Translate

martedì 21 maggio 2019

READY PLAYER ONE

352_READY PLAYER ONE Stati Uniti, 2018Regia di Steven Spielberg.

Osservando la carriera registica di Steven Spielberg si può dire che si distinguano due filoni: quello d’evasione e quello impegnato. Il primo annovera Lo squalo, i film con Indiana Jones, o quello su TinTin; il secondo Lincoln o The Post; ovviamente tralasciando, nei due elenchi, moltissimi titoli. Ready Player One appartiene al primo versante, è un film di fantascienza distopica, ma l’argomento trattato, la stessa cultura pop di cui è parte integrante tutto il cinema di Spielberg ma soprattutto quel cinema di Spielberg, lo pone come opera metalinguistica; e quindi disimpegnata fino ad un certo punto. Anche perché poi, la suddetta divisione è del tutto arbitraria e da prendere giusto per un sommario indirizzo, in quanto moltissima cultura popolare, per non dire proprio tutta, ha sempre una sua importanza e una sua logica nella società moderna. Oggi, infatti, la cultura di massa ha una funzione educativa spesso più efficiente delle stesse istituzioni preposte all’istruzione. Comunque, in buona sostanza, Spielberg prende l’omonimo romanzo di Ernst Cline, opera un’azione di modestia limitando i riferimenti a se stesso presenti nel libro, e mette in scena un futuro (2045) in cui i nefasti presagi odierni si siano concretizzati. Ovviamente con la solita perizia. Per scappare alla triste realtà, c’è Oasis, un mondo virtuale che enfatizza l’attuale situazione dei social media e compagnia varia. Il testo è avvincente, c’è una sorta di caccia al tesoro circa un Easter Egg nascosto nel programma e che regalerà il sistema stesso al vincitore. 

La gara è spettacolare e ricchissima di citazioni della cultura pop e degli anni ’80, anzi, si può dire che sia intessuta di questi elementi: a tal punto che diventa quasi stucchevole ricercarli o annotarli. E’ un po’ il rischio complessivo dell’opera, almeno per chi non è un fan sfegatato dei videogames o della realtà virtuale: per altro il discorso di Spielberg è proprio quello di ricordasi di vivere anche nella vita reale, (e verrebbe quasi da specificare che si tratta di quella alternativa a quella virtuale). Insomma, un film che si poggia prevalentemente sulla mirabile costruzione di un universo virtuale, per ricordarci di vivere la vita di tutti i giorni.
Curioso, no? E ammettiamolo: anche utile.




Olivia Cooke



domenica 19 maggio 2019

DRIVER L'IMPRENDIBILE

351_DRIVER L'IMPRENDIBILE (The Driver)Stati Uniti, 1978. Regia di Walter Hill.

Walter Hill è un vero califfo con le acrobazie visive e il ritmo narrativo e, quindi, riesce a distrarci e fino all’ultimo, a non farci pensare alla teoria hitchcockiana del MacGuffin. Per cui, per un attimo, quando vediamo la polizia schierata alle spalle del nostro protagonista, il driver (Ryan O’ Neal, perfetto), un sospetto che possa andare a finire così ci soggiunge. Certo, sarebbe una sconfitta per il protagonista della nostra storia, il suddetto driver, ma tant’è; in fondo, che non è un personaggio vincente lo avevamo già capito non avendo il nostro una causa, una motivazione, per cui rischiare sempre il tutto per tutto. Di fatto driver è un perdente per definizione, che sublima la sconfitta nell’impeccabile esecuzione con la massima efficienza delle missioni di cui si fa carico, coronate con l’inevitabile successo. Successo però senza un fine e senza una via di uscita, e quindi mai realmente liberatorio, come invece una vittoria dovrebbe soprattutto essere. Ma... può essere un’ipotesi attendibile che a vincere sia il detective (un altrettanto perfetto Bruce Dern)? No, troppo dura da digerire. E allora, mentre il driver si incammina per portare la valigetta al poliziotto, ci ritornano in mente le parole di Hitchcock: ma certo, la valigia è solo un Macguffin. Ma se il Macguffin è abitualmente un mero pretesto e quindi non è importante in sé, cosa può essere in un film che è praticamente un pretesto nel suo insieme? Un qualcosa di ancora minore, che sottrae ulteriormente, che smonta: nel nostro caso le prove per incastrare il driver, lasciando così il detective con un palmo di naso. Geniale Hill, come suo solito: non è successo niente, solo qualche inseguimento, qualche criminale inevitabilmente morto ammazzato, ma niente di che. 

Tra l’altro, i soldi della rapina organizzata come esca dal detective, vengono pure recuperati, e quindi sembra proprio che abbia ragione chi ritiene Driver l’imprendibile un semplice esercizio di pura azione adrenalinica. Ma se il film lo abbiamo davvero guardato, sappiamo bene che non è così. Oddio, l’adrenalina c’è tutta, e le sequenze di inseguimento con le auto sono tra le migliori mai realizzate. Da ricordare, in modo specifico, sempre in tema di automobili a tutto gas, la caccia (perché non è un semplice inseguimento) poco prima del finale, quando Driver con un pesante furgone Chevrolet C-10 gioca a nascondino mentre insegue una Pontiac Firebird Trans Am, oppure la sequenza in cui il nostro demolisce una povera Mercedes-Benz 280 S arancione fiammante, in un parcheggio sotterraneo. 

Ma tutto questo rincorrersi, alla fine si rivela essere niente più che un gioco; non a caso il terzo personaggio è la giocatrice, ovvero Isabelle Adjani, perfetta pure lei, manco a dirlo. E non si tratta di fare un elogio alla scarsa capacità espressiva: sia Neal che la Adjani sono adatti in modo preciso ad una rappresentazione figurativa per cui la loro minima comunicativa facciale è ideale al tenore dell’opera. Dern rimane sopra le righe, come suo solito, e serve per caratterizzare il vero cattivo della storia che, un po’ clamorosamente anche se siamo negli anni ‘70, è il poliziotto di turno. 
E’ quindi una partita, una gara; del resto, della partita è appunto anche la giocatrice, e il detective, al suo sottoposto, fa un discorso programmatico sulle competizioni sportive da prendere a modello per dare la caccia ai criminali. E quindi possiamo dedurre che si tratta di una versione moderna di guardie e ladri, intesa in modo ludico, visto che il driver non vorrebbe nemmeno che ci fossero in gioco le armi da fuoco. Quello che va in scena è così un giro dell’oca d’azzardo, coi personaggi che si conoscono già bene (manca totalmente la fase di indagine) e passano il tempo inseguendosi continuamente in tondo. 

Questi personaggi sono proprio come i segnalini dei giochi da tavolo, figure bidimensionali, e non solo perché O’Neal è più che altro un bel fusto o la Adjani una bambolina (e per di più nel film non possiedono nomi propri). Sullo schermo i personaggi si vedono spessissimo attraverso un vetro o segnati da un riflesso; il driver ad un certo punto addirittura da due, quello del vetro anteriore a cui si sovrappone quello del vetro posteriore, schiacciando il nostro eroe nell’esiguo e inesistente spazio tra i due riflessi. Questa mancanza di spazio rende sì i nostri personaggi semplici figurine ma, nello stesso tempo, li lascia anche senza possibilità di uscita. Non c’è scampo, per i personaggi di questo carosello: da questo gioco si esce solo morendo, e nel film questo è evidenziato in modo esplicito. 

Il galoppino che ritira i soldi della rapina, finisce morto ammazzato e rotola fuori dal finestrino del treno; Hill indugia sul cadavere mentre si vede il convoglio continuare la sua corsa. Il personaggio è uscito dal gioco, ma il gioco continua. I due banditi da strapazzo, scampati alla caccia tra le auto, escono dalla vettura distrutta uscendo dai finestrini; uno viene ammazzato, l’altro solo allontano. Non era uno della gang, ma solo un amico; visto che non fa parte del gioco può salvare la pelle, ma deve sparire. Il capo di questi banditi è invece freddato in pieno parcheggio: il driver gli spara attraverso i vetri della portiera della sua meravigliosa Pontiac Firebird, e quindi il concetto sembra essere simile. 
In questo caso è la morte che passa e si fa strada attraverso il finestrino per ghermire la sua vittima. L’unica che è libera di andarsene è la giocatrice: nel finale osserva la scena della valigetta. E’ ripresa in un riquadro delle finestre nella stazione, proprio come una figurina con tanto di cornice. Osserva e, quando vede che non ci sono più soldi in ballo, si defila come se niente fosse. Attenzione, quindi, sembra dirci Hill: non è più tanto importante chi è più bravo nella competizione, (ossessione del detective), o chi è più veloce ed efficiente (ossessione del driver). Vince chi è più scaltro, e sa quando è il momento di rischiare e quando quello di lasciare.
Gli anni settanta si preparavano a diventare gli anni ottanta.


Isabelle Adjani







venerdì 17 maggio 2019

LA FINESTRA SUL CORTILE

350_LA FINESTRA SUL CORTILE (Rear Window). Stati Uniti, 1954. Regia di Alfred Hitchcock.

La finestra sul cortile è un distillato del Cinema di Alfred Hitchcock: la sua capacità espressiva è infatti in quest’opera mostrata al meglio. Quella che forse è la sua miglior dote, la sublime capacità di sintesi, permette al regista inglese di orchestrare una storia avvincente con pochissimi mezzi. Sebbene l’intera scenografia sia il cortile di un palazzo, con le finestre degli appartamenti che si aprono alla Macchina da Presa, la prospettiva è limitata per quasi tutto il film ad un unico punto di vista, quello del protagonista, James Stewart. Il quale, nella finzione, è un fotografo d’assalto immobilizzato da una gamba ingessata; e già questa è una metafora del film: colui che in genere può scorazzare per il mondo per produrre immagini, è costretto nel suo alloggio. Allo stesso modo Hitch, che volendo potrebbe scegliere qualunque location, decide di girare un film praticamente dalla finestra sul cortile di un appartamento. Sul cortile ovvero sul retro; il titolo originale Rear Window, è forse più indicativo: si tratta di uno sguardo all’indietro, forse intendendo una riflessione verso se stessi, come se Hitchcock volesse fare il punto sul proprio cinema. E in effetti le confessioni non mancano: il protagonista ammette le proprie difficoltà nella vita, i problemi con la fidanzata, ma soprattutto ammette il suo lato voyeuristico, che sicuramente è un tratto distintivo del cinema di Hitchcock ma anche del cinema in generale. Il riferimento alla fidanzata del reporter non è però da sottovalutare: si tratta infatti di Grace Kelly, una bionda apparentemente dall’aspetto impeccabile e perfetto ma che, ad uno sguardo dietro l’apparenza, si rivela assai più turbolenta. 

I doppi sensi nei dialoghi sono palesi, in effetti, ma si tratta di schermaglie dialettiche: lo spirito tutt’altro che glaciale la ragazza lo tirerà fuori quando passerà all’azione, lasciando il reporter in retroguardia. La divina Kelly è, in effetti, la vera personificazione del cinema di Hitchcock: sotto l’aspetto formale impeccabile, si muove (ma soprattutto fa muovere), un tourbillon di emozioni. L’attrice si rivela questa volta, forse più che mai, all’altezza del difficile compito: una interpretazione limitata, ma efficace al massimo. Anche Jimmy Stewart fa naturalmente la sua parte, come era del resto lecito attendersi. Non è però una prova d’attori, o comunque di grande espressività recitativa, che ci si deve attendere da un film di Hitchcock, questo va tenuto presente; gli attori però sono importanti perché devono rendere credibile il gioco che il regista imbastisce con lo spettatore, e non è cosa così scontata. Il piano principale, o comunque uno dei più interessanti di questo La finestra sul cortile, è proprio la sintesi comunicativa che Hitchocock mette sapientemente in mostra. 


Ci sono moltissimi passaggi che valgono da soli un intero film, come ad esempio la panoramica iniziale, nella casa del reporter, dove mostrando unicamente le immagini dei postumi (la gamba rotta, la fotocamera sfasciata), dei ferri del mestiere (la fotocamera, appunto) e di alcune foto di un incidente in una corsa automobilistica, viene introdotto il pretesto narrativo dell’uomo obbligato in casa e del suo spiccato lato voyeuristico. Il tutto semplicemente con una panoramica della MdP, senza dialoghi. Un altro passaggio di alta scuola è quando Jeff, così si chiama il fotoreporter, si appisola proprio quando nell’appartamento di fronte, dove il comportamento sospetto di un uomo lo ha incuriosito, escono appunto l’uomo e una donna. 
Al risveglio, notata l’assenza della donna, il nostro comincerà con le congetture, mentre lo spettatore è portato a pensare che la donna sia semplicemente partita per un viaggio quando è uscita col marito; almeno fino alla fulminante allusione di Lisa (Grace Kelly). L’intuizione della ragazza, che ipotizza che la donna vista non sia la moglie, è fondamentale, ma la preparazione è tutta nelle immagini mostrate, senza pesanti spiegazioni. La capacità di sviluppare intrecci narrativi senza l’uso di pedanti discorsi trova però il suo culmine nella scena forse più bella dell’intero film: Lisa si trova nell’appartamento del tipo sospetto, è stata appena momentaneamente salvata dalla polizia, alla quale però non consegna la fede nuziale della donna che si presume sia stata uccisa, ma se la mette al dito e la mostra a Jeff, che è ancora nel suo appartamento, dalla parte opposta del cortile. 

Con quel semplice gesto, la ragazza muove la trama in tre direzioni: certifica la fondatezza dei sospetti sul losco vicino di casa (una moglie non si toglie mai la fede per un viaggio), si mostra come donna sposata e ribadisce quindi la sua proposta di matrimonio, e mette però in guardia il presunto assassino che si accorge così di essere stato spiato e scoperto. Ci sono altri aspetti importanti nel film, come le riflessioni sull’amore, tema dominante di tutte le finestre spiate da Jeff, ma anche su aspetti più tecnici e propri del cinema: illuminante è il modo in cui è mostrato come un’immagine cambi significato semplicemente in base al montaggio della pellicola. 

Jeff sta discutendo al telefono, all’inizio del film, e in base al dialogo assume espressioni differenti; ma bisogna considerare che il montaggio del suo primo piano è alternato con scene viste sul cortile: a cosa sorride quindi, l’uomo? Alle parole dell’amico al telefono o ai pensieri per la ballerina in abiti succinti che sta guardando dall’altro lato del cortile? 
Un altro aspetto molto interessante è l’uso della prospettiva, che per tutto il film è tenuta fissa dall’appartamento di Jeff sul cortile ma, quando vi è la morte del cagnolino, che viene presa dalla sua padrona in modo assai tragico, cambia. Il punto di vista prende posizione al centro del cortile, e sarà l’unica eccezione alla visuale dalla camera di Jeff, come a sottolinearne la drammaticità del momento: la Macchina da Presa scandaglia il caseggiato in diverse angolazioni, quasi a ricercare l’autore dell’orribile misfatto. L’attenzione di tutti i condomini è destata dalle invettive della donna, tutte le finestre sono accese; eccetto una, quella del presunto assassino e, nel buio, si vede brillare il bagliore di una sigaretta.
E’ un Hitchcock (e dei migliori) e quindi non sorprende se non ci sia nessun mistero su cui sia il colpevole. Ma questo non tranquillizza nessuno; nemmeno i cagnolini.


Grace Kelly












Georgine Darcy








mercoledì 15 maggio 2019

IL DELITTO MATTEOTTI

349_IL DELITTO MATTEOTTI . Italia, 1973. Regia di Florestano Vancini.

A partire dagli anni 60, in Italia si sviluppò una fiorente corrente politico-civile all’interno della cinematografia nazionale: nella maggioranza dei casi, si trattava di temi contingenti all’inasprimento della battaglia politica che avrebbe raggiunto il suo culmine nelle contestazioni di fine decennio, e avrebbe marchiato a fuoco (di mitra ed esplosivi) i successivi anni di piombo. Francesco Rosi, il regista che aveva inaugurato il genere (Salvatore Giuliano, 1962 e Le mani sulla città, 1963) sembrò focalizzarsi sui problemi del mezzogiorno, poi Elio Petri e Damiano Damiani con il loro valido contributo metteranno a nudo i problemi dell’intera Italia, incapace di gestirsi in modo socialmente giusto ed equo. Giuliano Montaldo con i suoi film storici (Sacco e Vanzetti, 1971, Giordano Bruno, 1973) approfondì il discorso mostrando, in un certo senso, l’origine tradizionale dell’ingiustizia sociale. Il delitto Matteotti di Florestano Vancini non fu quindi un fulmine a ciel sereno: era un testo fortemente politico di matrice storica e, come abbiamo visto, pienamente nel solco del filone in auge al tempo. Eppure, forse per la messa in scena senza giri di parole, tanto che il succo del racconto filmico sembra una requisitoria di un tribunale, a cui fa d’apice l’esplicita accusa a Mussolini di avere ordinato l’assassino in oggetto alla storia, rendono l’opera di Vancini di notevole impatto. Vancini non ha dubbi e non ne instilla: il che non è ne un pregio ne un difetto, a priori, sia chiaro. Ma a suo favore va detto che il suo racconto è preciso, dettagliato, storicamente fedele ai resoconti; il ritmo è incalzante e non fa prigionieri, quelle che c’era da dire Vancini lo dice chiaro e tondo come un ceffone in faccia. 

Ovviamente, all’interno della cronaca dei fatti, l’inchiesta che cercò di far luce in modo ufficiale su quanto accaduto, ovvero l’uccisione del segretario del Partito Socialista Unitario Giacomo Matteotti, non farà tanta strada. In Italia è sempre storicamente difficile fare chiarezza sulle cose, figuriamoci se poteva esserlo alle soglie di una dittatura. Ma è proprio l’aspetto investigativo del film che mette in luce la finezza del regista, già evidente dal punto di vista della scelta degli attori. Per tutti i ruoli politici e importanti, Vancini ricorre a scelte sicure, attori azzeccati e già rodati nel cinema sociale: chi meglio di Franco Nero, (interprete già visto, all’interno del genere, nei film di Damiano Damiani), può essere una figura eroica come Giacomo Matteotti? 

Bravissimi anche Mario Adorf (Benito Mussolini) e Gastone Moschin (Filippo Turati), che erano stati con lo stesso Vancini nel precedente La violenza: quinto potere che, pur se di derivazione teatrale, era comunque un testo di denuncia sociale. In quel cast c’era anche Riccardo Cucciolla (in Il delitto Matteotti è un Antonio Gransci quasi caricaturale), che va però più che altro ricordato nel ruolo di Nicola Sacco in Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo. Ma si diceva dell’inchiesta: in seguito al delitto vengono incaricati di indagare l’illustre Mauro Del Giudice e il magistrato di aperte simpatie fasciste Umberto Tancredi: per il primo, Vanzelli sceglie un monumento del cinema italiano, Vittorio De Sica, davvero in gran spolvero; per il secondo, del tutto inaspettatamente, troviamo Renzo Montagnari, il re delle commediole erotiche che già furoreggiavano al tempo. Nel rapporto tra questi due personaggi tra loro agli antipodi, c’è una delle note più interessanti del film: De Sica/Del Giudice rappresenta l’ideale italico d’annunziano, con un solenne senso delle istituzioni, al cui cospetto Tancredi/Montagnari sembrerebbe quasi rimpiangere le curve delle attricette sexy. In fondo che è successo? 
Qualcuno cercava guai e li ha trovati. Ma c’è un quasi, ed è dovuto al fatto che, a sorpresa, Tancredi, che è fascista dichiarato, sembra fin troppo dubbioso. Montagnari, il tipico italiano della porta accanto, perfetto anche nel suo essere ideale terreno per il germe fascista, è bravissimo, nel dare corpo all’impotenza di chi si trova quasi costretto ad ammettere che deve fare una cosa giusta, semplicemente perché è giusto farla. Certo, controvoglia, malvolentieri, quello che volete; ma sembra proprio in modo ineluttabile. Un moto che non t’aspetti in tale espressione di mediocrità che è l’italiano medio, e quando Tancredi chiede a Del Giudice se ha già preparato i mandati di arresto per i due gerarchi fascisti correi dell’assassinio di Matteotti, perché intende firmarli, è come se in quegli autografi certificasse che un minimo di dignità l’italiano medio ce l’ha.
E anche se questa associazione di idee fosse la cosa storicamente meno attendibile del film, ce la facciamo andar bene lo stesso.