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domenica 18 febbraio 2018

THE WOMAN IN BLACK

103_THE WOMAN IN BLACK  Regno Unito, Italia, Canada, Svezia 2012;  Regia di James Watkins.

La casa di produzione Hammer ha avuto il suo apice negli anni 50, con un filone di pellicole horror che ripercorse i fasti dell’americana Universal negli anni 30. Dopo quel mitico periodo, di cui si possono citare almeno La maschera di Frankenstein e Dracula, entrambi per la regia di Terence Fisher, lo studio subì un progressivo declino e con l’arrivo degli anni 80 la produzione si estinse.  Una trentina di anni dopo il marchio fu rispolverato, inizialmente con un film diffuso sulla rete internet (Beyon the rave fu pubblicato nel 2008 su MySpace) che segnò comunque la rinascita ufficiale della gloriosa Hammer Film. The Woman in Black è il quinto film di questa nuova era dello studio inglese e si presenta come un classico prodotto Hammer. La regia è affidata a James Watkins, mentre il ruolo principale è di quel Daniel Radcliffe da tutti ricordato per aver dato volto a Harry Potter nella serie dei film Warner Bros. Radcliffe nel lungometraggio è Arthur Kipps, un avvocato inviato in una vecchia e imponente residenza, che si dice maledetta, a cercare i documenti necessari per la vendita della stessa; a dargli un minimo di man forte c’è il validissimo Ciaràn Hinds  nel ruolo di Mr. Daily, l’unico abitante un po’ razionale nei dintorni della suddetta villa. Il film mette già nel breve prologo le carte in tavola: sarà per merito della musica e degli effetti scenici, o meglio per il perfetto sincronismo tra le due cose, ma la pelle d’oca è assicurata. Tutto il racconto è basato sui meccanismi della suspense e sulla sorpresa indotta (si attira l’attenzione dello spettatore da un lato e lo si sorprende dall’altro) che sono certamente risaputi, ma in questo caso fanno paura lo stesso. 


Il lungometraggio fonda la sua forza evocativa sui cliché dei film sulle case infestate, sulle storie con tragici lutti che hanno segnato una famiglia o una residenza, e in questo senso non aggiunge niente a quanto già conosciuto. In effetti lo spettatore si trova nella condizione di Mr. Daily che si mostra scettico di fronte alle tante testimonianze che parlano di eventi sovrannaturali; la realtà del film sembra dirci che invece c’è ancora spazio per avere paura, che la nostra ragione non ha del tutto seppellito le nostre ataviche paure, e quindi per Watkins e i suoi collaboratori c’è ancora campo su cui coltivare le nostre inquietudini e i nostri spaventi. Da un punto di vista tecnico il lungometraggio è sopraffino, con almeno quindici minuti ininterrotti, nella fase centrale del film, davvero di panico totale. The Woman in Black è quindi godibilissimo e certifica che è ancora possibile fare paura con le armi classiche del cinema dell’orrore e delle case infestate. E il finale, con la donna in nero che guarda nell’obiettivo della macchina da presa, ci avverte: la prossima casa del terrore, potrebbe essere la nostra.















venerdì 16 febbraio 2018

NINOTCHKA

102_NINOTCHKA  Stati Uniti, 1939;  Regia di Ernst Lubitsch.


“Garbo laughs” ovvero la Garbo ride! recitava direttamente il manifesto del film Ninotchka del formidabile regista Ernst Lubitsch: perché quel semplice gesto era una sorta di avvenimento mai accaduto prima, visto che la divina (ovvero l’attrice svedese) nei suoi film aveva sempre tenuto un’aria seria e misteriosa. La si può infatti ricordare nei suoi ruoli affascinanti ma quasi sempre un po’ inquietanti, come la Mata Hari, spia nell’omonimo celebre film, oppure la ballerina che si vuole suicidare in Grand Hotel, ma basta scorrere alcuni dei titoli dei lungometraggi interpretati dalla diva per farsi un’idea del tenore dei suoi ruoli: La donna divina, La donna misteriosa, La tentatrice oppure un altrettanto emblematico La via senza gioia. Questi film citati, tra l’altro, risalgono ai tempi del cinema muto, che videro la Garbo affermarsi anche in America: il suo esordio nel sonoro verrà fatto sospirare un bel po’ (forse per paura dell’accento troppo europeo dell’attrice) e verrà salutato con Garbo Talks! come lancio promozionale, ripreso quindi, nove anni dopo da quel Garbo Laughs! che fu usato per Ninotchka. Se i toni leggeri erano un po’ una novità per l’attrice svedese, non lo erano certo per il maestro assoluto della commedia sofisticata Ernst Lubitsch: nessuno meglio di lui era indicato per trovare quel lato della diva che fin’ora era rimasto inespresso. Perché naturalmente Ninotchka è un film leggero, una commedia spruzzata di umorismo, ben rappresentata dai tre diplomatici russi Iranoff, Bulianoff e Kopalki (interpretati rispettivamente da Sig Ruman, Felix Bressart e Alexandr Granach) inviati da Mosca a Parigi per vendere i gioielli della granduchessa Swana (Ina Claire) in nome del popolo sovietico, ma che verranno facilmente sedotti e corrotti dalle comodità della vita occidentale.

E qui entra in gioco Ninotchka (la Garbo, naturalmente), un austero funzionario sovietico mandato a controllare l’operato dei tre agenti che non si decidono a concludere l’affare. Ovviamente non tutto andrà come nelle previsioni, e la stessa Ninotchka incontrerà il conte Leon (Melvyn Douglas) e il loro rapporto si svilupperà scombinando i piani originari della funzionaria russa. La trama si snoda tra i classici equivoci di rito: Ninotchka incontra casualmente Leon chiedendo indicazioni per la Torre Eiffel (che volendo sottintende una qualche allusione fallica), ma non sa che proprio l’uomo è il suo rivale in affari, in quanto amico della granduchessa, e che proprio lui deve aiutare la nobildonna a riappropriarsi dei gioielli sequestrati a suo tempo dai sovietici in nome del popolo russo. 

E la traccia politica, almeno in un certo senso, non è affatto secondaria, sebbene questo possa sembrare strano in un film di Lubitsch: c’è un discorso pronunciato da Ninotchka, che può assurgere a vero e proprio manifesto del cinema del grande regista nato a Berlino: Compagni! attacca con enfasi la ragazza ubriaca di champagne, la rivoluzione è in marcia, le bombe cadranno, la civiltà crollerà a pezzi. Ma per favore, non adesso. Ecco, questo piccolo ritardo invocato da Ninotchka è in sostanza quello invocato dallo stesso Lubitsch ed è  riproposto in tutto in film, laddove ogni cosa deve essere ripetuta o deve essere riproposta con insistenza per poter essere accettata. La svolta del film, che è la risata a cui si concede la Garbo, avviene dopo il tentativo, fallito, da parte di Leon di sedurre all’umorismo Ninotchka con le barzellette; sarà invece una successiva goffa caduta dalla sedia ad ottenere lo scopo di far crollare il muro di seriosità dietro al quale si nascondeva la donna. Ma le barzellette torneranno buone in seguito, quando Ninotchka le ricorderà, stavolta con nostalgia divertita; o come la torre Eiffel, che non viene trovata nelle strade di Parigi ma che la donna dimostrerà di conoscere a menadito sull’aereo che la riporta a Mosca insieme ai tre buffi compatrioti. E che dire del cappellino, forse il dettaglio più esplicito in questo senso: prima guardato con orrore e poi comprato e indossato con vanità? O la stessa storia sentimentale con Leon, prima rifiutata, poi accettata e se questo, in effetti, è un passaggio anche troppo ovvio, più singolare che occorra un successivo viaggio all’estero della ragazza (dopo Parigi, Costantinopoli) per veder trionfare l’amore tra i due protagonisti. Questa necessità di ripetere, di insistere, nasconde forse un tentativo di fermare un po’ il tempo, di posticipare un attimo l’inevitabile: un po’ come i cinque minuti che ci si prende prima di alzarsi la mattina dopo il suono della sveglia.


A Lubitsch non interessa se il capitalismo sia giusto o sbagliato, se il comunismo sia il destino dell’umanità; il regista si muove in quello spazio, in quel ritardo, prima che il possibile cambiamento avvenga. Quello sfasamento temporale un po’ confuso in cui la granduchessa sta’ cominciando a perdere la sua finesse, ovvero la capacità di risultare incomprensibile alle masse, o il domestico del conte  Leon teme di venir affrancato dal suo ruolo subalterno e, cambiando il proprio stato sociale, di dover dividere con lo stesso conte i suoi sudati risparmi. Insomma, il famoso Lubitsch’s touch: se tutto questo deve accadere, se i nobili devono essere degradati a semplici cittadini e i lavoratori debbano veder vanificati i frutti dei propri sacrifici, che accada pure.
Non subito, però. Non adesso.




Ina Claire


Greta Garbo










mercoledì 14 febbraio 2018

M - IL MOSTRO DI DUSSELDORF

101_M - IL MOSTRO DI DUSSELDORF  (M - Eine Stadt Sucht einen Morder). Germania, 1931;  Regia di Fritz Lang.

Fritz Lang è un regista geniale, nel puro senso del termine: in M- il mostro di Dusseldorf  ne abbiamo un’ulteriore dimostrazione, dopo le tante già esibite dall’autore nella sua carriera, dalla forza visiva di Metropolis all’invenzione del ‘conto alla rovescia’ in Una donna nella luna. Ora il regista austriaco si cimenta per la prima volta con il sonoro, vi trova subito la giusta sintonia e, grazie a questo, aggiunge l’ennesimo colpo che il suo genio regala al suo cinema, un cinema sempre all’avanguardia. L’idea di accompagnare un motivetto fischiettato alle gesta del mostro, un Peter Lorre straordinario nella parte dell’assassino, è sublime, anche perché crea la giusta asincronia tra i drammatici eventi e la musichetta che li accompagna. E, ad onor del vero, questo effetto, adattissimo alle atmosfere paurose, è già presente nell’incipit della pellicola, quando le bambine giocano cantando una tiritera che romanza le imprese del mostro stesso. E questo, come si è accennato, non è altro che l’ennesimo colpo di genio del regista, che apre in modo adeguato la sua carriera con il cinema sonoro. Ci sono altre trovate geniali di Lang, in questa pellicola: il processo finale, ad opera delle organizzazioni criminali ed emarginate congiunte, è un’altra gemma di rara genialità. Forse meno sopraffina ma comunque di grandissimo effetto è la M che viene impressa con uno stratagemma sulla spalla del mostro, un’altra acuta intuizione di forte impatto visivo.
L’aspetto simbolico delle immagini è altresì importante: si va dall’uso di alcune metafore esplicite (il palloncino che rimane impigliato, la palla che rotola via) ai collegamenti visivi (le figure del mostro e della bambina che si alternano nel riflesso di una vetrina, contornate, incorniciate, dai coltelli in esposizione), fino al montaggio alternato tra le riunioni degli inquirenti e delle organizzazioni criminali che finiscono per confondersi.  Lang ci ha ormai abituato a questi spunti, basti pensare all’enormità in questo senso di un’opera come Metropolis ma, sebbene siano facili e comode da trovare in sede di commento ai suoi film, esse non rappresentano certo la cifra stilistica più importante del grandissimo regista austriaco. Lang è principalmente un regista, un uomo, dai nervi saldissimi. 

Questo lo si era già capito, con le coraggiose sue opere precedenti, ma in M - il mostro di Dusseldorf il regista si supera, e affronta a piè fermo un tema di una potenza devastante. Hans Beckert, il mostro di Dusseldorf protagonista del film, è un assassino che uccide bambine. E il fatto che siano tutte bambine, è già più che un sinistro campanello di allarme che il mostro non si limiti ad ucciderle. E, in ogni caso, in una riunione tra gli inquirenti, uno dei personaggi lascia intendere della violenza subita dalle vittime, fermandosi giusto in tempo per motivi di censura. Si parla quindi del crimine più odioso, più aberrante, perché somma la violenza verso ogni tipo di debole, la donna e il bambino, e di atrocità,  quella sessuale e quella definitiva (l’omicidio), in un unico gesto. Ci vuole una bella dose di coraggio, per affrontare questo tema. Certo se ne potrebbe fare un inno alla sete di giustizia, a fronte di un crimine che è un oltraggio all’umanità. Ma Lang ha molto più coraggio e molta più fermezza, e non cerca un facile consenso popolare; egli affronta il tema in modo spietato, lucido, senza alibi o scusanti. Il criminale è mostrato in tutta la sua meschinità ma, nel momento topico, quando i criminali stessi lo accusano, Lang cala l’ennesimo asso, e mostra il lato umano della belva, (e qui deve ringraziare anche Peter Lorre la cui interpretazione è davvero magistrale). Il mostro non è più l’altro, il diverso: il mostro siamo noi, che non possiamo sottrarci e non riconoscerci nelle  disperate parole di Beckert, nell’insostenibile e finale arringa difensiva.
Lucidità, implacabilità: il narrare, il descrivere, il filmare di Fritz Lang ha queste coordinate che inchiodano lo spettatore davanti non solo ad uno spettacolo sublime, ma anche alla propria coscienza.









lunedì 12 febbraio 2018

A DANGEROUS METHOD

100_A DANGEROUS METHOD  Regno Unito, Canada, Germania, Svizzera, 2011;  Regia di David Cronenberg.

E già, togliamoci subito il dubbio: A dangerous method è un film di David Cronemberg. Alla fine della proiezione, puntualmente come ad ogni prima visone di un film del grande regista canadese, ci viene il dubbio: che sia venuto meno al suo cinema? Che Cronenberg abbia toppato? Il regista più atteso al varco della storia del cinema, spiazza ancora una volta anche noi, i suoi stessi sostenitori, lasciandoci senza parole e con le idee confuse. Ma se lasciamo il tempo a quelle stesse idee di riorganizzarsi, ecco che magicamente dietro l’ermetico ma implacabile A dangerous Method ci apparirà, inesorabilmente, la mano dell’autore nato a Toronto. Proseguendo nella svolta intrapresa recentemente, Cronenberg produce un film dall’impatto classico e convenzionale: un film storico/biografico, quasi un film in costume. Anni luce dagli esordi ma anche dal primo periodo post-hollywoodiano del regista. Trama e azione stanno praticamente a zero: l’impalcatura teatrale che è all’origine del film, rimane perfettamente riconoscibile. Si tratta di un lungometraggio prevalentemente dialogato: in parte oralmente, in parte con il carteggio tra i due protagonisti, i famosi Carl Gustav Jung e Sigmund Freud. Come già in altre opere del canadese, i titoli di testa ci offrono uno spunto di partenza per la decifrazione del film: i credits scorrono sulla carta delle missive intercorse tra i due grandi padri della psicoanalisi, scorrono tra le parole, scorrono sulla superficie dei fogli di carta. Il regista che fu affascinato dai corpi solidi e spinse la sua ricerca dentro, all’interno, in profondità dei corpi stessi, affronta i misteri insondabili della psiche umana con un indagine di superficie.
Si scandaglia ciò che Freud e Jung si scrissero, un’analisi apparentemente superficiale. Così come pare superficiale l’interpretazione tutta esteriore della pazzia isterica di Sabine Spielren, una straordinaria Keira Knigwtley, l’altra protagonista dell’opera. Ma come le parole di un dialogo possono avere significati sottointesi tra le righe, sarà proprio nelle profondità dell’Es incarnato dalla splendida Sabine che troveremo la forza dirompente del cinema di Cronemberg. Dei tre personaggi principali, è proprio Sabine/Keira la vera prima attrice, come già esplicitato dal manifesto del film che la vede trionfante tra i due colleghi /rivali ben più illustri: Jung, interpretato dall’eccellente Michael Fassbender, (che è il protagonista apparente della vicenda) e Freud, un Viggo Mortensen imbalsamato in un efficace e statica interpretazione quasi araldica. 
E’ infatti Sabine che compie una parabola positiva lungo la durata del film: la prima scena la vede in preda alla pazzia, nel ruolo di figlia, a bordo di una carrozza trainata dai cavalli; nell’ultima sequenza, la si vede nel ruolo di medico, (futura) madre e a bordo di un’automobile. Di contro, i due grandi dottori nel film si ammalano. Sabine vince poi i confronti-diretti con i due padri della psicoanalisi: Freud, l’inventore della terapia delle parole è battuto proprio sulle suo terreno, sull’uso delle parole. (“non pensavo ci fosse una disputa” cit. Sabine). Jung esce sconfitto nel ribaltamento dei ruoli paziente/malato e nella realizzazione della serenità famigliare, che Sabine pare abbia trovato a differenza di Jung, sempre combattuto e mai risolto tra la pulsione passionale e il sentimento borghese. 
Oltre naturalmente alla stoccata saliente del film, opera proprio della donna, che inserendosi nella disputa tra Freud (il piacere del sesso come unico motore e le costrizioni sociali come forza inibitrice) e Jung (alla ricerca di un altro cardine nell’universo) ne dà la risposta definitiva. Ha ragione da vendere Sabine: potrebbero le ragioni del quieto vivere sopprimere la straripante forza dell’eros? No, la risposta è altrove. Amare qualcuno, è davvero sacrificare se stessi per l’altro; anche nell’atto sessuale. L’istinto di sopravvivenza si oppone all’autodistruzione che l’atto di amare porta con se’. 
Cronenberg ci mette in guardia da noi stessi: l’ostacolo maggiore verso la felicità, è proprio dentro di noi.




Keira Knightley