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venerdì 1 gennaio 2021

LUCKY LUCIANO

708_LUCKY LUCIANO . Italia, Francia; 1973. Regia di Francesco Rosi.

L’anno successivo a Il caso Mattei, Francesco Rosi dirige un altro film d’inchiesta, a metà strada tra il biografico e lo storico, stavolta incentrato sulla figura di Lucky Luciano. Rosi conferma, e forse anche rilancia ulteriormente, lo stile del precedente lungometraggio: Lucky Luciano ricorda un dossier sul personaggio in questione, con segmenti di finzione narrativa, immagini storiche, differenti voci fuori campo, titoli in sovraimpressione che arrivano in corso d’opera. L’idea è che siano una serie di testimonianze di natura diversa assemblate per rendere al meglio la ricostruzione dei fatti. Naturalmente siamo in un’opera di finzione e quindi tutto è riconducibile alla responsabilità autoriale di Rosi (anche la selezione di immagini documentaristiche) ma si tratta di uno stratagemma narrativo effettivamente utile allo scopo. Ma, a differenza di un biopic hollywoodiano, qui non siamo presi per mano e accompagnati dal regista seguendo le gesta del protagonista, o comunque narrativamente sistemate in modo opportuno, e che siano quindi di facile fruizione. Rosi ci propone un puzzle disomogeneo che finisce per lasciare qualche passaggio oscuro, del resto la trasparenza è l’ultimo dei requisiti degli intrighi italiani: in questo senso, nello spiazzamento che l’opera comunque lascia nello spettatore, c’è una sensazione consueta di chi vive in Italia qualora cerchi di comprendere cosa accade sopra la sua testa. Perché Luciano è fatto rimpatriare? Perché viene concesso tutto quel potere a Vito Genovese, noto mafioso e amico dello stesso Luciano? 

Domande che rimangono senza risposta, anche perché nel dibattito alle Nazioni Unite, alle accuse di Anslinger (Edmond O’Brien) il delegato italiano risponde con altrettante accuse alla gestione americana del caso Luciano. Tante, troppe informazioni, distribuite in una struttura densa di flashback, impediscono allo spettatore di cogliere un quadro che, probabilmente, nemmeno Rosi (e in generale nessuno), può avere. Rimane l’idea che in Italia, fin dall’immediato dopoguerra, anche grazie alle interferenze degli americani, si posero sin da subito le basi per impedire uno sviluppo trasparente della società; strategia che ha dato poi i risultati che, ahinoi, conosciamo ancora oggi. Oltre a questa vivida impressione, del film va sottolineata la prova magistrale di Gian Maria Volonté nella parte di Luciano, la solida prestazione di Rod Steiger (Gene Giannini) oltre alla sequenza della strage nella notte dei Vespri Siciliani, tecnicamente molto valida. Ah, c’è anche Magda Konopka, nel cast (è Contessa), ma né Rosi né Luciano sono disposti a concederle uno spazio significativo.    





Magda Konopka



venerdì 9 ottobre 2020

LE MANI SULLA CITTA'

647_LE MANI SULLA CITTA' Italia, 1963. Regia di Francesco Rosi.

L’aspetto più interessante di Le mani sulla città il regista Francesco Rosi si premura di chiarirlo in modo inequivocabile: “I personaggi e i fatti sono immaginari ma autentica è la realtà sociale e ambientale che li produce” recita infatti una didascalia esplicativa. E Rosi rincara la dose, in questo senso, con una messa in scena credibilissima, (che tiene conto dell’eredità neorealista), con ricostruzioni di fatti e situazioni plausibili, a cui aggiunge alcuni tocchi metalinguistici nella stessa direzione. L’interprete che veste i panni di De Vita, consigliere dell’opposizione di sinistra, è Carlo Fermariello, nella realtà sindacalista e uomo politico, così come tra gli addetti della stampa presenti al processo finale si possono scorgere veri giornalisti e non semplici comparse. Insomma, Rosi cerca di far capire che, anche se nel suo film c’è Rod Steiger, che è un attore di fama internazionale, in Italia non serve fare della finzione, non serve avere troppa immaginazione, per imbastire una trama di intrighi, giochi di potere e corruzioni: basta raccontare la realtà. Il succo del film è presto detto: Napoli, in un’operazione di squallida speculazione edilizia, si stanno demolendo alcuni fabbricati senza aver svolto gli adeguati accertamenti preventivi. Risultato: crolla un palazzo, due morti e un bambino ferito gravemente. Ma naturalmente l’inchiesta verrà insabbiata e il responsabile di ciò, Edoardo Nottola (interpretato magistralmente da Steiger), non solo non pagherà per le sue colpe ma otterrà addirittura la poltrona di assessore comunale. Il tutto seguendo in modo quasi documentaristico, ben anticipato dal simbolico volo panoramico sui titoli di testa, tutte le trame, gli accordi, gli scambi, insomma, il tipico campionario dell’italico malcostume della corruzione pubblica. La bravura di Rosi è nella messa in scena nuda e cruda, coadiuvato in questo dall’efficacia degli attori, tra cui, oltre a Steiger, spiccano Salvo Randone e Guido Alberti. Ma attenzione: non si pensi che il cinema in questo caso abbia lasciato spazio ad una mera rappresentazione del reale e quindi risieda in questa sua discrezione la qualità dell’opera. Il cinema è esattamente quello che abbiamo visto: la capacità, lavorando in sottrazione o sopra le righe, a seconda della sensibilità dell’autore o delle esigenze contingenti, di arrivare allo scopo. E dopo aver visto Le mani sulla città, nessuno potrà dire di non aver colto se non proprio compreso, e averlo fatto proprio grazie all’opera di Rosi, il peggiore dei mali che affligge l’Italia. E tutto questo in soli 105’ minuti: potenza del cinema. 







domenica 23 agosto 2020

L'ISTRUTTORIA E' CHIUSA: DIMENTICHI

621_L'ISTRUTTORIA E' CHIUSA: DIMENTICHI ; Italia, 1971Regia di Damiano Damiani.

Prima di entrare nello specifico de L’istruttoria è chiusa: dimentichi di Damiano Damiani, una considerazione: lascia un po’ interdetti il fatto che un tema particolare come quello dell’uso a sproposito della carcerazione preventiva in Italia, sia comune a due film usciti simultaneamente nelle sale italiane. Ad affrontare gli stessi temi dell’opera di Damiani era, in quello stesso periodo, anche Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy con Alberto Sordi. Il tenore delle due opere è diverso, ovviamente, l’Albertone nazionale lascia sempre la firma un po’ farsesca anche nei suoi ruoli impegnati, mentre Franco Nero, protagonista di L’istruttoria è chiusa: dimentichi tiene un registro interpretativo più drammatico. Detto di questa curiosa coincidenza, va registrato che Damiani irrobustisce il suo curriculum legato all’impegno civile con un altro testo di grande spessore. L’anomalia italiana nell’uso spesso improprio della carcerazione preventiva permette al regista friulano un’incursione in un carcere del belpaese che appare decisamente credibile in quanto lo squallore a cui si assiste (corruzione, abusi di potere, favoritismi e via di questo passo) ci è purtroppo assai famigliare. Il carcere, si può dedurre dal film di Damiani, è un semplice concentratore e amplificatore dei peggiori vizi e difetti dell’Italia, per i quali, almeno stando al lungometraggio, non sembra esserci soluzione. Nel racconto filmico la speranza è infatti negata simbolicamente dalla sorte toccata a Pesenti (Riccardo Cucciolla), testimone di una vicenda ispirata ai fatti del disastro del Vajont, la cui testimonianza avrebbe dovuto far luce sulle negligenze e sulle colpe dell’azienda costruttrice di una diga al centro di un pesante disastro. 
I tentacoli della piovra del malaffare italiano arrivano però anche dentro le mura del carcere e il povero Pesenti viene ucciso inscenando un suicidio. Damiani forse esaspera, in questo caso, la classica teoria del complotto, (diffusissima in Italia e non del tutto a torto) immaginando che il protagonista di questa storia, l’architetto Vanzi (Franco Nero), sia stato incarcerato con un banale pretesto al fine di averlo nella cella insieme a Pesenti. Una volta che il Vanzi fosse riconosciuto estraneo all’accusa pretestuosa di incidente colposo, la sua affidabile testimonianza che il compagno di cella si fosse suicidato, avrebbe cancellato ogni possibile dubbio in merito. Del resto il Vanzi è uno stimato professionista e la sua parola avrebbe appunto avuto un peso non indifferente, e questo è plausibile, ma in questo passaggio forse Damiani si lascia prendere un po’ la mano dal complottismo.
Perché la storia del suo personaggio nel carcere era stata fin lì corposa e avvincente, del resto Damiani possiede il ritmo del bravo narratore; ma a quel punto diventa un po’ difficile credere ad un complotto complesso come quello che avrebbe dovuto prevedere le peripezie carcerarie del Vanzi. A parte queste perplessità, il film è avvincente dal punto di vista narrativo, anche se piuttosto deprimente dal punto di vista messo sotto analisi dall’intrinseca denuncia sociale. Del resto, nel finale, lo stesso Damiani issa la bandiera bianca di fronte al tipico opportunismo italico. Se dentro il carcere, il suo personaggio, aveva avuto slanci di eroismo che tutto sommato bilanciavano i passaggi meno lusinghieri (i tentativi fatti col denaro per corrompere le guardie o di ottenere favori), quando Vanzi è libero e torna alla sua vita, è rapidissimo ad appiattirsi sul conformismo borghese che gli appartiene. In procinto di salpare per la crociera con gli annoiati amici che gli chiedono di raccontare la sua avventura tra le mura carcerarie, riceve l’inaspettata visita della figlia di Pesenti, l’attivista che voleva denunciare le colpe del disastro della diga. La ragazza vuole sapere della fine del padre, non può credere che si sia suicidato. Ma Vanzi non ha tempo ma una crociera che l’aspetta e, in Italia, il motto imperante parla proprio di barche e ce lo dice il testo di una nota canzonetta, fin che la barca va, lasciala andare e, soprattutto andrebbe aggiunto non lasciartela scappare. E tanti saluti alla memoria del Pesenti, della giustizia e della dignità nazionale.



sabato 11 luglio 2020

IL CASO MATTEI

597_IL CASO MATTEI ; Italia, 1972. Regia di Francesco Rosi.

I settanta del cinema italiano furono anni molto vivaci; tra le correnti che imperversavano nella penisola, ce n'era una particolarmente interessante, il cinema d'inchiesta. L'Italia, paese dove l'intrigo e il complotto sono di casa da sempre, forniva una miriade di spunti e possibilità di approfondimento dalle vicende di cronaca e di politica; il cinema italiano, dal canto suo, si era ormai fatto le ossa sia come frutto autoriale che come prodotto di genere. E proprio di quegli anni fu la contemporanea esplosione del poliziottesco, ovvero il poliziesco all'italiana, che ambientava le sue storie nella società quotidiana. C'erano quindi tutti gli ingredienti necessari, dagli scenari politico/sociali, alle competenze tecnico cinematografiche, per tradurre questo materiale grezzo in opere di valore artistico oltre che documenti di denuncia. Perché il cinema d'inchiesta italiano non perderà mai l'ambizione di "fare politica", attraverso la denuncia dei passaggi corrotti e malati della storia del paese; e non è questo certamente un limite, anzi. Questa vocazione politica, che si affiancava a quella artistica, era infatti legata alla sensibilità dell'autore, tanto che abbiamo registi che si possono dire specialisti di questa corrente cinematografica. Da Giuseppe Ferrara a Damiano Damiani, fino a Francesco Rosi, regista de Il caso Mattei, questi autori furono assidui frequentatori del cinema d'inchiesta. Il film di Rosi dedicato a Mattei è uno dei più validi esempi del filone cinematografico in questione. Sorretto da una trama interessante, per via di elementi di cruciale importanza nella società contemporanea come lo sfruttamento degli idrocarburi, procede con ritmo serrato fino al tragico epilogo. 

Rosi intreccia mirabilmente la finzione del suo girato con documenti dell'epoca, interviste, servizi televisivi, e con questo montaggio alternato tra le diverse fonti, riesce a cadenzare in modo coinvolgente il suo lavoro. Un vero asso nella manica del film è poi l'interpretazione al solito superlativa di Gian Maria Volonté; l'attore milanese si supera quando può esibire la sua mimica sopra le righe e in questo ennesimo caso ci regala un Enrico Mattei credibilissimo già dai minimi dettagli. Oggi è quasi impossibile farsi un'idea di quello che successe veramente, in quanto in Italia non si sono fatti troppi progressi in materia di trasparenza e obiettività di analisi. Però è senz'altro interessante notare come il cinema del tempo riusciva ad essere politicamente impegnato ma anche appassionante e, perché no, divertente.
Divertirsi in modo intelligente: gli anni settanta, furono una stagione, almeno in quel senso, davvero fortunata.

 



lunedì 23 dicembre 2019

CENTO GIORNI A PALERMO

480_CENTO GIORNI A PALERMO ; Italia, Francia, 1984Regia di Giuseppe Ferrara.

Da un punto di vista cinematografico, Cento giorni a Palermo rischia di lasciare un po’ freddo lo spettatore. Lo stile del regista Giuseppe Ferrara è, come altre volte, asciutto e documentaristico; ma, visto il tema, un avvenimento cruciale della nostra recente storia, questo ci può stare benissimo. Forse, ad ingessare ulteriormente la mano di Ferrara, è l’eccessiva vicinanza tra i fatti, che risalivano al 1982, e l’uscita del film, di soli due anni successiva. Il poco tempo trascorso dall’efferato omicidio del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (Lino Ventura) e della moglie Emanuela (Giuliana De Sio), non ha forse permesso un’analisi più approfondita e il film, in sostanza, è praticamente la semplice cronistoria dei fatti occorsi. Il che non sarebbe certo un male, di per sé, ma la partecipazione emotiva dello spettatore viene così sollecitata soltanto dalla natura degli eventi stessi, oltre che dal ricordo di quello che suscitò l’accadimento a suo tempo. Da questo punto di vista può essere una scelta legittima da parte dell’autore per evitare di sovraccaricare di pathos una vicenda già dolorosissima di suo. E’ forse lo stile televisivo, unito alle prestazioni d’attore poco omogenee tra loro e forse anche poco adatte al tema, a tradire poi nel computo del risultato complessivo. L’idea di inserire spezzoni di riprese da filmati reali, con i personaggi storici, non è certo criticabile in sé, anche se alimenta l’impressione di un prodotto disomogeneo, caratteristica che, per altro, potrebbe essere congeniale alla forma documentaristica che caratterizza l’opera. Ma che mal si concilia, da un certo punto di vista, alle interpretazioni di Ventura e della De Sio. Il grande Lino sa il fatto suo ma, in un ruolo di grande rilievo biografico, mette forse troppa enfasi nella recitazione, risultando non più il mitico character dei polar ma nemmeno un Dalla Chiesa proprio credibilissimo. 




Che poi, il suo stile, la sua classe, salverebbe comunque il risultato, se non fosse che la presenza accanto a lui di una Giuliana De Sio davvero inappropriata, ma inappropriata in un modo ulteriormente diverso, finisca per vanificare anche gli sforzi del buon Lino. L’attrice salernitana è forse la vera nota stonata dell’opera che, vertendo su una serie di equilibri precari già di suo, rischia così perfino di franare. Ma, alla fine, la professionalità di Ferrara, l’importanza di un tema come quello della lotta alla mafia, le puntuali ricostruzioni, le critiche che il regista militante non lesina alla società e alla politica, il rilievo storico dei personaggi coinvolti, sono tutti elementi che salvaguardano il risultato finale.    




          

lunedì 28 ottobre 2019

PERCHE' SI UCCIDE UN MAGISTRATO

433_PERCHE' SI UCCIDE UN MAGISTRATO ; Italia 1974Regia di Damiano Damiani.

Dopo qualche anno di pausa, il regista Damiano Damiani ritorna sui temi dell’impegno civile con il film Perché si uccide un magistrato, titolo a pensarci bene piuttosto scioccante. Ma ancora più spiazzante è la traccia metalinguistica presente nell’opera, dove il regista Giacomo Solaris (Franco Nero, puntuale) mette in scena un film in cui un magistrato corrotto paga con la vita la propria condotta. Nella narrazione, il film nel film è una palese opera di denuncia, una facilmente leggibile metafora dell’operato del giudice istruttore palermitano Alberto Traini (Marco Guglielmi). Soltanto che l’opera di fantasia (alquanto ispirata alla realtà, come si è detto) si scopre essere fin troppo profetica quando l’ambiguo giudice viene ammazzato per davvero. Qui subentrano i sensi di colpa di Solaris che, nel cercare di spiegare la sua posizione puramente dialettica, sembra invaghirsi della bella vedova del magistrato, Antonia (una Francoise Fabian molto brava, algida ma conturbante al tempo stesso). Tra il giornalista/regista che cerca di dimostrare la sua estraneità alla piega che hanno preso gli eventi e il gioco di potere tra mafiosi, politici, colleghi di giornale, mentre la vedova prova a difendere l’onorabilità del marito, ci attende una svolta imprevedibile. Ma prima, non si può fare a meno di leggere, nella complessità dell’intreccio, una sorta di punto della situazione di Damiani sulla sua opera in materia di impegno civile. E’ dunque pericoloso trattare i delicati temi della società in quelle opere di finzione che fungano anche da denuncia? 

C’è il rischio che qualcuno prenda alla lettera quelle che dovrebbero essere unicamente delle provocazioni artistiche, visto che, per quanto vi possa essere un ruolo di denuncia sociale, il cinema rimane comunque arte e quindi puramente concettuale? Insomma, c’è il rischio che il cinema d’impegno sociale possa venire strumentalizzato? La risposta di Damiani è un si, ma lo è in modo imprevedibile. Perché se è vero che l’opera di Solaris funge da spunto per uccidere il giudice Traini, le motivazioni dietro questo delitto sono del tutto estranee ai problemi affrontati dal regista interpretato da Franco Nero nel suo provocatorio film. Nello specifico il movente è una banale questione di corna che vede coinvolti il giudice Traini, sua moglie Antonia e il dottor Valgardeni (Giorgio Cerioni). Quindi c’è strumentalizzazione, ma manca il nesso. E allora la riflessione finale sembra essere che si, ci sono rischi nel raccontare i problemi reali del paese, ma non sarà mai il cinema ad essere la scusante per chi vuole delinquere.
Almeno non il valido cinema di Damiani o di chi opera in buona fede. 






Françoise Fabian





mercoledì 15 maggio 2019

IL DELITTO MATTEOTTI

349_IL DELITTO MATTEOTTI . Italia, 1973. Regia di Florestano Vancini.

A partire dagli anni 60, in Italia si sviluppò una fiorente corrente politico-civile all’interno della cinematografia nazionale: nella maggioranza dei casi, si trattava di temi contingenti all’inasprimento della battaglia politica che avrebbe raggiunto il suo culmine nelle contestazioni di fine decennio, e avrebbe marchiato a fuoco (di mitra ed esplosivi) i successivi anni di piombo. Francesco Rosi, il regista che aveva inaugurato il genere (Salvatore Giuliano, 1962 e Le mani sulla città, 1963) sembrò focalizzarsi sui problemi del mezzogiorno, poi Elio Petri e Damiano Damiani con il loro valido contributo metteranno a nudo i problemi dell’intera Italia, incapace di gestirsi in modo socialmente giusto ed equo. Giuliano Montaldo con i suoi film storici (Sacco e Vanzetti, 1971, Giordano Bruno, 1973) approfondì il discorso mostrando, in un certo senso, l’origine tradizionale dell’ingiustizia sociale. Il delitto Matteotti di Florestano Vancini non fu quindi un fulmine a ciel sereno: era un testo fortemente politico di matrice storica e, come abbiamo visto, pienamente nel solco del filone in auge al tempo. Eppure, forse per la messa in scena senza giri di parole, tanto che il succo del racconto filmico sembra una requisitoria di un tribunale, a cui fa d’apice l’esplicita accusa a Mussolini di avere ordinato l’assassino in oggetto alla storia, rendono l’opera di Vancini di notevole impatto. Vancini non ha dubbi e non ne instilla: il che non è ne un pregio ne un difetto, a priori, sia chiaro. Ma a suo favore va detto che il suo racconto è preciso, dettagliato, storicamente fedele ai resoconti; il ritmo è incalzante e non fa prigionieri, quelle che c’era da dire Vancini lo dice chiaro e tondo come un ceffone in faccia. 

Ovviamente, all’interno della cronaca dei fatti, l’inchiesta che cercò di far luce in modo ufficiale su quanto accaduto, ovvero l’uccisione del segretario del Partito Socialista Unitario Giacomo Matteotti, non farà tanta strada. In Italia è sempre storicamente difficile fare chiarezza sulle cose, figuriamoci se poteva esserlo alle soglie di una dittatura. Ma è proprio l’aspetto investigativo del film che mette in luce la finezza del regista, già evidente dal punto di vista della scelta degli attori. Per tutti i ruoli politici e importanti, Vancini ricorre a scelte sicure, attori azzeccati e già rodati nel cinema sociale: chi meglio di Franco Nero, (interprete già visto, all’interno del genere, nei film di Damiano Damiani), può essere una figura eroica come Giacomo Matteotti? 

Bravissimi anche Mario Adorf (Benito Mussolini) e Gastone Moschin (Filippo Turati), che erano stati con lo stesso Vancini nel precedente La violenza: quinto potere che, pur se di derivazione teatrale, era comunque un testo di denuncia sociale. In quel cast c’era anche Riccardo Cucciolla (in Il delitto Matteotti è un Antonio Gransci quasi caricaturale), che va però più che altro ricordato nel ruolo di Nicola Sacco in Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo. Ma si diceva dell’inchiesta: in seguito al delitto vengono incaricati di indagare l’illustre Mauro Del Giudice e il magistrato di aperte simpatie fasciste Umberto Tancredi: per il primo, Vanzelli sceglie un monumento del cinema italiano, Vittorio De Sica, davvero in gran spolvero; per il secondo, del tutto inaspettatamente, troviamo Renzo Montagnari, il re delle commediole erotiche che già furoreggiavano al tempo. Nel rapporto tra questi due personaggi tra loro agli antipodi, c’è una delle note più interessanti del film: De Sica/Del Giudice rappresenta l’ideale italico d’annunziano, con un solenne senso delle istituzioni, al cui cospetto Tancredi/Montagnari sembrerebbe quasi rimpiangere le curve delle attricette sexy. In fondo che è successo? 
Qualcuno cercava guai e li ha trovati. Ma c’è un quasi, ed è dovuto al fatto che, a sorpresa, Tancredi, che è fascista dichiarato, sembra fin troppo dubbioso. Montagnari, il tipico italiano della porta accanto, perfetto anche nel suo essere ideale terreno per il germe fascista, è bravissimo, nel dare corpo all’impotenza di chi si trova quasi costretto ad ammettere che deve fare una cosa giusta, semplicemente perché è giusto farla. Certo, controvoglia, malvolentieri, quello che volete; ma sembra proprio in modo ineluttabile. Un moto che non t’aspetti in tale espressione di mediocrità che è l’italiano medio, e quando Tancredi chiede a Del Giudice se ha già preparato i mandati di arresto per i due gerarchi fascisti correi dell’assassinio di Matteotti, perché intende firmarli, è come se in quegli autografi certificasse che un minimo di dignità l’italiano medio ce l’ha.
E anche se questa associazione di idee fosse la cosa storicamente meno attendibile del film, ce la facciamo andar bene lo stesso.