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venerdì 27 ottobre 2017

GROSSO GUAIO A CHINATOWN

13_GROSSO GUAIO A CHINATOWN (Big trouble in Little China). Stati Uniti, 1986;  Regia di John Carpenter.

Tra il titolo originale di quest’opera e quello tradotto in italiano c’è una piccola grande differenza: pur se il termine Chinatown è americano, e legato al quartiere cinese di San Francisco dove è ambientata la pellicola, il regista John Carpenter ha deciso di utilizzare un nome differente, ovvero Little China. Nella traduzione italiana questo passo si è perso, ma viene naturale chiedersi perché il regista abbia scelto Little China come nome dove ambientare il suo Big trouble: ebbene un indizio potrebbe essere il rimando alla contrapposizione tra i termini big e little, che nella storia americana inevitabilmente ricordano il cosiddetto massacro del Little Bighorn, come ci ha insegnato Artun Penn nel suo Il piccolo grande uomo (Little Big Man). Suggestioni, forse.
Comunque sia, anche questo Big trouble in Little China si rende protagonista della de-costruzione di un modello eroico tipicamente americano, in modo analogo al film di Penn, dove veniva denigrata la figura del Generale Custer, eroe leggendario della cavalleria americana. In questo caso l’icona forte a finire a mal partito è quella di Kurt Russell: un paio di film interpretati dall’attore e diretti dallo stesso Carpenter (gli straordinari 1997 Fuga da New York e La Cosa) avevano lanciato all’inizio del decennio la potente figura (anti)eroica dell’attore. In effetti un po’ tutti, una volta appreso della nuova collaborazione Carpenter/Russell, ci aspettavamo un nuovo personaggio che eguagliasse il carisma del celebre Jena Plisky. E, ad onor del vero, Jack Burton, protagonista di Grosso guaio a Chinatown,  di carisma ne ha da vendere, visto che alcune sue battute sono da Storia del Cinema. (Una per tutte: “Sei pronto?” gli chiede l’amico Wang; “Io sono nato pronto!” la perentoria risposta di Jack).

Il problema, per lui, è che Carpenter si diverte a costruirgli intorno un meccanismo narrativo che rende il suo essere superiore, in quanto eroe, totalmente fuori controllo, troppo sopra le righe e quindi ridicolo. Non si tratta però, assolutamente, di comicità involontaria, e basti pensare alla scena del rossetto o alle varie goffaggini di Jack nei combattimenti, per capire che l’operazione del regista è mirata a demistificare la figura dell’eroe macho consacrato da Escape from New York. Questo permette di capire come Grosso guaio a Chinatown , apparentemente un film leggero nella filmografia del cineasta americano, sia invece un film di forte valore politico sociale. L’eroe palestrato e muscoloso alla Jena Plisky si è affermato all’inizio degli anni ’80, come conseguenza degli anni ’70, assai tribolati dalle varie contestazioni sociali.

Quella che doveva essere una risposta dell’individuo disagiato, diventare forte più delle avversità, passava ora, negli anni ottanta, ad un’esaltazione individualistica dell’eroe, si pensi al passaggio dal primo Rambo a Rambo 2, la vendetta come esempio per comprenderne la deriva. Ecco quindi che Carpenter sottrae a questo gioco la sua figura di eroe, quella da lui costruita intorno al corpo di Kurt Russell, ridicolizzandola, anche se con un certo affetto, in Grosso guaio a Chinatown. Connesso a questo tema, anche da un punto di vista sessuale si può leggere la critica al culto del proprio corpo esploso negli eighties: il corpo possente di Jack in canottiera è esibito più delle forme femminili delle attrici Kim Cattrall (Gracie Law) e Suzee Pai (Miao Yin), che anzi sono poeticamente oggetto del desiderio solo per i loro occhi verdi.

Questa sorta di inversione dei ruoli si concretizza nella comica scena del bacio, dove Jack rimane con le labbra sporche del rossetto di Gracie, che passa quindi da un corpo all’altro. Quindi l’apparente mascolinità dell’eroe palestrato nasconde una grave forma di insicurezza sessuale: infatti, nonostante le spacconate galanti distribuite da Jack lungo tutto il film, nel finale, il nostro si defila, rinunciando al confronto con Gracie, negandole esplicitamente addirittura il bacio d’addio.
Dal punto di vista narrativo il film è semplice ma sorretto da una trama incalzante, e le decine di trovate mantengono sempre lo spettatore divertito e appassionato.
Apparentemente più spensierata di altre opere di Carpenter, Grosso guaio a Chinatown è invece una delle più lucide riflessioni sugli anni '80.
John Carpenter: un assoluto maestro.



Kim Cattrall




Suzie Pai




giovedì 26 ottobre 2017

IT (CAPITOLO 1)

12_IT (It: Chapter One). Stati Uniti, 2017;  Regia di Andrés Muschietti.

Abitualmente è giusto riconoscere una decisa autonomia ad un’opera rispetto alle fonti che l’hanno ispirata: è naturalmente anche questo il caso e, quindi, It: capitolo 1 di Andrés Muschietti è un film da attribuire in toto al regista argentino, cercando di non scomodare troppo il romanzo da cui è stato tratto, il capolavoro omonimo di Stephen King. E’ anche vero che se ti prendi la briga di adattare il tomo leggendario da 1200 pagine del maestro dell’horror letterario, inevitabilmente ti accolli una serie di ingombranti effetti collaterali. Certo, in questi casi, viene sempre in mente la storia delle due capre di Hitchcock, quelle che stavano mangiando le bobine di un film tratto da un best-seller e, ad un certo punto, una diceva all’altra: ‘personalmente preferisco il libro’; e bisognerebbe anche farsi una ragione sul fatto che adattare It, il libro di Stephen King, è forse al di là delle possibilità di un film. O anche di due, come è previsto da questa produzione: ma 600 pagine a film sono comunque davvero troppe, se a scriverle è un autore come King. Rimanendo per ora a It: capitolo 1, se la si intende come (parziale) versione cinematografica del romanzo, ci troveremo al massimo gli echi, le armoniche, di quella paurosa ma al tempo stesso struggente atmosfera che permeava le pagine kinghiane; e non è possibile, tanto per fare un esempio tra i tanti, innamorarsi di Beverly, guardando il film, seppure la giovanissima Sophia Lillis è deliziosa. Però in questo modo si rischia davvero troppo di fare il verso alle capre hitchcockiane e, quindi, è meglio concentrarci su quanto alla fin fine Muschietti mostra sullo schermo per quella che è la sua versione dello scontro tra Pennywise e il club dei perdenti.

Il film parte forte, e ci sono alcune scene davvero di notevole impatto: da quella della barchetta di Georgie, alle varie successive apparizioni del pagliaccio di Derry, ci sono moltissimi passaggi da pelle d’oca assicurata. Forse uno dei problemi è che il regista spara troppe cartucce nella prima parte e nel finale arriva un po’ col fiato corto, senza più assi nella manica. Il tema della paura, che è comune a tutta la comunità, dai bulli ai perdenti, ai genitori che fingono di non vedere le sparizioni dei ragazzi per non affrontare la realtà, è intrinseco alla storia, e Muschietti alla fine prende una scelta coerente con questo argomento, ma che risulta di minore impatto: le scene del pagliaccio sono più efficaci all’inizio, quando i ragazzi sono terrorizzati da lui, mentre nel finale, man mano che i perdenti si fanno sempre più coraggio, vanno via via scemando di intensità, e questo non favorisce certo un finale all’altezza.

Insomma, il film è un onesto film horror, e di questo bisogna essere grati ad autori e produttori, perché è un genere che è sempre bello vedere fatto con passione e professionalità. Ma più di così non si può concedere, sul piano qualitativo dell’opera. Forse di più era anche difficile chiedere, probabilmente, per il motivo che, in un modo o nell’altro, finisce per tornare fuori. E forse torna anche in modo un po’ sconveniente: insomma, forse il romanzo It, come soggetto horror è questo o poco più. Forse le qualità del libro sono altre, e forse King è un grande scrittore, prima che un grande scrittore horror. Pensare di dare in mano ad un pur dotato semiesordiente come Muschietti un simile adattamento, era un azzardo, e alla fine ha pagato poco, almeno rispetto alle attese. Il regista argentino ha fatto un po’ di ordine, ha diviso le due grandi trame, quella del passato da quella del presente, occupandosi per ora solo della prima; e già questo denota una difficoltà nel gestire quell’intrigo narrativo che era una delle prerogative del testo di origine. L’adattamento è stato quindi, come anche  logico, una semplificazione, ma non potendo mancare il comparto di scene orrorifiche che erano apparentemente il piatto forte dell’opera, si sono tralasciate troppe delle note salienti che davano il vero peso alla storia.
E dunque è impossibile, almeno in questo caso, non concordare con la capra di Hitchcock. 


mercoledì 25 ottobre 2017

LA CALDA NOTTE DELL'ISPETTORE TIBBS

11_LA CALDA NOTTE DELL'ISPETTORE TIBBS (In the heat of the night). Stati Uniti, 1967;  Regia di Norman Jewison.

Poliziesco teso ed avvincente, questo In the Heat of the Night rivela un’anima gialla anche nel suo depistare lo spettatore e nel farlo non solo con gli intrecci della trama. Intrecci che, giova dirlo prima di ogni cosa, legano lo spettatore alla poltrona per tutti i 109 minuti del film. C’è forse anche un richiamo, quasi un’esca, ad un film che nel genere ha fatto scuola: all’inizio del lungometraggio, uno stralunato barista dietro il bancone di una locanda sta’ dando la caccia ad una mosca. L’aspetto del protagonista, il locale che assomiglia un po’ al tipico motel americano, la presenza della mosca, le inquadrature della macchina da presa, tutto questo insieme di cose ci rimanda un po’ allo strepitoso Psyco di Alfred Hitchcock. Il film è un giallo, sembra quindi dirci Norman Jewison (sebbene quello di Hitch sia molto di più, in realtà). E da questo punto di vista, come giallo di intrattenimento, Jewison assolve appieno al suo scopo; il divertimento nella visione è assicurato. Ma già da subito si capisce che c’è dell’altro: il protagonista della vicenda è un poliziotto nero capitato per caso  in una sonnolenta cittadina del Mississipi, Sparta, dove il tempo pare essersi fermato all’epoca dello schiavismo. Il tema del razzismo è quindi immediatamente sovrapponibile alla trama poliziesca e viene facile pensare ad una doppia chiave di lettura, da un lato l’aspetto ludico del giallo da risolvere, contrapposto al tema impegnato della discriminazione razziale. La questione, in realtà, non è così semplice. Esiste anche una contrapposizione tra i protagonisti del film: Tibbs, il nero (Sidney Poitier), è alto, bello, intelligente, educato, istruito e, soprattutto, competente ed efficiente. 

Gillespie, il bianco (uno strepitoso Rod Steiger) capo della polizia locale, è tarchiato, rozzo, un po’ ignorante e, in un certo senso, anche emarginato. Eppure il vero protagonista del film è Gillespie. E’ lui che compie i più significativi, dolorosi e per niente spontanei, sviluppi nel corso della pellicola. E le motivazioni di questo percorso, che il capo della polizia compie comunque malvolentieri, quasi costretto dalle evidenze ma riluttante fino alla fine, sono il vero aspetto interessante del film. Gillespie abbandona i pregiudizi contro Tibbs non per motivi etici; non ha infatti la cifra morale per farlo, è solo un rozzo poliziotto del Mississipi. 

E nemmeno per l’aspetto elegante e benestante di Tibbs; anzi, Gillespie pare indispettito quando ne conosce l’entità dello stipendio. Forse una prima crepa nell’ottusa ignoranza razzista di Gillespie è dovuta alle capacità professionali dell’ispettore di Filadelfia; Steiger è eccellente nel descrivere i turbamenti interiori del capo della polizia di Sparta e quando richiede consulenza a Tibbs, che è un Ispettore della Omicidi, mostra sul volto di Gillespie le prime incertezze. Ma la scintilla sembra scoccare quando Tibbs reagisce ad un latifondista del luogo: questi schiaffeggia l’ispettore, che ricambia istantaneamente con la stessa moneta.

Qui, a Sparta, nel Mississipi, sud degli Stati Uniti, nel 1967, é lecito attendersi una pesante reazione contro l’afroamericano da parte del Capo della Polizia presente allo scambio di schiaffi. La reazione c’è, e anche pesante, ma è tutta interiore a Gillespie: l’iracondo poliziotto percepisce finalmente delle affinità con Tibbs, che reagisce con rabbia istintiva, proprio come avrebbe fatto lui. Quindi, dapprima in modo comunque un po’ riluttante, poi via via sempre più apertamente, Gillespie matura un atteggiamento amichevole e di stima nei confronti dell’uomo di colore. E’ quindi una pellicola progressista, questo La calda notte dell’ispettore Tibbs, ma lo è in modo non banale; non è che si giustifichino le resistenze allo sviluppo e all’uguaglianza razziale degli abitanti degli Stati del Sud, ma si evidenziano le oggettive difficoltà dovute alla diffusa ignoranza e a secoli di ottusità culturale.
Molto bella la scena che prepara il finale: un uomo in borghese, elegantemente vestito, si dirige verso una carrozza del treno; un poliziotto,  per niente elegante, gli porta la valigia mentre il ferroviere gli posiziona il predellino per accedere alla scaletta.
Ah, i due al lavoro in divisa sono bianchi, quello elegante un nero. Ma questi dovrebbero essere dettagli trascurabili. E, per una volta, lo sono.

martedì 24 ottobre 2017

IL TRAPEZIO DELLA VITA

10_IL TRAPEZIO DELLA VITA (The tarnished angels). Stati Uniti, 1958;  Regia di Douglas Sirk

Due anni dopo, il geniale regista Douglas Sirk riunisce il terzetto che già aveva diretto nello riuscitissimo Come le foglie al vento, per un nuovo folgorante melodramma. Il termine melodramma non deve influenzare negativamente: è vero che spesso si usa con accezione dispregiativa per certe opere che non hanno il senso della misura, ma di per sé è un genere cinematografico che, se condotto con maèstria, può dare risultati eccezionali. Come quando dirige Douglas Sirk, ad esempio. Il film è girato in un sontuoso bianco e nero in Cinemascope che regala immagini splendide. Sirk è un vero maestro della regia e elargisce alcune sequenze memorabili: oltre a tutte quelle in cui è in scena una strepitosa Dorothy Malone, vanno ricordate almeno quella dell’incidente aereo del pilota, montato in alternato con il figlio chiuso nella giostra, e l’arringa giornalistica nel finale. Tornando ai protagonisti del film, per questo Il trapezio della vita il regista tedesco chiama a raccolta, insieme al suo pupillo Rock Hudson, Robert Stack e Dorothy Malone, che erano appunto stati protagonisti nel celebrato Written on the wind (meritatissimo premio Oscar alla Malone). Ma se nel precedente film la bellissima Dorothy doveva dividersi la scena con una diva del calibro di Lauren Bacall (per altro, in quell’occasione, nettamente surclassata) stavolta Sirk concede alla bionda platinata il completo centro dell’attenzione. Il trapezio della vita è infatti un film che è totalmente imperniato sulla figura di LaVerne (Dorothy Malone, appunto), attorno alla quale girano, come gli aerei del film, gli uomini della storia: il marito Roger, (Robert Stack) eroe di guerra e pilota acrobatico; Jiggs, (Jack Carson) amico della coppia e meccanico di fiducia di Roger; Burke Devlin (Rock Hudson) cronista d’assalto; Matt Ord (Robert Middleton) magnate organizzatore di gare e manifestazioni aeronautiche acrobatiche. Il film ha un curioso incipit, in quanto veniamo brutalmente gettati, insieme a Burke, nell’intimità dello strano terzetto (la coppia Roger e LaVerne e l'amico Jiggs) che intende partecipare alla gara aerea che si disputa a New Orleans in occasione di Carnevale.



I tre hanno qualcosa di malsano, e questo lo si capisce subito, dagli sfottò che subisce il quarto elemento del gruppo, ovvero il piccolo Jack, figlio della coppia, del quale però si insinua che possa avere come padre naturale Jiggs e non Roger. Questa promiscuità non chiarita, e l’eccessiva confidenza che LaVerne concede a Burke, che è addirittura un giornalista in cerca di notizie, alimentano i dubbi sulla moralità dei personaggi del terzetto. Dubbi che diventano ormai certezze nel momento in cui veniamo a sapere che LaVerne è sempre stata contesa tra Roger e Jiggs e, quando questa ha rivelato ai due uomini di essere rimasta in cinta, i due si sono giocati ai dadi l’opportunità di sposarla! Apparentemente questo è un passaggio esagerato anche in un melodramma, ma in realtà Sirk è molto più sibillino: Roger sfida ai dadi Jiggs, che si era subito proposto di sposare la donna, ma senza definire bene la posta, tant’è che ne nasce subito un equivoco. Il meccanico perde e pensa (e spera) di dover sposare LaVerne come penitenza, mentre, a sorpresa, il pilota rivendica il diritto di farlo in quanto vincitore. E’ uno dei momenti chiave del film, dove si definiscono le psicologie dei personaggi, perlomeno maschili. Il tormentato triangolo amoroso è di natura simile ai rapporti dei protagonisti di Come le foglie al vento, dove i sentimenti si rincorrono da un personaggio all’altro: Jiggs ama LaVerne che ama Roger. Jiggs quando vede l’esitazione di Roger nel regolarizzare il rapporto con LaVerne ora che questi è incinta, ne coglie l’opportunità di scalzare il pilota dal ruolo di partner della donna e si offre di sposarla.

Ma Roger lo spiazza proponendo di giocarsi questa eventualità ai dadi: un’ipotesi degradante per tutti, ma LaVerne e Jiggs hanno una posizione simile, mentre quella di Roger è differente. LaVerne e Jiggs, pur se inorriditi, accettano l’azzardo perché sperano che la sorte benigna aggiusti le cose: la donna si auspica che i dadi le consegnino Roger, di cui è innamorata e che è il padre del bambino, mentre Jiggs spera di realizzare il sogno, per lui altrimenti proibitivo, di unirsi a LaVerne. Roger è l’unico che non si affida alla speranza: egli vuole sposare LaVerne, e infatti poi la sposa, ma non vuole ammettere né di amarla né di volerla sposare, così imbastisce la degradante scenetta dei dadi, (di cui però mantiene le redini evitando di chiarirne i termini, per poterne gestire l’esito in ogni caso). In questa apparente contraddizione c’è il senso del film e forse del cinema di Sirk: non è la bellezza, né la ricchezza o la bravura, che ci tengono vivi, ma il desiderio; quando realizziamo il nostro scopo e otteniamo la felicità, la paura di perderla ci tarpa le ali e ci condanna. Roger ha paura di rivelare il suo amore a LaVerne, perché nel farlo diverrebbe vulnerabile, smetterebbe di essere l’eroe volante invincibile: e così infatti accade quando la minaccia di Burke lo costringe a dichiararsi esplicitamente alla donna.
La vita, insomma, sembra dire Sirk, è un carosello durante la quale ci struggiamo di desiderio per un qualcosa che, quando lo conquisteremo, farà sorgere dubbi e timori di perderlo, ovvero quelle stesse angosce che ci distruggeranno.
Il trapezio della vita è quindi un film formidabile anche perché ci rivela quanto, in realtà, la felicità, faccia paura.   


 Dorothy Malone














lunedì 23 ottobre 2017

IL GRANDE CIELO

9_IL GRANDE CIELO (The big sky ). Stati Uniti, 1952;  Regia di Howard Hawks

E’ un territorio immenso. La sola cosa che c’è di più grande è il cielo”. Con queste parole Jim Deakins (Kirk Douglas) descrive il paesaggio protagonista del film Il grande Cielo, di Howard Hawks. E’ già si capisce come, in questo lungometraggio, il grande regista americano operi in modo fuorviante, e questo scartamento tra ciò che è dichiarato e la vera natura delle cose, nasconda il punto focale del suo film. Perché intitolare un film Il grande cielo, quando il cielo stesso è l’unica cosa più grande del paesaggio che si vorrebbe fisicamente mettere al centro dell’attenzione, suona certo un po’ beffardo. Ma, d’altronde, chi se lo sarebbe potuto aspettare che il finale che tiene sulle spine la voce narrante di uno dei protagonisti, Zeb Calloway (uno strepitoso Arthur Hunnicutt), sia legato ad una storia d’amore? Nessuno, perché seguendo i nostri eroi nel corso del loro avventuroso viaggio, le vicende amorose sono davvero relegate in un angolo: l’unica donna del manipolo è Occhio d’anatra, una squaw appartenente ai Piedi Neri, che funge come sorta di lasciapassare per commerciare con questa fino allora ostile tribù. (Pel la verità viene definita ostaggio da Frenchy Jourdonnais, il capo della spedizione, ma è un termine fuori luogo visto che è trattata con tutti i riguardi). Comunque sia, la donna parla solo la sua lingua, incomprensibile a tutti a parte Calloway. Ma la ragazza è graziosa  e finisce in ogni caso per rientrare sia nelle mire di Jim, ma anche di Boone (Dewey Martin), suo fraterno amico e nipote di Zeb; il quale però, oltre ad essere interessato alla squaw, nutre al contempo un odio generalizzato nei confronti dei pellerossa.

Tuttavia nessuno dei due uomini è in grado di dialogare con la donna: eppure, pur con queste flebili premesse, sarà sulla traccia sentimentale che si giocherà il finale, alla faccia del ricco sviluppo avventuroso fatto di ripetuti attacchi a cui è sottoposto il battello dei nostri commercianti di pellicce, opera della potente Missouri River Company, quando non degli indiani Corvi o delle insidie naturali. Il tema apertamente dichiarato del film è il viaggio del battello risalendo il Missouri, da St. Louis fino alle terre dei Piedi Neri: una versione fluviale (e antecedente) della conquista del west. Abbiamo detto però dei depistaggi, che sono la matrice dominante dell’opera: ad esempio, la storia narrata sembra quella di un’amicizia virile (tra Jim e Boone) che nasce da una scazzottata per arrivare ad un rapporto di fratellanza.

Ed ecco che ad un certo punto tra i due si insinua una presenza femminile, peraltro molto discreta dal punto di vista sentimentale. Apparentemente molto discreta, dovremmo dire, visto l’importanza che assumerà nel finale; se vogliamo del tutto incoerentemente con il trascorso precedente. E anche nello specifico: tra i due, sebbene l’unico che abbia avuto più di un contatto fisico (ma per nulla amichevole) sia il più giovane Boone, sembra evidente che debba essere Jim, molto più maturo e carismatico, a ghermire il cuore della donna.E invece Occhio d’anitra sceglie proprio Boone, ancora una volta contro l’evidenza logica dei presupposti. Insomma, è un po’ come se l’opera andasse letta al contrarioIl grande cielo è un film che ci parla di un territorio da esplorare, e il viaggio in queste terre vergini, per quanto lungo e difficile, ci ricorda che l’importante è poter avere una casa in cui tornare. Nella taverna Jim e Boone cantano infatti “Oh whiskey leave me alone, remember I must go home” (Oh whisky lasciamo solo, ricorda che devo andare a casa): e nel momento decisivo, tutti tornano a casa; anche se non per tutti la casa è la stessa. Jim e l’equipaggio vanno a Saint Louis ripercorrendo il viaggio di andata.
Ma anche Boone, che dopo quell’unica giornata di navigazione decide (saggiamente) di ritornare da Occhio d’anatra, al villaggio di quegli indiani ostili, i Piedi Neri, non fa altro che tornare a casa.
Quando era romantico, Hawks era davvero romantico.





Elizabeth Threatt








domenica 22 ottobre 2017

A QUALCUNO PIACE CALDO

8_A QUALCUNO PIACE CALDO (Some like it hot ). Stati Uniti, 1959;  Regia di Billy Wilder

Pare che la scelta del titolo (Some like it hot in originale) si debba allo sceneggiatore I.A.L. Diamond e, in un certo senso, aiuta già a farci un’idea sullo splendido (manco a dirlo) film del geniale regista Billy Wilder. La suddetta frase è inserita in modo del tutto causale in un dialogo, mentre Tony Curtis (Joe/Josephine) ci prova con la meravigliosa Marilyn Monroe (Zucchero “Candito” Kandisky): nel contesto si riferisce al jazz, la musica che suonano entrambi nell’orchestrina; ma trattandosi di un dialogo fittizio, in cui Joe, travestito da eccentrico milionario, prova a suscitare interesse nella ragazza, può o potrebbe avere un qualche doppio senso. Questa sua apertura nella possibilità interpretativa, lascia però il posto alla semplice sonorità della frase, (molto più funzionale nell’inglese some like it hot che nella versione italiana), che alla fine è, presumibilmente, il vero motivo d’essere di questo titolo. Ma questa sorta di mancanza di significato, il fatto di essere scelto perché suona bene, in realtà assume un’importanza cruciale nel rivelare il senso del film e forse di tutto il cinema di Wilder. Un film (e un cinema) che non ha apparentemente ambizioni di mandare messaggi o di insegnare qualcosa allo spettatore; piuttosto un film che prova a suonare bene, a funzionare, ad essere piacevole da guardare di per sé stesso. Non solo nella settima arte, ma spesso genericamente in tutta la produzione artistica, si usa dire morale della favola per ricavare il messaggio dell’Autore ai suoi fruitori: come se il cinema (o la letteratura o la pittura o la musica) fosse meramente un media, un mezzo, per veicolare un determinato messaggio, spesso di natura morale o sociale. Questo provoca spesso operazioni discutibili sul piano finale perché soprattutto la critica finisce per valutare più queste intenzioni sottese rispetto alla qualità dell’opera in senso strettamente e tecnicamente artistico.
E’ un rischio che non si corre con Billy Wilder, un regista che fa film di genere, quindi dichiaratamente commerciali e apparentemente senza pretese sociali, ma di rara competenza cinematografica. E in questo senso, A qualcuno piace caldo potrebbe essere inteso come il suo film manifesto. Ma non perché il film non ha un significato, al contrario; perché è proprio quando l’autore smette di voler essere il “maestro che insegna”, che riesce a cogliere la vera essenza, la vera arte, e la traduce nella sua opera. Datemi una maschera e vi dirò la verità diceva Oscar Wilde, ed è quello che fa' praticamente sempre il sublime regista di origine ebrea con i suoi film mascherati da produzioni  commerciali di genere, ma che trova la quintessenza in questo Some like it hot, film in costume (siamo nei ruggenti anni venti) dove i protagonisti Tony Curtis e Jack Lemmon (Jerry/Daphne) si travestono, ulteriormente, da donne.
 Il tema stesso dell’opera è forse dunque la capacità del cinema, proprio nel suo essere arte commerciale e di finzione, di esprimere al meglio il mondo, la società in cui viviamo. E se il cinema ha la possibilità di dire la verità proprio perché è finzione, abbiamo visto come in Some like it hot il falso abbondi: dall’epoca d’ambientazione ai travestimenti dei protagonisti. L’abilità di Wilder è naturalmente che ognuna di queste finzioni ha più di una interpretazione che funziona su piani diversi contemporaneamente; prendiamo l’ambientazione degli anni venti, gli anni del proibizionismo. A livello narrativo, serve un pretesto forte per costringere i due uomini protagonisti, Joe e Jerry, a travestirsi e l’occasione è offerta dall’essere stati testimoni nientemeno che della celebre Strage di San Valentino. Quindi l’ambientazione nell’epoca dei gangster serve per avere quel livello di pericolosità sociale, visto che in simili situazioni si rischiava realmente la pelle, per cui andarsene in giro vestiti da donne pur di scamparla è narrativamente più che plausibile. Ma i ruggenti anni venti erano famosi non solo per i gangster ma anche per il proibizionismo: era una società con leggi fortemente restrittive; leggi che, risultò poi evidente, alimentarono la criminalità anziché dissuaderla, ma tant’è. In ogni caso molte restrizioni, soprattutto in ambito artistico o cinematografico, incredibilmente resistono tenaci anche sul finire degli anni ’50, gli anni del definitivo boom economico. E nonostante la presenza di questi limiti censori, perlopiù di matrice sessuale, nella società dei tardi anni 50 i riferimenti in tal senso abbondano: sono gli anni di Marilyn Monroe, la bomba atomica sexy, protagonista con tutte le sue curve proprio di A qualcuno piace caldo, o di Elvis Presley i cui espliciti movimenti gli fecero guadagnare il soprannome di “Elvis the pelvis”.
Ricapitolando, nel 1959 (anno di uscita di A qualcuno piace caldo) abbiamo una censura, e la necessità artistica e sociale di eluderla, esattamente come nel tempo del proibizionismo si cercava di infrangere le rigide leggi vigenti: quindi l’ambientazione temporale nei roaring twenties, che appare strettamente legata a motivi narrativi, risulta anche un’efficace metafora dell'epoca corrente. Detto di questa possibile sovrapposizione metaforica, osserviamo ora uno degli strumenti di tale metafora: ovvero il tema del travestimento. Il travestimento sessuale era un argomento assolutamente tabù nel cinema di serie A, di quello con le star celebrate di Hollywood per intenderci: come Wilder sia riuscito a produrre un film con un simile tema rimane un po' un mistero, anche se nel vederlo appare evidente il grandissimo lavoro per rendere apparentemente innocuo ogni possibile rimando sessuale troppo esplicito. Sebbene, in quest’ottica, la coppia di suonatori Joe e Jeff, uno di sassofono e l’altro di contrabbasso fornisca più di uno spunto: uno suona il sex, scusate il sax, mentre lo strumento dell’altro ha le curve di una diva del cinema. Oltre a questi, ci sono tantissimi altri ammiccamenti, ad esempio quelli resi sempre più espliciti tra Osgood (Joe E. Brown), un anziano in cerca d’avventure, e l’oggetto delle sue mire, Daphne (Jack Lemmon travestito!). Lo scostumato ottantenne, a cui l’attore Joe E. Brown presta un’efficacissima maschera ebete e lasciva, con una enorme bocca sorridente e peccaminosa, riesce a corrompere Daphne/Jeff   fino a quasi(?) convincerlo/a ad accettare la relazione, in un crescendo culminante con la fulminante battuta finale: quando infatti Jeff/Daphne, togliendosi la parrucca, rivela a Osgood di essere un uomo, questi risponde con un “beh, nessuno è perfetto!” che suggella in modo emblematico l’intero film.
Ci sono altre coppie che si compongono e scompongono all’interno del film, e tutte o quasi (e in quel dubbio sta’ quello che potremmo definire il Wilder Touch) con riferimenti sessuali: abbiamo visto Joe & Jeff (uomo & uomo) e Osgood & Daphne (uomo & travestito) ma ci sono anche Josephine & Zucchero (travestito e donna), Daphne & Zucchero ( travestito & donna), Josephine & Daphne (travestito & travestito) fino a Joe & Zucchero (uomo & donna) che è l’unica coppia normale del film. Ma anche focalizzandoci su questa ultima coppia, l’unica canonica, si possono notare numerosi aspetti, diciamo così, inconsueti. Innanzitutto la coppia si forma nella scena della spiaggia, con l’uomo comunque doppiamente travestito: il suonatore di sassofono Joe si spaccia per il ricco erede della nota industria petrolifera Shell, mentre è vestito da marinaio. Proprio una conchiglia, noto marchio dell’azienda, viene usata da Joe per indicare la propria famiglia: ma la conchiglia è un simbolo femminile, quindi il gioco dei travestimenti o delle inversioni, si insinua sin da subito anche nella coppia Joe – Zucchero. Poi, al momento dell’appuntamento sulla barca, Joe si presenterà in un primo istante vestito da marinaio dimenticandosi alle orecchie gli orecchini di Josephine, ricordandosi di toglierseli all’ultimo secondo utile. A quel punto, non a caso, l’uomo porterà la ragazza a bordo dello yacht andando a marcia indietro, un fatto reso plausibile narrativamente con un doppio espediente: Joe non conosce lo scafo e quindi non sa manovrarlo e togliere la retromarcia, ma alla ragazza racconta una bugia nella bugia, dicendo che è nuovo e non lo ha mai usato. E, ancora non a caso, una volta a bordo, l’uomo non sarà in grado di rispondere alla stessa su quale sia la parte davanti e quella posteriore della barca, lasciando intendere una presunta bi-direzionalità delle cose. Ma questi rimandi si traducono poi in aspetti realmente connessi al sesso quando Joe si spaccia per frigido (per usare le parole di Zucchero) per stimolare la stessa ragazza che quindi assume il ruolo tipicamente maschile di intraprendenza per aiutare l’uomo a sbloccarsi.
Il tema del travestimento non è il vero argomento del film, o meglio, lo è ma in senso più profondo rispetto a quello legato a vestiti femminili, parrucche, rossetto e cerone.
 Proprio questi trucchi ci dicono come nel tentativo di esaltare la femminilità, questi espedienti finiscano praticamente per assumerne il significato: al di la dell’apparenza, (Joe e Jeff sono accettatiti come donne perché sembrano tali) queste non sono che alcune delle tante sfaccettature del feticismo, che è quel fenomeno nel quale assume il ruolo di rilevanza l’oggetto (il feticcio) che rappresenta simbolicamente la cosa reale che dovrebbe essere omaggiata dall’oggetto stesso. Nel caso del travestitismo abbiamo l’esaltazione di quei trucchi, vestiti e accessori che sono ormai diventati loro stessi punti di attrazione del desiderio sessuale andando (quasi?) a sostituirsi all’originale oggetto del desiderio stesso (nel caso specifico, la donna, con buona pace delle femministe).  Ma nel film ci sono altri riferimenti al feticismo, oltre a tutti quelli legati al suo sottotema del travestimento: nelle scene del viaggio in treno le gambe e i piedi delle ragazze dell’orchestra sono esibiti insistentemente in moltissime inquadrature; Zucchero chiede a Daphne se la riga delle calze in nylon sia dritta; nella scena cruciale dove Osgood conosce Daphne questa perde la scarpa col tacco, modello Cenerentola, e l’anziano provvede nel ruolo del principe; le stesse scarpe col tacco per cui Jeff, per il resto vestito da uomo, viene riconosciuto dai gangster nel finale. Ma anche le ghette o lo stecchino con cui vengono identificati proprio i due boss malavitosi sono anch’essi di matrice feticista. Ma Some like it hot è un film feticista, nel senso profondo del termine, oltre che per tutti questi motivi esteriori che abbondano nel lungometraggio, perché ci dice che il cinema, che è il feticcio della realtà, può essere considerato in sé e per sé senza più dover rendere conto alla realtà stessa, o anche a qualche messaggio sociale o morale, per poter essere considerato degno. 
No, ormai il cinema ha una dimensione che lo rende autonomo, autosufficiente. Ma attenzione: in Wilder non c’è giudizio morale su questa metamorfosi feticista del cinema. Wilder, da grande, grandissimo artista, coglie questa trasformazione e la concretizza con un testo filmico che mostra in modo lucidissimo lo stato delle cose. A qualcuno piace caldo potrebbe parlare, e forse lo fa, della promiscuità del desiderio sessuale nella società, ma non è necessario che Wilder renda esplicito l’eventuale messaggio, posto che ci sia. Questa zona di indeterminazione degli elementi in gioco a livello di opera artistica, riflette le tematiche del film (maschile, femminile o le due cose insieme) ed è quello che potremmo definire il Wilder Touch: la realtà è più ambigua di quanto ci piace credere. 


Marilyn Monroe