmente sulla sponda erotica e anzi, c’è un passaggio emblematico delle scelte del regista. Nel loro inseguimento ai tre folli delinquenti, Cory e Ruby si imbattono in un serpente che morde la gamba dell’uomo. Il momento è drammatico perché, se non viene estratto il veleno rapidamente, per Cory non ci sarà scampo; per questo motivo il morso viene inciso per tempo con il coltello, ma non basta. 

Occorre impedire al veleno di entrare in circolo e così l’uomo intima in modo più che energico alla spaventatissima Ruby di succhiarlo fuori: è una scena violenta nei modi e anche negli evidentissimi rimandi ad un rapporto orale di natura sessuale. Nonostante ciò che viene mostrato sia del tutto giustificato dalla trama, la concitazione dei drammatici momenti è legata alla paura che il veleno faccia effetto, è evidente il gioco che Meyer intesse con il pubblico per aggirare i problemi di censura. Si tratta di un’enfatizzazione di elementi tipici del cinema anche classico, che spesso aveva usato queste metafore visive (tipo un treno che entra in una galleria) per aggirare i problemi della censura. In Motorpsycho! ce n’è uno smaccato esempio quando, durante le scene della violenza su Gail, il montaggio alternato propone la pistola della pompa di benzina che si infila nel serbatoio del furgone di Cory. In questo caso è il classico semplice rimando, quella successiva al morso del serpente è invece un’intera sequenza costruita appositamente alla bisogna. Nella quale, la natura scherzosa di matrice metalinguistica, con regista e spettatori che se la intendono, smorza la violenza insita, che diventa quindi evidentemente doppiamente posticcia, visto che è una finzione nella finzione. E’ in fondo questo il vero passaggio chiave di Motorpsycho!, ovvero quando il regista apre finalmente una strada per comunicare col pubblico aggirando i limiti della censura, non soltanto con qualche sporadico spunto, ma con l’intera sua opera.
Russ Meyer ha finalmente trovato la formula del suo cinema. 


Haji




                     
 Sharon Lee



giovedì 19 marzo 2020

MUDHONEY

538_MUDHONEY ; Stati Uniti 1965. Regia di Russ Meyer.

Dopo il positivo risconto avuto da Lorna, che è effettivamente un film interessante, Russ Meyer venne ingaggiato dalla Universal Pictures per sostituire Douglas Sirk nella direzione di La cugina Fanny. Si trattava di una produzione di prestigio, con star del calibro di Miriam Hopkins, ma le cose non andarono per il verso giusto e Meyer non poté lavorare al montaggio finale, tanto che finì per ripudiare il film. Dopo questo esperimento fallimentare nella Hollywood di primo livello, il regista californiano tornò nel suo ambito, quello del sinema, e riprese il discorso aperto con Lorna, con un film che si inseriva in quello stesso solco. Mudhoney presenta infatti molte analogie con Lorna, sebbene sarà forse più significativo per essere un’ulteriore mezzo passo falso di Meyer. Intendiamoci, non è che sia poi così clamorosamente peggiore di altri film del regista, che non brillano certo per bellezza in senso canonico del termine. Oltretutto al botteghino il film non andò poi malaccio: dopo una prima uscita con il titolo di Rope of Flesh, che non ebbe un’accoglienza positiva, il film fu rieditato. Venne cambiato il manifesto, togliendo la scena del linciaggio che, secondo Meyer, lasciava intendere che si trattasse di un horror, mentre vennero aggiunte alcune scene piccanti per bilanciare in modo più equo la presenza di violenza e sesso. Queste modifiche ottennero il risultato auspicato e, da un punto di vista economico, Mudhoney ottenne un discreto riscontro. Anche una parte della critica, quella certamente di vedute più larghe, diede parere favorevole tanto che spesso il film è citato come tra i migliori del regista. 




Eppure, in seguito, Meyer ammise di essersi un po’ montato la testa: “pensavo di essere Erskine Caldwell, John Steinbeck e George Stevens in uno” alludendo al tentativo di fare un film con una storia che potesse essere al livello degli autori citati. E questo è forse il vero limite di Mudhoney, che manca di dare una connotazione giocosa alla delirante vena folle quasi surrealista che attraversa questo tipo di suoi lavori. Il confine è spesso labile, sia chiaro, perché già le scene violente e malsane in Lorna erano di per sé piuttosto pesanti, ma tutto sommato il quadro morale della storia reggeva collocando, all’interno della storia, la violenza come assolutamente condannabile. In seguito, in altre opere, a partire già da Motorpsycho!,  Meyer allenterà in apparenza la briglia con scene spesso gratuite di violenza o di sesso ma, a quel punto, la ricerca della complicità con lo spettatore è facilmente intuibile e quindi, anche se l’aspetto ludico può sembrare non propriamente esplicito, si tratta di un gioco che avviene tra autore e fruitore dell’opera. Non a caso l’opera più famosa della filmografia di Meyer è Faster, Pussycat! Kill! Kill! che, con Tura Satana che malmena i maschi della storia, è un evidente gioco di ribaltamento di ruoli in chiave sadomaso. In Mudhoney questo aspetto è un po’ carente: a fronte di alcuni passaggi assolutamente stranianti e deliranti, anche se è un po’ difficile da ammettere, il film pecca forse di eccessiva seriosità. La vera poetica di Meyer si intuisce solamente, soprattutto nell’allegria genuina del personaggio migliore del film, Eula (una magnifica Rena Horten di cui pare Meyer si fosse comprensibilmente innamorato) la ragazza sorda e muta che, in quest’opera, è l’unica ambasciatrice di quella gioiosa voglia di vivere che è uno degli elementi più importanti del cinema del regista californiano. 




Perché, si, quello di Russ Meyer è un cinema provocatorio e dissacrante e bisogna innanzitutto accettare l’implicita ammissione che la violenza, quanto il sesso, siano affascinanti ed è per questo che vengono esplicitamente mostrati sullo schermo. Ma questo non vuol dire che la violenza venga legittimata dal senso delle opere di Meyer, anzi. Detto questo è pur sempre da tenere in considerazione l’eventuale obiezione che il mostrare questi aspetti estremi possa esser fatto per mera speculazione economica e non per un tentativo di prendere coscienza con quella che si potrebbe definire la nostra metà oscura, abitualmente sottoposta alla censura della morale se non addirittura della legge. La sensibilità di ognuno, di fronte a certi argomenti, è certamente diversa, ma questo ambito non può certo essere affrontato in una semplice analisi di un film. 

Comunque, a patto di accettare il cinema di Meyer, Mudhoney è un film interessante che riprende ed elabora diversamente certi elementi già presenti in Lorna ma forse non trova la giusta alchimia dal punto di vista del tono della storia. Come in Lorna c’è una coppia in crisi che esplode nel momento in cui sopraggiunge un ex detenuto; in questo caso il marito non è però un personaggio in qualche modo positivo, come poteva essere il Jim del film precedente, anzi. E’ Sidney Brenshaw, un disgraziato alcolizzato e violento, a cui Hal Hopper presta un aspetto ben poco rassicurante. Hopper era già nel cast di Lorna, dove era Luther, un ruolo importante, soprattutto per la spiazzante confessione finale che dimostrava che anche le peggiori canaglie hanno un’anima. In Mudhoney ha un posto più centrale, è il marito che picchia la moglie Hanna (Antoinette Cristiani), la tradisce, mira ad impossessarsi del ranch dello zio di lei, Lute (Staurt Lancaster) ma, non contento, nel corso della storia peggiorerà, e di molto, la sua situazione. Siamo negli anni della Grande Depressione e del Proibizionismo e Sidney è sempre ubriaco; quando si ritrova in casa (casa che è la fattoria di Lute, per la precisione) il nuovo aiutante Calif (John Furlong) cerca subito di fare capire all’ultimo arrivato chi comanda. Insomma, Sidney è una vera calamità, per Annah e suo zio, e presto prenderà di mira anche Calif, intuendo che il ragazzo ha fatto breccia nei cuori di Lute e sua moglie. 


Con l’ausilio di fratello Hanson (Frank Bolger), un lugubre predicatore, calunnia Calif incolpandolo, presso lo sparuto paesino, di avere una tresca con sua moglie sotto il suo stesso tetto coniugale. In realtà Annah resiste alla tentazione e anzi, nel finale, si schiererà a difesa del marito, ritenendolo unicamente un povero malato di mente, mentre è piuttosto Sidney a spassarsela abitualmente con le figlie di Maggie Marie (una surreale Princess Livingston che sembra uscita dal circo degli orrori), la citata Eula e la prosperosa Clara Belle (Lorna Maitland, la mitica Lorna dell’omonimo film). La trama si snoda in un susseguirsi di scene di violenza e sesso malsano, con un interessante innesto di elementi realisti e altri talmente surreali da potersi definire astratti. E’ realistica l’ambientazione della Grande Depressione, la povertà economica e morale della gente, mentre tra questa, alcuni elementi appaiono eccessivamente resi in modo caricaturale: di Maggie Marie si è detto, ma ci sono almeno altri due tizi che sono talmente imbruttiti da sembrare minorati. Se consideriamo che tra gli individui che si possano ritenere normali, tipo Calif, Lute e sorella Hanson (Lee Ballard), si annoverano presenze come Sidney e a fratello Hanson, che sono ben più che borderline, si capisce che la caratterizzazione dei personaggi della storia è decisamente estrema. Anche perché, in un simile desolante contesto, spiccano, anche in virtù delle attenzioni registiche, tre bionde platino mozzafiato (Annah, Eula e Clara Belle). La musica, in genere una sorta di jazz ma che si fa spudoratamente languida quando una delle bellezze bionde della vicenda è sullo schermo, i dialoghi e la scarsa vena interpretativa degli attori, confeziona una vicenda che tutto può dirsi tranne che credibile. 

Sorprendentemente lo sceriffo del paese, tentativo di figura morale vista la levatura del prete della storia, nel momento cruciale invita Annah a fuggire con Calif, ma la donna non se la sente di abbandonare il marito proprio ora che è accusato di omicidio. Sidney ha infatti stuprato e ucciso, in preda al delirio etilico, la povera sorella Hanson, rea di ricordargli la moglie. Così Annah, Calif e lo sceriffo cercano di salvare Sidney dal linciaggio a cui i paesani, caldeggiati da fratello Hanson, vogliono sottoporlo. Le scene drammatiche dell’impiccagione sono montate in alternato, in uno stile tipico di Meyer, con le soavi immagini di Eula che gioca con un gattino. La ragazza, sordo muta, attraversa tutto il film senza venire minimamente intaccata dal marcio, o meglio, dal fango (in riferimento al titolo) che imbratta ogni cosa e, nella sua innocenza, è spesso peccaminosa (quando prova a sedurre Calif) esprimendo una contraddizione tipica del cinema di Meyer. Ma l’aspetto più interessante è che la ragazza, che dopo l’ora e mezza di film è chiaramente una persona pulita e sincera nella sua inconsapevole estraneità a tutto ciò che la circonda, è attratta proprio da Sidney, l’elemento peggiore della storia. 

Anche questo è un tipico cortocircuito alla Meyer, si potrebbe anche azzardare a dire che è un vero e proprio Meyer’s touch. Quando Eula arriva, nella malmessa main street, e vede Sidney appeso per il collo, si precipita ai suoi piedi e trova la voce per un urlo disperato. La citazione finale, “Il male di un uomo può diventare la maledizione di tutti”, aforisma del drammaturgo romano Publilio Sirio, se sancisce le ambizioni autoriali di Mudhoney può anche essere naturalmente presa come chiave di lettura dell’opera. Nel fango della Grande Depressione, simile ad una sorta di magma primordiale della creazione (forse il mud-honey del titolo), c’erano già gli elementi che avrebbero dato vita alla moderna società americana. Il male, cristallizzato in Sidney, non può venir estirpato con la violenza (l’impiccagione) perché così facendo ricadrà sull’intera comunità, contaminando perfino l’incarnazione stessa dell’innocenza, Eula che, a dimostrazione di ciò, acquista si la voce, ma per un grido di disperazione.
Riuscito o meno, vero exploitation d’essai.       



Antoinette Christian


Rena Horten


  





        
Lorna Maitland


martedì 17 marzo 2020

LORNA

537_LORNA ; Stati Uniti 1964. Regia di Russ Meyer.

Quello che è incentrato sulla prosperosa figura di Lorna Maitland, è il film che segna una svolta nella carriera registica di Russ Meyer. Da Lorna, così si intitola l’opera con vede l’esordio come attrice della procace ballerina di Las Vegas, in poi, Meyer sfornerà una serie di titoli considerati oggi di culto, spesso apprezzati per l’esuberanza fisica delle sue protagoniste ma tra i quali alcuni anche pregevoli (Faster, Pussycat! Kill! Kill! dell’anno successivo, tanto per citare il più famoso). Precisamente, in genere, il cinema del regista californiano è ricordato per gli eccessi in tema di sesso e violenza, sebbene gli sia quasi universalmente riconosciuto un tono dissacrante ma divertito che salva i suoi film perlomeno dalle censure meno estreme. Lorna ha però un approccio meno spensierato di altre pellicole di Meyer e, anche se l’abbondante seno della protagonista è certamente uno degli architravi dell’opera, il clima della storia non è poi così leggero come ci si potrebbe attendere da un film che si presenta con una tagline come “Lorna, una donna troppo per un uomo solo!”. La presenza di un quadro morale in un’opera di un autore considerato dissacrante come Meyer può sorprendere ma, in effetti, la figura del regista è più interessante di quanto sia stato banalmente spesso considerato. In ogni caso, attenendoci a Lorna, è innegabile che il film abbia alcuni passaggi in cui la forza simbolica delle immagini sia usata più come monito che per solleticare gli istinti sessuali del pubblico. A quest’ultimo fine ci sono altri passaggi, quelli del bagno della stessa Lorna, i dettagli del suo corpo ma anche altri momenti, e questo è altrettanto innegabile, come quelli dello stupro o della violenza. 


In questo senso Meyer non è un ipocrita e sa che la scena dell’incipit con Luther (Hal Hopper) che usa violenza sulla povera Ruthie (Althea Currier) scalderà subito gli istinti del suo pubblico pagante, ironicamente e simbolicamente rappresentato sullo schermo dallo squallido Jonah (Doc Scortt) che si gode la scena, con particolare predilezione per i passaggi di violenza brutale. Del resto questi film, già all'interno di quello che era noto come sinema (contrazione di sin e cinema, peccato e cinema) erano definiti roughies, ovvero rozzi, rudi. Ma nel primissimo attacco iniziale di Lorna c’è un predicatore (James Griffith, che è anche lo sceneggiatore dell’opera) che ci blocca la strada, una sorta di via del film, dandoci subito alcune dritte per godercela. Tra le quali peschiamo un “non giudicare se non vuoi essere giudicato” che sembra particolarmente adeguato. Ci sono poi altre scene di evidente forza simbolica, la donna di sale o la morte con la falce, con lo stesso predicatore che ritorna come un novello Virgilio ad accompagnarci in questo viaggio nell’infernale sud statunitense. La storia ci racconta di una moglie, Lorna, ça va sans dire, insoddisfatta dal pur devoto marito Jim (James Rucker) che pensa solo a studiare da commercialista e a lavorare duramente nella miniera di sale. La donna è annoiata, un giorno si reca al fiume per un bagno, sopraggiunge un evaso (Mark Bradley) che la violenta: Lorna scopre così che un rapporto sessuale può darle appagamento. 




La cosa la travolge tanto da farle perdere la testa per lo sconosciuto: per lui cucina, va a far la spesa usando i pochi soldi che lei e Jim hanno in casa, insomma farebbe di tutto (soprattutto quello che ormai non fa più per il marito) per non perdere quest’uomo. Il quale approfitta palesemente della situazione visto che è in fuga e comunque Lorna è un bel bocconcino. Può sembrare che l’ottica di Meyer sia, in un certo senso, benevola nei confronti del comportamento della donna, considerato che tradisce il marito legittimata dall’inconcludenza di questi a letto. In realtà il regista non è affatto così semplicistico: le difficoltà di sintonia sessuale tra Lorna e Jim sono mostrate per quello che sono in una situazione anche tipica nella coppia uomo/donna, con i tempi e i modi di piacere diversi per natura. E’ una condizione su cui Meyer si esprime in modo chiaro e certamente audace, per l’epoca, ma il regista non si inventa niente. Su questo problema fisiologico si innesta quello morale, che non è affatto assente nel film. Le scene del rapporto sessuale tra Lorna e l’evaso sono montate in alternato con lo scontro tra Jim e Luther: mentre il marito difende l’onorabilità della moglie, la donna lo tradisce. E’ una situazione doppiamente beffarda perché, oltretutto, la donna pensa che l’uomo si sia dimenticato del loro anniversario, che cade proprio quel giorno, mentre Jim se lo ricorda e ha in mente di tornare a casa in anticipo e fare una sorpresa alla moglie. Insomma, Meyer rincara la dose e la sua condanna del tradimento è quindi ancora più lampante. Se ne rende conto anche Lorna quando, nel momento critico, dovrà scegliere se seguire l’istinto naturale (l’evaso) o la morale (il marito) e, optando per la seconda soluzione, finirà inevitabilmente per pagare (duramente) il prezzo del tradimento. E’ una storia dove siamo invitati a riflettere (in fondo in modo letterale, dal predicatore), sulle nostre debolezze, sul fascino che esercita su di noi la violenza (Jonah che guarda arrapato Luther malmenare Ruth o Lorna che si invaghisce di un bruto dal gradevole aspetto), ma anche sulle difficoltà che dobbiamo affrontare nella vita. Dall’incapacità di Jim di soddisfare Lorna, di cui manco è consapevole (e questa mancanza di attenzione è in fondo la sua colpa maggiore), alle incomprensioni tra moglie e marito che tra loro non sembrano ricercare il feeling con la giusta convinzione, lui troppo platonico lei troppo svogliata. Ma il passaggio cruciale, che rende Lorna un film certamente morale, è la confessione di Luther, del tutto inaspettata e imprevedibile, ma sorprendentemente credibile. Jim, Luther e Jonah sono quindi tornati prima dalla cava, dopo la scazzottata e mostrano evidenti i segni della zuffa. 


Lorna è preoccupata, perché non aspettava il marito così presto e l’evaso è ancora in casa. Quando esce sul molo per anticipare le mosse e fermare il marito appena sceso dalla barca, dando il tempo all’amante di squagliarsi, la ragazza nota Jim (e gli altri) visivamente pesti e malconci. Forse è solo la scusa per prendere tempo ma le sue domande sono insistenti, vuole sapere cosa sia accaduto alla cava. Di fronte a Luther e Jonah, Jim evita di raccontare a Lorna di come i suoi colleghi avessero addirittura scritto una canzone in cui lo mettevano alla berlina insultando la rispettabilità della moglie. La scena è densa di tensione, nonostante la capacità recitativa (e dei doppiaggi italiani) sia uno dei limiti più evidenti del cinema di Russ Meyer. Eppure la storia è stata così ben congegnata che il momento è delicato e non si può evitare di notarlo: Lorna è preoccupata per l’amante nascosto in casa, forse già sentendosi un po’ in colpa per il tradimento; e comunque Jim sembra essersi fatto male, la cosa pare turbarla davvero. Da parte sua Jim non vuole raccontare delle allusioni di Luther, che offenderebbero Lorna, e forse nemmeno vuole fare la spia, per una sorta di cameratismo coi colleghi di lavoro; però è palesemente in difficoltà a mentire alla moglie. Intanto l’evaso, invece di filarsela altrove, attratto della barca che gli garantirebbe una via di fuga sicura, si è portato nei pressi del molo ed è in agguato attendendo il momento propizio. Mentre tutti si aspetta che la situazione precipiti, Luther confessa alla donna i motivi della zuffa: ovvero, le sue basse e volgari insinuazioni, mettendo così in evidenza la nobiltà d’animo di Jim e la sua premura nel difenderla ad ogni costo. L’uomo, per sé, non lesina una pesante autocritica che, se sembra effettivamente sincera, fa un po’ a pugni con il comportamento dell’incipit. Quella che potrebbe sembrare una valvola di sfogo, in fondo una confessione quello è, in questo caso alimenta il carico sulle spalle di Lorna che, a questo punto non ci possono essere più dubbi, deve per forza avvertire il peso della colpa del tradimento perpetrato nei confronti del marito. La tensione è rotta dall’intervento dell’evaso armato di ascia con conseguente sacrificio di Lorna chiamata, addirittura dalla morte in persona, a pagare per la sua colpa. I personaggi principali, Lorna, Jim e Luther, compiono tutti degli sbagli ma, chi più chi meno, riescono a saldare i propri debiti. Questo in un film in cui non ci sono personaggi positivi a tutto tondo, nemmeno Jim che trascura colpevolmente i segnali della moglie, ma le figure su cui si approfondisce un po’ il discorso, i tre appunto citati, hanno comunque un moto positivo nell’evoluzione della storia.
E allora, oltre che morale, Lorna è quindi un film provvisto di una sua prospettiva ottimistica fondata sulla redenzione.
Hai detto niente per un film di genere exploitation, anzi sexploitation.


Lorna Maitland





domenica 15 marzo 2020

LE AVVENTURE DI MARY READ

536_LE AVVENTURE DI MARY READ ; Italia, Francia 1961. Regia di Umberto Lenzi.

L’esordio italiano di Umberto Lenzi dietro la macchina da presa è un titolo, a suo modo, emblematico. Si tratta di un film di cappa e spada, Le avventure di Mary Read, ambientato alla fine del XVII secolo tra l’Inghilterra, l’Atlantico e le Colonie in terra americana. In effetti gran parte della storia è di ambientazione piratesca, genere a cui, volendo, è possibile ascrivere l’opera. Il film, in ogni caso, è divertente, ed è strutturato come un romanzo d’appendice, con una serie di colpi di scena e cambi di situazione che incalzano la narrazione. Si comincia con la nostra protagonista, la brigante Mary Read appunto (Lisa Gastoni), al lavoro, in compagnia del nonno (Agostino Salvetti), ad una rapina di una diligenza. Il tono è scanzonato e leggero, con un po’ di pepe rosa visto la presenza della Gastoni che oltre che attrice è anche una fotomodella e quindi ha una presenza scenica che non passa inosservata. La rapina finisce male e Mary, che si era camuffata da uomo, si ritrova in carcere. Qui incontra Peter Goodwin (Jerome Courtland), nobile finito temporaneamente in gattabuia perché, per scherzo, si era travestito da bandito. La commedia degli equivoci che ne scaturisce, che in altri contesti potrebbe reggere un intero film, qua basta per un quarto d’ora di veloce narrazione. Goodwin viene rilasciato, Mary riesce a scappare, ma ormai si amano e sono destinati al lieto fine dopo un’altra serie di rocambolesche vicissitudini. Durante le quali Mary si imbarca sulla nave corsara di capitan Poof (Walter Barnes) e, dopo l’estrema dipartita di questi, assume il comando dell’imbarcazione lasciando la corsa a favore della più redditizia pirateria. La ragazza è tosta e ama il rischio, senza batter ciglio mette la ciurma al suo posto, del resto lo aveva già fatto con Peter e perfino con capitan Poof. La storia, pur se non approfondisce mai i suoi passaggi, corre veloce ed è piacevole. L’ambientazione è credibile quanto basta e soprattutto le scene di battaglia navale sono affascinanti ed evocative. Nel 1961, mettere al centro di un simile contesto una donna, che si issa a capo di una nave pirata, era oltretutto un’idea stuzzicante. Eppure Le avventure di Mary Read è giusto un onesto film in costume, ma non memorabile. Non è che si dovesse fare chissà che cosa, ma un risultato simile ad Angelica (di Bernard Borderie, 1964), almeno in termini di notorietà, si sarebbe potuto raggiungere senza problemi. 


Basti pensare che Sergio Sollima, negli anni 70, dalle vicende salgariane di carattere piratesco riuscirà a cavare produzioni di ottima fattura come il Sandokan televisivo o Il Corsaro Nero. Insomma, c’è Lenzi, un giovane regista bravo, che sa raccontare, forse ancora un po’ acerbo ma comunque di solida capacità narrativa; c’è la bionda protagonista; c’è un genere di ambientazione storica che dovrebbe essere la manna per il nostro cinema; c’è una vicenda appassionante e mantenuta divertente dalle battute di nonno Mangiatrippa, e c’è anche l’eroe aitante, Peter, a far da seconda spalla all’eroina. Tra le cause del risultato modesto c'è forse il fatto che Lisa Gastoni, seppur indiscutibilmente bella, non ha il carisma necessario per reggere un ruolo di questo tipo, dove più che le capacità recitative conta la naturale dote di bucare lo schermo. Peccato; il genere di cappa e spada italiano degli anni sessanta avrebbe avuto bisogno di qualche titolo di forte impatto, per decollare, e questa era davvero una valida occasione. Quando poi, una quindicina d’anni più tardi con Sollima troverà la vena giusta, sarà troppo tardi perché, purtroppo, il nostro cinema di genere era ormai al tramonto. 





Lisa Gastoni