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domenica 21 gennaio 2018

CHINATOWN

89_CHINATOWN . Stati Uniti, 1974;  Regia di Roman Polanski.

Lo sviluppo della storia narrata in Chinatown di Roman Polanski è doppiamente sorprendente: il fatto che il titolo dell’opera si riferisca ad un quartiere di una città (Los Angeles) quando poi praticamente tutto il film si svolge fuori da questo sobborgo, lo sarebbe sempre. La sorpresa raddoppia quando a scegliere per questa discrepanza è il regista che ci ha abituato a tante storie ambientate e sviluppate dentro uno spazio confinato (l’appartamento in Repulsione, il castello in Per favore non mordermi sul collo, il palazzo di Rosemary’s Baby, la villa di Che?). Stavolta Polanski ambienta la sua storia fuori da un ambiente circoscritto e ci tiene a rimarcarlo sottolineandolo fin dalla scelta anomala del titolo. Chinatown non è però un luogo estraneo alla vicenda: innanzitutto perché è lì dove la storia finisce ma è anche il luogo a cui è legato il passato di alcuni dei protagonisti, primo fra tutti Jake Gittes (uno strepitoso Jack Nicholson). Gittes era un poliziotto di Chinatown negli anni 30 e la corruzione diffusa e l’impossibilità di nutrire qualche speranza di salvezza in tale ambiente aveva spinto l’uomo a lasciare il distintivo pur di poter uscire da quell’inferno. Una metafora che potrebbe essere buona anche per il protagonista medio dei precedenti film di Polanski: un po' come se Rosemary potesse andarsene in tempo dal palazzo; e, in un altro piano del discorso, che potrebbe indicare un tentativo da parte del regista polacco di andare oltre i propri orizzonti. E Gittes ci prova, a farsi una nuova vita, facendo l’investigatore privato, un lavoro rispettabile, e occupandosi di vicende quotidiane; forse un po’ meschine, è vero, le classiche cose da occhio privato, corna, tradimenti, e poco più. Ma comunque legali.


La cosa gli riesce anche bene, ora veste elegante, ha uno studio ben avviato, due collaboratori e una segretaria. Tutto gira alla perfezione e, nei suoi vestiti fatti su misura, è l’immagine stessa di quest’opera di Polanski: un film formalmente ineccepibile, perfettamente calibrato e girato con sobria maestria. Ma se il dentro dei film di Polanski è l’inferno, anche fuori non è tutto oro quello che luccica: la signora Mulwray, che si presenta per una faccenda di tradimenti coniugali, non è la vera signora Mulwray e la questione è un po’ più complessa di una questione di corna.

C’è di mezzo un omicidio, beghe politiche per il controllo dell’acqua, storie incestuose tra le più assurde mai sentite, gente importante coinvolta; insomma, un ginepraio di corruzione sociale e morale da far quasi rimpiangere Chinatown. In sostanza Gittes viene usato per creare uno scandalo che metta nei pasticci Hollis Mulwray, un ingegnere che dirige il Dipartimento dell’Acqua di Los Angeles e si oppone ai progetti dell’ex socio, Noah Cross (interpretato dal regista John Huston), che è anche suo suocero. La vera signora Mulwray è Evelyn (uno sontuosa Faye Dunaway), ed entra in seguito nella storia, coinvolgendo Gittes nelle sue torbide vicende prima solo sessuali poi forse anche amorose.


Gittes, che ha cominciato a indagare un po’ più a fondo solo perché indispettito per essere stato assunto in modo strumentale, riesce a scavare nei punti giusti, e più scava, più marcio viene a galla, più finisce irretito dalle spire dell’intreccio e dei suoi tentacolari e polivalenti interpreti. Il tenente Escobar, suo ex superiore ai tempi di Chinatown e che ora ha fatto carriera, intuisce che Gittes è sempre più coinvolto, ma visto che lo conosce, gli concede un po’ di spazio di manovra.


Insomma, la trama è architettata con cura e Polanski dirige con rigore: l’omaggio al genere noir, alle storie di Raymond Chandler e company, è nella confezione perfino superiore agli stessi classici di riferimento. La precisione formale di Chinatown è assolutamente perfetta, la storia coinvolge, avvolge e confonde. Ma dopo che il regista polacco ci ha portato a spasso per Los Angeles e nei suoi dintorni, dalla vallata degli agrumi alla costa dove viene scaricata l’acqua delle condotte, alla fine si scopre che quello che si cerca, la chiave di tutto è, come al solito in Polanki, dentro

Non viene dal mare, l’acqua salata che è stata trovata nei polmoni di Hollis Mulwray; non è l’oceano, la sua vastità, il suo essere esterno a tutto, ad essere il luogo del delitto, dove si compie il male. A casa Mulwray c’è un piccolo stagno, in cui è stata depositata dallo stesso ingegnere dell’acqua salata: il male ancora una volta è da ricercare dentro e non fuori. Chinatown è quindi un film che proprio nella rigorosa attenzione nel volerci mostrare una possibile alternativa alle consuete tematiche del mago di Lodz, nel finale smentisce questa eventualità, rafforzando, piuttosto, il pessimismo senza scampo che ha sempre pervaso il suo cinema.


Il finale, in modo abbastanza fortuito, almeno stando alla trama, ci porta infine a Chinatown, luogo che prima o poi avrebbe dovuto smettere di aleggiare sulla storia per farsi protagonista, come il titolo dell’opera lasciava presagire. In fondo, era già scritto sin dal principio: se un film si intitola Chinatown, e il quartiere si nomina sovente ma l’intero lungometraggio si svolge altrove, dove si può immaginare un finale? E se una storia narrativamente ferrea non ha ancora trovato il suo bandolo, cosa potrà se non il caso decidere l’epilogo? E dove dovrebbe colpire la pallottola se una donna bellissima e perfetta ha una piccola macchia nell’iride dell’occhio?



Faye Dunaway








venerdì 19 gennaio 2018

JOHNNY GUITAR

88_JHONNY GUITAR . Stati Uniti, 1954;  Regia di Nicholas Ray.

I titoli di testa di Johnny Guitar di Nicholas Ray sono abbastanza semplici, almeno in apparenza: scritte gialle su sfondo blu. Ma se un particolare curioso può passare inosservato, ce n’è almeno un altro che salta subito all’occhio: è infatti insolito che in un film che ha per titolo l’appellativo di uno dei personaggi, questo non sia quello interpretato dalla star più importante, (che per di più poi si scoprirà essere la vera protagonista della storia). E i titoli di testa evidenziano bene questa anomalia: il nome di Joan Crawford appare subito dopo quello della produzione ed è scritto in grande; solo poi arriva Johnny Guitar, il titolo del film, scritto meno in grande. E' Sterling Hayden l’attore a cui spetta il ruolo di Jonny Guitar, eppure il suo nome è messo in seguito, insieme ad altri coprotagonisti, in caratteri ancora più piccoli. E’ chiaro che la protagonista del film è Vienna, il personaggio della Crawford; ma allora perché la pellicola si intitola Johnny Guitar? E a questo punto tanto vale notare, sebbene sia un particolare di cui è difficile accorgersi senza la dritta giusta, come sia curioso che lo sfondo di questi titoli di testa sia proprio un bel blu intenso, quando in tutto il lungometraggio il regista Nicholas Ray ha praticamente bandito quel colore, per via dei problemi tecnici legati all’uso del Tru-color nella fotografia della pellicola. Perché Ray in Johnny Guitar lavora molto sui colori: ad esempio con gli abiti di Vienna, che si cambia nel corso della storia ben sei volte e i cui colori indossati, sgargianti o cupi, aiutano ad ambientare il tenore della scena. Impressionante, in tal senso, la resa del largo vestito bianco con la quale, durante la notte, la donna finisce al cappio e sta per essere impiccata (!).

Lo stesso Johnny Guitar le fa osservare come la si noti come se fosse una lampada accesa. Ma torniamo al principio, ai titoli di testa. Da questi pochi particolari possiamo subito dedurre come Ray sia da una parte fuorviante, dall’altra molto scrupoloso nel non lasciare nulla al caso. Lo si può ben dire perché poi tutta la pellicola conferma quei due piccoli indizi, che diversamente sarebbero trascurabili. Innanzitutto la protagonista è una donna, Vienna, il che è un fatto insolito per un western; ma ancora più singolare è che anche la sua rivale sia di sesso femminile: Mercedes McCambridge nel ruolo di Emma. Gli uomini sono relegati al ruolo di contorno, compreso il Johnny Guitar che presta il nome al lungometraggio. 

Che poi in realtà non è il vero nome, in quanto il nostro si chiama Johnny Logan; quindi il nome che da’ il titolo al film è quello di uno soprannome, il che non sarebbe nemmeno strano, in un western. La cosa strana è che Johnny si spaccia per Guitar solo nella prima sequenza, ma già nella quale sostanzialmente parcheggia la chitarra per tornare ad usare i tipici strumenti del far west, ovvero le mani e la pistola. Ma non possiamo già liquidare la questione femminile di cui abbiamo solo accennato: in realtà, se Vienna è una donna (e che donna, è nientemeno Johan Crawford, la diva degli anni 30 e 40) ad un certo punto uno dei suoi dipendenti dice: mai vista una donna più uomo di lei. E qui si aprono quindi altre diramazioni nell’architettura di questa sorta di labirinto di scatole cinesi che è una storia che non lascia mai allo spettatore la possibilità di accettare pacificamente le apparenze.

Perché abbiamo un western, genere maschile per eccellenza, con protagonista una donna, (ed è donna anche l’antagonista), ma non è una donna qualunque, è una diva, sebbene un po’ attempata (50 candeline per la Crawford) ma ci dicono che non se ne è mai vista una più uomo di lei. Una serie di stranezze e contraddizioni sancita dall’ultima affermazione. E l’attore che ci confessa questa cosa, guarda nella macchina da presa: non è un particolare da poco, sottintende una matrice metalinguistica dell’opera. In pratica il regista si rivolge allo spettatore tramite il suo personaggio; ma è una consuetudine che a Hollywood non è affatto frequente, se non in casi particolari come, ad esempio, nelle comiche di Stanlio e Ollio. Non è certo comune in un film classico come un western. Insomma, tutta la pellicola è intrisa da questo tipo di contraddizioni: per fare altri esempi, le scene girate all’aperto non danno mai la sensazione di libertà tipica del western, anzi, si potrebbe dire che sono claustrofobiche. 

Il luogo che ospita la vicenda è chiuso da un lato da una montagna, che oltretutto si presenta subito minacciosa per via delle frane causate dalle esplosioni per i lavori della ferrovia. Poi c’è il locale di Vienna, addossato ad una roccia; e quando vi arriviamo con Johnny Guitar all’inizio del film, c’è una tempesta di sabbia che impedisce di vedere alcunché. Il gruppo di Ballerino Kid (uno dei personaggi della vicenda, interpretato da Scott Brady e che in lingua originale è Dancin’ Kid, soprannome che suona decisamente meglio rispetto alla traduzione italiana) ha per covo una miniera in cui vi si arriva da un passaggio sotto una cascata, e non ha altre vie di fuga. Di contro, il saloon di Vienna, dove si svolgono molte scene d’interno, sembra ampio; sebbene la parete di roccia che lo caratterizza è un elemento completamente fuori posto e contribuisce ad una sensazione straniante.

Insomma, Ray non vuole favori, non si affida a nulla di quanto già previsto, consueto, oliato, codificato. Il cinema non è questo, sembra volerci dire, non è nelle regole dei generi, nelle consuetudini che, se rispettate, permettono di imbastire un film praticamente senza sforzo e senza metterci un minimo di creatività. Ray azzera tutto, gira un western, che è il più classico dei generi, ma non rispetta nessuna regola. Nemmeno quelle narrative degli sceneggiatori di Hollywood, perché la sua storia lascia tantissimi punti interrogativi: chi ha fatto la rapina alla diligenza? Cosa successe tra Johnny e Vienna? Perché Emma odia in modo così feroce Vienna? Ci sono imbeccate, rimandi, ma niente di preciso; a Nicholas Ray non interessa tutto ciò.
Al regista americano interessa il cinema, interessa, ad esempio, la dimostrazione di come la capacità di interpretazione possa cambiare completamente il valore di una scena. Come nella scena notturna, dove Johnny chiede a Vienna di ripetergli quelle frasi amorose che un tempo i due si scambiavano; e la Crawford le recita meccanicamente, con tutta l’altera freddezza di cui è capace. Ma poi la scena prosegue e Vienna rivela, lacrime agli occhi, che i suoi sentimenti non sono cambiati. Un passaggio di grandissima intensità, in cui la diva sfoggia tutto il suo talento. Oppure a Ray interessa sottolineare l’importanza dei caratteristi, quando Tom (e il bravo John Carradine che lo interpreta, insieme a lui) prende tragicamente il centro della scena e, metalinguisticamente, si compiace per una volta di essere il protagonista. Un bel tributo a quegli attori che rendono credibili e piacevoli i film, senza avere mai la soddisfazione di finire sotto i riflettori. 


E sono tanti i momenti alti, nel film, con l’incendio del locale di Vienna, la tentata impiccagione della stessa o il duello finale che oppone le due donne della pellicola. Ma per capire la grandezza dell’opera basta la prima strepitosa sequenza, composta, tanto per cambiare, da una serie di fatti insoliti e bizzarri: Johnny Guitar arriva a cavallo e rischia di venire travolto dai massi scaturiti da esplosioni su un costone; poi ode uno sparo e, da un’altura, assiste, senza intervenire, ad una rapina alla diligenza. Quindi, nel mezzo di una tempesta di sabbia, giunge al saloon di Vienna, che trova deserto, senza avventori. Nel locale arrivano poi gli uomini capeggiati da Emma, che portano il cadavere di suo fratello; infine giunge Ballerino Kid con i suoi scagnozzi (tra cui Bart, ovvero Ernest Borgnine). La sequenza è piena di suspense e tensione, volano accuse, il morto è stato ucciso dai rapinatori della diligenza e gli incolpati sono Vienna e gli uomini di Ballerino Kid. Non ci sono prove, ma Emma sprona il boss del paese McIvers (un ottuso Ward Bond) e lo sceriffo ad arrestare i presunti colpevoli; la tensione sale alle stelle, anche per via dell’odio che scorre platealmente tra Vienna ed Emma.

Da un momento all’altro, si scatenerà l’inferno, basterà la minima scintilla; i personaggi lo sanno e i loro occhi saettano a destra e sinistra cercando il più piccolo pretesto per attaccare il concerto calibro 45. Eccolo: un bicchiere cade e rotola in circolo sul bancone, si capisce che al giro successivo finirà per terra. Sarà quello il segnale che farà scattare i nervi tesissimi degli astanti? Il bicchiere compie il secondo giro, supera il bordo del bancone del saloon e cade: una mano arriva lesta e salva il bicchiere e evita la sparatoria. E’ Johnny Guitar che proviene dalla cucina dove stava beatamente mangiando e, prendendo in giro un po’ tutti, stempera momentaneamente la tensione accumulata precedentemente, mentre ne introduce di nuova.
Una sequenza da urlo di puro cinema: il cinema secondo Nicholas Ray.


Joan Crawford








mercoledì 17 gennaio 2018

AGENTE 007- LICENZA DI UCCIDERE

87_AGENTE 007- LICENZA DI UCCIDERE (Dr. No). Regno Unito, 1962;  Regia di Terence Young.

Primo storico episodio della serie di film dedicati a James Bond, Agente 007- Licenza di uccidere è sicuramente uno dei migliori dell’intera saga, sostenuto, per tutta la lunghezza della pellicola, dal famoso tema sonoro di Monty Norman. Il problema narrativo di introdurre i vari elementi che caratterizzano in modo così peculiare l’agente segreto 007 (primo fra tutti quello che compare nel titolo italiano, ovvero la licenza di uccidere), tiene impegnati regista e sceneggiatori che non divagano troppo nelle classiche strampalate esagerazioni, ben più comuni negli altri film dedicati alla celebre spia; sebbene anche in questo non si scherzi (valga per tutti il drago che altro non è che un carro armato provvisto di lanciafiamme). James Bond è naturalmente Sean Connery, mentre le Bond-Girls di questo primo episodio sono: Sylvia Trench che è interpretata da Eunice Gayson; Miss Taro che deve le grazie a Zena Marshall; e, per chiudere, quella che forse rappresenta più di ogni altra la categoria, la Bond-Girl per eccellenza, ovvero la meravigliosa Ursula Andress nei panni (molto succinti, in verità) di Honey Ryder. Spettacolare la scena in cui l’attrice svizzera esce dal mare con un costumino bianco, lasciando a bocca aperta anche un marpione come Bond. Il film in italiano fa riferimento alla facoltà concessa a Bond di eliminare gli avversari, cosa che fa un certo effetto e sembra anche un po’ incoerente: quale autorità consente al governo britannico di concedere a Bond la licenza di uccidere su tutto il pianeta? Non stona la cosa in sé, si tratta di spionaggio e quindi è plausibile, ma il tentativo di spacciare per legale (la licenza) una cosa che è palesemente criminale, sia essa dettata da motivi personali o da fonti istituzionali.

Deve essere comunque un rilievo degno di considerazione anche per gli autori, visto che nel film c’è qualche passaggio che cerca di chetare la coscienza di qualche spettatore troppo scrupoloso. Viene prima ricordato a Bond da un suo superiore che la sigla 00 gli consente di uccidere e viene anche spronato a farlo, nell’evenienza; in seguito, il problema viene posto nel rapporto con Honey Ryder. Quando l’agente 007 elimina un nemico, la ragazza pare disgustata; poi Honey ne chiede direttamente conto alla spia, che se la cava evidenziando la criticità della situazione. Ma successivamente, quando Honey racconta di essere stata violentata, lei stessa ammette di essersi vendicata in modo letale; a quel punto è la ragazza a farsi venire uno scrupolo morale: ‘Ho fatto male?’ Chiede infatti la donna a Bond. ‘Beh, basta che non diventi un’abitudine’ è la replica della spia.
In conclusione: se anche Bond fa fuori un po’ di gentaglia non vi preoccupate.
Lui, l’abitudine, ce l’ha già sin dal primo film.  






Le Bond-Girls:

 Eunice Gayson è Sylvia Trench:





Zena Marshall è Miss Taro











Ursula Andress è Honey Ryder