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sabato 8 maggio 2021

DA MAYERLING A SARAJEVO (a seguire QUANDO LA STORIA...)

812_DA MAYERLING A SARAJEVO (De Mayerling à Sarajevo)Francia, 1940; Regia di Max Ophuls.

Considerato in genere uno dei passaggi meno illustri nella splendida filmografia di Max Ophuls, Da Mayerling a Sarajevo venne probabilmente penalizzato da difficoltà produttive. Pare che la realizzazione del film fu ironicamente interrotta proprio dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale: ironicamente perché la mobilitazione generale francese, che coinvolse persino Ophuls, arrivò poco dopo aver girato la scena dell’attentato di Sarajevo, nel finale del film. Almeno questo dicono le cronache, romanzandoci forse un po’; nel qual caso sarebbe stata una ricostruzione fin troppo profetica. Coincidenze a parte, il film non era però ancora completo e il regista vi tornò all’opera solo durante il nuovo conflitto ma, sembra, senza riuscire ad avere il controllo diretto sul montaggio finale. Quel che risulta è una prima parte di notevole fattura, dove la superba mise en scène di Ophuls regala alcune sequenze strepitose, e una seconda che non riesce, probabilmente, a raccogliere in modo adeguato quanto seminato fin lì. Il tema era particolarmente tempestivo: alle soglie della guerra che sarebbe arrivata nel 1939, si andava ad indagare sulle cause del precedente conflitto mondiale che, come forse solo in seguito acclarato, fu una delle cause proprio del nuovo scoppio delle ostilità. In quest’ottica, l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando (nel film John Ludge) era quindi non solo l’innesco della Prima Guerra Mondiale ma, per una sorta di reazione a catena, anche della seconda. Un’attenzione ad un tema cruciale sorprendente, ma solo a prima vista, nel cinema sofisticato e superficiale di Max Ophuls. 

In realtà il talento sublime del regista tedesco è ampiamente riconosciuto così come la sua capacità di andare ben oltre le sublimi apparenze estetiche dei suoi inappuntabili film. Questa sua capacità di cogliere il vero significato delle cose pur in una rappresentazione per nulla essenziale ma, al contrario, riccamente e ricercatamente rifinita, è lo strumento perfetto, o probabilmente il migliore possibile, per rievocare quei drammatici frangenti che chiusero tragicamente il XIX secolo catapultando il mondo nell’era contemporanea. Una ricostruzione fatta oggi dell’Europa di inizio ‘900 è sempre una rilettura, una visione dall’esterno. Ophuls aveva invece la piena conoscenza del mondo del 1800 (sebbene fosse nato nel 1902) unita ad una insuperabile padronanza del mezzo artistico per eccellenza del XX secolo, il cinema. 

Per cui, quando guardiamo Da Mayerling a Sarajevo, viviamo le passioni, i tormenti, le speranze, nel modo in cui furono intese allora, attraverso lo strumento a noi più congeniale: una sintesi perfetta. Questo abbinamento è simbolicamente rappresentato subito in avvio: la scena iniziale, in cui si predispongono le Altezze al ricevimento, l’estrema attenzione alla coreografia complessiva, ricorda la premurosa cura con cui un regista come lo stesso Ophuls doveva predisporre il suo set. Uno scrupolo formale quasi maniacale ma necessario per ottenere quelle magnifiche sequenze dove tutto combaciava in modo armonico, quasi naturale, ma che erano frutto di estrema attenzione al dettaglio. 

L’intuizione di rifarsi ai fatti di Mayerling nella storia di Francesco Ferdinando è naturalmente fondamentale: dopo il presunto suicidio dell’erede al trono Rodolfo e della sua amante Maria Vetsera, gli Asburgo se non potevano permettersi altri scandali amorosi, men che meno se ne potevano permettersene altri di natura luttuosa. Questo fatto fu uno dei pochi elementi che giocò, in un certo senso, a favore della storia d’amore tra Francesco Ferdinando e la contessa Sophie Chotek (Edwige Feuillère, forse non bellissima ma a suo modo incantevole), peraltro fortemente ostacolata a corte. La contessa, infatti, pur essendo una nobildonna, non era di sangue reale e questo tema, alla fine del secolo romantico per antonomasia, era perfetto per mettere in luce l’inadeguatezza dell’Ancien Régime rispetto agli ideali del momento. La figura di Francesco Ferdinando, con la sua ostinazione nel voler impalmare l’amata contessa, acquistava quindi rilievo al di là delle sue intenzioni politiche. 

Laddove, peraltro, la sua idea di trasformare l’Impero Austro-Ungarico in una federazione, nel film gli Stati Uniti d’Austria, dava ulteriori mal di stomaci all’imperatore Francesco Giuseppe. La figura dell’imperatore, impersonata dall’attore Jean Worms, è ben sintetizzata anche dalla inquietante statua, vero convitato di pietra, che incombe sull’Arciduca e la Contessa,  in una bella scena d’amore. Ma Cecco Beppe, se poteva digerire, pur con gli adeguati compromessi, il matrimonio con la contessa Chotek, certo non avrebbe mai accettato un ammodernamento in senso federale dell’impero. Ophuls non si spinge apertamente ad ipotizzare complotti e congiure, rispetto a quanto avverrà a poi Sarajevo. Ma un paio di passaggi con protagonista il principe di Montenuovo (Aimé Clariond), alimentano facilmente teorie in questo senso. 

Il Montenuovo era un funzionario di corte, una sorta di sovrano della burocrazia, ed era ancora più ostile all’unione tra Francesco Ferdinando e la contessa Sophie di quanto non fosse l’imperatore. Pur se dietro le quinte, è protagonista della scena forse più famosa del film di Ophuls, quella dello scalone del palazzo reale, interdetto, nel bel mezzo della cerimonia, alla contessa in quanto non di stirpe sovrana. La sequenza è girata magnificamente da Ophuls e molto ben interpretata dalla Feuillère; l’applauso finale dagli spalti illustri è una sorta di sentenza di quanto fosse ormai superata la mentalità della casa reale anche presso la stessa corte. Tuttavia Montenuovo è centrale in altre due scene, certamente più significative nell’ottica dei fatti di Sarajevo: dapprima si rivela sorprendentemente accomodante con la contessa, da sempre sua acerrima nemica, nel concederle il permesso di accompagnare il marito nella visita a Sarajevo. 

Ophuls indugia, con un gioco di ombre e luci, sul volto del burocrate di corte, a segnalarci inequivocabilmente la doppiezza d’intenti. Che emerge allo scoperto nella successiva scena in cui Montenuovo, contattato telefonicamente da Sarajevo, nega ripetutamente adeguate disposizioni di sicurezza a quella che diverrà la fatale parata. Ma naturalmente sarebbe un errore pretendere una accuratezza storica da un film come Da Mayerling a Sarajevo, finanche l’elaborata didascalia iniziale ci rassicuri in tal senso. Per le ricostruzioni storiche ci sono testi sicuramente più attendibili; ma pochi possono competere con la passione genuina, ma niente affatto frivola o superficiale, per quei romantici ideali che furono il combustibile primo per combattere il vetusto mondo imperiale. E la vicenda di Francesco Ferdinando, al netto degli aspetti storici, si presta benissimo, sia dal punto di vista personale che da quello politico, ad essere romanzata in questo senso. Un manifesto per la libertà individuale e collettiva e all’autodeterminazione dei popoli che, se indispensabile per opporsi alle mire espansionistiche di Hitler, è valido ancor oggi. Un inno quindi, oltretutto ben supportato dalle musiche di Oscar Straus, a quei romantici ideali. Eguagliati in valore (o, ahimè, superati) unicamente dal sangue dei soldati che andrà versato negli imminenti grandi conflitti.     

Al termine della galleria fotografica del film, QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
FRANCESCO FERDINANDO: L'EREDE SCOMODO

Edwige Feuillère 




Appendice storica.
QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

FRANCESCO FERDINANDO: L'EREDE SCOMODO

All’indomani dell’attentato di Sarajevo l’intera Europa si trovò a fare i conti con le conseguenze dell’assassinio dell’arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando; il dibattito verteva sull’opportunità o meno di concedere all’impero asburgico il pugno di ferro contro la Serbia: il gioco delle alleanze e il meccanismo delle mobilitazioni presto surriscalderanno l’ambiente europeo; interessi imperiali, paure ancestrali e fattori psicologici entreranno in gioco con l’esito che conosciamo tutti. Questa fu la conseguenza della morte dell’arciduca ereditario, della “carica” per così dire; la morte dell’uomo Francesco Ferdinando, invece, passò in secondo piano, messa subito in ombra dagli eventi quando non proprio vista con una certa soddisfazione persino all’interno dell’impero stesso. Giova forse ricordare il sollievo espresso privatamente da Francesco Giuseppe alla morte di quel testardo nipote così poco disposto a piegarsi alle regole della corte, così refrattario a comportarsi come un vero erede al trono d’Austria; per non parlare del vero e proprio tripudio che l’assassinio di Francesco Ferdinando scatenò tra i notabili ungheresi, la cui eco distante si può ancora trovare nel romanzo La Marcia di Radetzky di Joseph Roth.
Personalità spinosa e forte, Francesco Ferdinando di certo sapeva come farsi dei nemici: in un ambiente, quello viennese, dove dominavano i compromessi e le interminabili mediazioni, Francesco Ferdinando puntava subito al sodo, con poco riguardo per la sensibilità degli interlocutori. D’altra parte non aveva imparato da fanciullo l’arte del governo: il suo destino sarebbe dovuto essere quello di arciduca austriaco per tutta la vita; un governatorato qua, qualche sfilata là, e la vita sarebbe scorsa tranquilla all’ombra dei castelli e degli interessi personali. Invece la tragedia di Mayerling lo portò alla ribalta in modo improvviso e inaspettato: a un Francesco Ferdinando ormai ventiseienne venne notificato che, col suicidio dell’arciduca Rodolfo, la successione al trono d’Austria sarebbe spettata a lui.


Pur non rinunciando ai suoi viaggi e specialmente alla sua amata caccia (Francesco Ferdinando sarebbe l’orrore di qualsiasi animalista di oggigiorno, per la quantità di bestie abbattute, di ciascuna delle quali conservava l’immancabile trofeo), il nuovo arciduca ereditario prese il suo compito piuttosto seriamente. Ma l’ombra di Mayerling non lo abbandonò mai realmente e plasmò la sua vita di erede al trono: Francesco Giuseppe non lo amò mai, forse non potendogli perdonare il fatto di aver preso il posto dell’amato figlio. La vita sentimentale del nipote non poteva poi che turbare ancora di più il vecchio imperatore: esattamente come il figlio Rodolfo, infatti, anche Francesco Ferdinando frequentava donne che non appartenevano ad alcuna famiglia regale europea (all’interno delle quali gli eredi al trono degli Asburgo erano tenuti a scegliere le proprie mogli); la contessa Sofia Chotek von Chotkowa, una semplice dama di compagnia, catturò il cuore di Francesco Ferdinando durante un ballo a Praga. 


Possiamo immaginare quanto Francesco Giuseppe fosse inorridito una volta che il gossip cortigiano rivelò la relazione segreta tra l’erede al trono d’Austria e una semplice nobildonna ceca come la Chotek; i fantasmi di Rodolfo e Maria Vetsera dovettero aleggiare tra zio e nipote imperiali nella lunga e violenta contesa che ne seguì. Francesco Ferdinando, testardo e audace come sempre, si rifiutò di fare il minimo passo indietro, non volendo sposare altra donna che non fosse Sofia; l’imperatore si incaponì nel rifiutare un matrimonio così stridente con le regole basiche della casa d’Austria. Nessun familiare aveva mai sfidato Francesco Giuseppe così a muso duro come Francesco Ferdinando sulla questione delle sue nozze; certo, non erano mancati i dissensi in casa Asburgo anche negli anni precedenti: Francesco Giuseppe aveva addirittura privato il fratello Massimiliano del titolo di arciduca a seguito del loro disaccordo sulla questione messicana. Ma Massimiliano era distante, a Miramare se non addirittura in viaggio verso il Messico e il contenzioso avveniva tramite lettere. Rodolfo e Sissi, soffocati dall’ingombrante figura dell’imperatore, avevano finito per cedere in maniera drammatica col suicidio il primo, con la depressione e una fuga di fatto la seconda. Francesco Ferdinando, invece, osa affrontare lo zio per così dire in casa di lui, e non abbassa lo sguardo. Trionfa, alla fine; la dolorosa esperienza di Mayerling e il rischio di aprire una nuova crisi dinastica portano infine l’imperatore a cedere: il matrimonio si farà. L’unica concessione che il trionfatore farà allo zio sarà quella di dichiarare ineleggibili al trono imperiale gli eventuali figli nati dalla sua unione con Sofia.


Francesco Giuseppe non perdonerà mai la disobbedienza al nipote: non parteciperà al matrimonio, e vieterà agli altri membri della famiglia imperiale di farlo. Si crea una spaccatura inedita all’interno degli Asburgo, spaccatura della quale la politica austriaca ed europea non tarderanno ad approfittare, schierandosi ora con l’uno ora con l’altro a seconda delle esigenze del momento.
Francesco Ferdinando promosse la marina austriaca e si occupò molto dell’esercito; fu uno dei principali sponsor di Franz Conrad von Hotzendorf, nuovo capo di Stato Maggiore e personalità altrettanto spigolosa, che si rivelerà uno dei principali “architetti dell’Apocalisse” come lo chiamerà un biografo. Vale a dire uno dei maggiori propugnatori della guerra europea, il quale giocò un ruolo primario durante la Crisi di Luglio (salvo poi andare completamente nel pallone una volta che la guerra scoppiò per davvero). Inizialmente i due uomini si trovarono legati istintivamente sotto molti aspetti: una visione moderna e aggressiva della politica dell’esercito austro-ungarico innanzitutto, ma anche il fatto che Conrad a sua volta si trovava invischiato in una storia sentimentale “sconveniente” a livello sociale con la nobildonna italiana Virginia von Reininghaus, già sposata con sei figli. Successivamente però, le ossessive e ossessionanti richieste di Conrad di lanciare un attacco preventivo contro Italia e/o Serbia, finirono per lacerare il rapporto.

Francesco Ferdinando, infatti, era fautore di una politica più accomodante con i vicini, prevedendo -correttamente, come i fatti dimostreranno- che un attacco contro una di queste potenze, e contro la Serbia in particolare, avrebbe innescato il meccanismo delle alleanze portando a un conflitto generale. Conrad finì per aggiungersi quindi alla lunga lista di nemici di Francesco Ferdinando. Nessuno di questi era più accanito degli ungheresi: tra l’arciduca ereditario e il Regno d’Ungheria vi era un odio reciproco, viscerale, dichiarato e conclamato. Francesco Ferdinando non perdeva occasione di dichiarare pubblicamente la sua scarsa fiducia nell’elemento ungherese della nazione e in particolare nel primo ministro Istvàn Tisza. Gli ungheresi dal canto loro temevano il progetto ferdinandeo di concedere una maggiore autonomia anche agli altri popoli dell’impero asburgico, in particolare ai molti slavi, che avrebbero dovuto controbilanciare l’influenza ungherese sul parlamento imperiale a Vienna. Questo progetto era temuto anche dalla Serbia: il piccolo regno balcanico, a seguito delle guerre contro l’impero ottomano, si ergeva a difensore degli Slavi del Sud e mal sopportava la possibilità che l’Austria si investisse a sua volta di questo ruolo, concedendo larghe autonomie ai bosniaci e ai croati all’interno del suo impero. Non è un caso quindi che gli irredentisti bosniaci e i nazionalisti serbi vedessero Francesco Ferdinando come il fumo negli occhi e che infine fosse lui, proprio lui, a cadere sotto i colpi di Gavrilo Princip.
Molto si è detto e scritto circa la decisione di Francesco Ferdinando di recarsi ugualmente a Sarajevo nonostante i molti indizi che indicavano alla preparazione di un attentato. Non mancano i complottisti che vedono nell’evento chissà quale trama dei Rotshchild o di chissà chi. In realtà Francesco Ferdinando, fedele al suo carattere combattivo, non si tirò indietro, non si fece intimorire dai bosniaci più di quanto non si fosse fatto mettere i piedi in testa dallo zio imperatore. Semplicemente, andò ad occhi chiusi verso il destino.
Qualche settimana dopo, l’intera Europa lo imitò. 

venerdì 7 maggio 2021

VIZI PRIVATI, PUBBLICHE VIRTU'

811_VIZI PRIVATI, PUBBLICHE VIRTU' . Italia, Jugoslavia, 1975;  Regia di Miklós Jancsó.

Autore decisamente singolare, Miklós Jancsó con Elettra amore mio (1974) aveva forse sancito il suo personale percorso, allontanatosi sempre più dal cinema convenzionale a favore di un maggiore simbolismo, all’interno di una messa in scena coreograficamente teatrale, ricca di danze e balli. E il successivo Vizi privati, pubbliche virtù, in fondo, prosegue in questo solco: ciononostante la critica, in genere benevola verso queste forme di espressioni artistiche, stroncò decisamente la nuova opera del regista ungherese. In effetti la massiccia presenza di elementi sessuali esibiti in modo ostentato (seni, certo, ma anche organi sessuali femminili e maschili nonché un paio di passaggi adeguati al cinema pornografico) è sempre un elemento disturbante per il comune senso critico. Effettivamente Vizi privati, pubbliche virtù è un film formalmente eccessivo e sembra esserlo in modo un po’ gratuito. Per la verità c’è chi vide nelle scelte piccanti di Jancsó un tentativo di cavalcare sfacciatamente l’esibizione di temi sessuali per avere un facile riscontro presso il pubblico che, in quegli anni settanta, si andava abituando sempre più a questo tipo di operazioni. Ed è innegabile che sia una critica non del tutto campata per aria. Diversamente, a difesa dell’autore ungherese si potrebbe obiettare che, se lo scopo fosse stato di raccogliere consensi mostrando nudità varie, non sarebbe servito tirare in ballo i fatti di Mayerling del 1889. La vicenda raccontata (in maniera assai libera e vagamente surreale) in Vizi privati, pubbliche virtù fa evidente riferimento a quella in cui a Mayerling trovò la morte Rodolfo d’Asburgo-Lorena (nel film interpretato da Lajos Balàzsovits), ufficialmente per suicidio. 

Come noto, con il suo cadavere fu rinvenuto quello di Maria Vetsera e qui il film di Jancsó comincia a prendersi una delle tantissime libertà narrative, visto che Teresa Ann Savoy interpreta, piuttosto, una certa baronessa Mary (che è addirittura un ermafrodito!). Peraltro tutto si può dire di Vizi privati, pubbliche virtù tranne che si atteggi a documento storicamente attendibile e, quindi, le bizzarre scelte narrative di Jancsó, almeno in questo ambito, sono pienamente legittime. Più concretamente, è palese la critica al perbenismo di facciata degli Asburgo che può essere un’efficace metafora alla società borghese che ancora mal tollerava le idee sessantottine rivoluzionarie, anche e soprattutto in materia sessuale, pur non avendo certo l’anima candida che ostentava. 

L’idea del regista ungherese era forse proprio creare scompiglio (il film era in concorso a Cannes) e in verità non raccolse molti consensi, come detto, anche se, forse proprio grazie alle ripetute noie censorie, riuscì a costruirsi una sua, per quanto discutibile, reputazione e notorietà. Qualche dubbio sull’opportunità di certe scelte nell’opera di Jancsó rimane: pur riconoscendo che la metafora in qualche modo funziona, le scene piccanti, pruriginose o pornografiche sembrano in effetti gratuite in troppi passaggi. Alla fine il regista riesce a spiazzare lo spettatore con un finale che sembra quasi storicamente se non credibile almeno plausibile. A fronte dell’imperterrito atteggiamento dissoluto di Rodolfo e dei suoi accoliti, nonostante i numerosi richiami ufficiosi e ufficiali, le autorità imperiali intervengono in modo drastico. I convenuti all’orgia festosa (tra le cui interpreti si annovera anche una giovane Ilona Staller) sono freddati e viene imbastito il finto suicidio: un’ipotesi tanto azzardata quanto credibile, che si rivela però un’arma a doppio taglio. Se Jancsó pensava di dare spessore storico alla sua strampalata seppur funzionante metafora confermando la tesi complottista, in realtà, il rischio è semmai il contrario. In mezzo a tante idee bizzarre, l’ipotesi che Rodolfo d’Asburgo sia stato fatto eliminare dal padre, l’imperatore Francesco Giuseppe, appare soltanto, almeno vedendola in coda a Vizi privati, pubbliche virtù, l’ennesima stramberia della pellicola.


giovedì 6 maggio 2021

MAYERLING (1968)

810_MAYERLING Francia, Regno Unito, 1968;  Regia di Terence Young.

Quando si pensa a Terence Young inevitabilmente ci si ricorda i primi mitici film della serie di James Bond. Bei film, divertenti, certo, e che hanno avuto l’indiscutibile merito di creare un’icona cinematografica tra le più importanti di sempre, l’agente segreto 007. Un posto, seppure all’ombra del personaggio dei film e della figura di Sean Connery (il protagonista), nella Storia del Cinema Young se l’è quindi ritagliato in modo onorevole. Buon per lui perché a referto, nella sua pur rispettabile carriera di regista, va messo anche il mezzo pasticcio di Mayerling, film del 1968. Ora, non è che il film sia scandaloso o eccessivamente sciatto, per carità, ma quello che si profilava, vedendo gli ingredienti, era un’opera del calibro de Il Dottor Zivago (1965, per la regia, di David Lean, autore effettivamente di altra pasta) tanto per fare un comodo esempio. C’era un’epoca storica al suo apice, sia nel bene che nel male, e c’era una vicenda che arrivava all’assoluto, tanto in chiave romantica quanto in quella tragica. Il cast messo a disposizione dalla produzione anglofrancese per Mayerling era da far tremare i polsi: Omar Sharif (il citato Il Dottor Zivago ma presente anche in Lawrence d’Arabia, sempre di Lean) è l’Arciduca Rodolfo; una splendida Catherine Deneuve (già Bella di giorno in Bunuel e tanto altro) è la baronessa Maria Vetsera; la divina Ava Gardner, una delle ultime dive di Hollywood, è Elisabetta di Baviera, ovvero Sissi, la madre di Rodolfo; e poi James Mason è Francesco Giuseppe e James Robertson Justice è Edoardo Principe di Galles. Nessuno di loro lascerà però il segno; l’unica, a riuscire a bucare un minimo lo schermo è Geneviève Page, nel secondario ruolo della Contessa Larisch, che sprigiona verve e sensualità in ogni fotogramma che la vede sullo schermo. Non è questione né di bellezza né di capacità artistiche, perché la Deneuve e la Gardner, per restare alle attrici citate, non difettano in nulla di ciò. Anzi, per la verità la Deneuve interpreta bene la sua parte ma la regia non l’assiste in modo adeguato e allora i suoi sguardi romantici, i suoi passaggi sentimentali con Sharif, scivolano via senza incidere più di tanto. E dire che anche la musica, di Francis Lai, è quella dei filmoni memorabili, quelli che fanno inzuppare i fazzoletti nelle sale di tutto il mondo. 

La scelta di una messa in scena rarefatta non paga sostanzialmente perché a Young manca forse proprio questo tipo di registro. Diverso il caso di Ava Gardner che, pur se in splendida forma, sembra un po’ fuori posto: Ava non era attrice che si potesse relegare in un angolo e il suo fungere soltanto da comparsa di lusso non funziona, ancora una volta non per limiti dell’interprete. Il protagonista, Omar Sharif, si barcamena come può, facendo appello con professionalità al proprio mestiere. Ma se pensiamo che interpreta il ruolo di un erede al trono di uno degli imperi più gloriosi di sempre, che è al centro di un momento storico cruciale con le richieste ungheresi di assumere la guida del loro paese e che, nel frattempo, ha una storia d’amore con una donna bellissima ma che alla fine si macchia di omicidio dell’amata e di suicidio, beh francamente era lecito aspettarsi di più di una prestazione di routine. James Mason e James Robertson Justice gigioneggiano da par loro, in chiave diversa e opposta, evidentemente: Francesco Giuseppe è severo e impettito e il Principe di Galles pensa solo a divertirsi, ma sono poco più che figure bidimensionali, perché dire macchiette sarebbe poco rispettoso per il loro rango reale. Insomma, una delle tragedie della storia finita cinematograficamente nelle mani sbagliate. Rimane giusto qualche immagine, forse qualche scena, con la bellezza delle Deneuve e la musica di Lai a ben interpretare il tema. 






    Catherine Deneuve






Ava Gardner





Geneviéve Page


mercoledì 5 maggio 2021

MAYERLING (1936, a seguire QUANDO LA STORIA...)

809_MAYERLING Francia, 1936;  Regia di Anatole Litvak.

Con il suo carico di pessimismo, i fatti di Mayerling dovettero sembrare particolarmente affascinanti al pubblico del 1936 che decretò un notevole successo al film che Anatole Litvak vi dedicò. Più che direttamente sugli avvenimenti storici, Mayerling trae il soggetto dal romanzo di Claude Anet che aveva comunque come riferimento gli eventi in questione. Un episodio tragico, l’omicidio/suicidio di Maria Vetsera e Rodolfo d’Asburgo, generalmente accettata come attendibile ricostruzione dei fatti, poteva in effetti ben incarnare l’angoscia del periodo. L’Europa andava di nuovo incontro ad un evento tragico, una nuova Guerra Mondiale, e nel 1936 il clima generale era già alquanto plumbeo: in fondo il mondo si apprestava di nuovo a suicidarsi in un sanguinoso conflitto. Litvak però mette l’accento su un altro aspetto della storia tra Rodolfo e Maria, una prospettiva in cui l’amore senza speranza dei due amanti cercasse di interpretare il clima del tempo in chiave romantica. E’ forse la scelta di quest’ottica che lascia maggiormente perplessi, a vedere il film oggi: si potevano permettere, gli anni 30, un tale romanticismo? Perché, nonostante gli accenni alle ombre di marca espressionista che ogni tanto fanno capolino, quello di Litvak è un film che fonda le ragioni del suo essere nelle personalità dei suoi protagonisti, sulla loro capacità di interpretare il sentimento amoroso in senso assoluto. Charles Boyer (è Rodolfo) e una giovanissima Danielle Darrieux (è Maria) sono superlativi, nei rispettivi campi, e finiscono per vincere la scommessa, riuscendo a convincerci che l’amore è più forte della morte. 

Il che è un risultato notevole, sia chiaro, ma che non incarna più la disperazione di quel tempo ma semmai l’utopia dell’amore eterno. E questa è una riflessione molto più raffinata di quello che ci si potrebbe aspettare in prima istanza da un film tanto smaccatamente romantico. La luce ottimista che, in fin dei conti, si irradia nell’opera, in modo del tutto spiazzante trattandosi come detto di un resoconto su un omicidio/suicidio, è dovuta solamente a Maria e qui la Darrieux è davvero straordinaria. Il suo amore incondizionato nell’uomo sbagliato (è già il marito di un'altra e non è nemmeno poco in vista, essendo l’erede al trono) non conosce ostacoli ed è talmente dipinto in purezza che non sorge mai il sospetto che la ragazza miri a sistemarsi con il miglior partito del lotto. Danielle non aveva ancora vent’anni e la sublime classe non aveva ancora assunto le sembianze di elegante nonchalance, riuscendo così ad essere convincente interpretazione della più candida ingenuità. 

Memorabile la scena in cui, vedendo il rossetto lasciato da una prostituta sul volto di Rodolfo, si preoccupa pensando che l’amato stia sanguinando. E quando l’uomo le rivela la natura lasciva dell’impronta scarlatta, non si scompone affatto, riuscendo a scorgervi, piuttosto, il segno simbolico della disperazione dell’arciduca. Da parte sua Boyer è altrettanto efficace: il suo Rodolfo è sì un uomo risoluto a rompere con gli assurdi obblighi della sua condizione che gli negano la felicità; ma è anche l’uomo che trascina una sprovveduta ragazza in una storia che poi non è in grado di governare. Anzi, è lui stesso a proporre alla povera Maria di seguirlo, anzi precederlo, nella morte, approfittando dell’amore incosciente e incondizionato di questa. E qui che va forse ricercato il vero valore di Mayerling di Anatole Litvak: non tanto nell’elegante formalismo in genere considerato il pregio maggiore del film. No, quello che ci dice questa interpretazione dei fatti di Mayerling è che, purtroppo, il rischio maggiore non arriva tanto dalle persone reazionarie come l’imperatore Francesco Giuseppe (Jean Dax) o da quelle ottuse come il conte Tafee (Jean Debucourt). No, il loro prevedibile conformismo cerca di negare concessioni e divagazioni, quant’anche questo possa significare l’infelicità. Ma c’è di peggio. Queste persone sono estranee all’amore e non hanno nemmeno idea di cosa possa significare; nella loro ignoranza, per quanto colpevole, c’è una minima attenuante. Purtroppo c’è anche chi conosce l’amore ma lo interpreta in modo egoista e distorto, incentrando sulla propria persona un sentimento che, per definizione, deve al contrario sempre mettere l’altro in diritto di precedenza. Ma precedenza non certo nel senso di andare per prima incontro ad una morte cercata e voluta, negazione arbitraria della vita e quindi dell’amore; chiudendo su sé stesso, in una sorta di cortocircuito, proprio quell’amore assoluto che aveva innescato la vicenda. E, in ogni caso, il sentimento sincero di una ragazza come Maria non meritava di venire strumentalizzato e banalizzato per assecondare un’atroce ripicca contro la corona asburgica.  

Al termine della galleria fotografica del film, QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
MAYERLING: I DOLORI DEL GIOVANE RODOLFO




Danielle Darrieux





Appendice storica.
QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

MAYERLING: I DOLORI DEL GIOVANE RODOLFO

Quando nel 1774 Goethe pubblicò il suo romanzo I dolori del giovane Werther certo non immaginava che subito dopo si sarebbe scatenata un’assurda follia imitatrice che avrebbe portato centinaia -secondo alcune stime addirittura migliaia- di giovani al suicidio, esattamente come il protagonista del libro. Il Werther rimase una specie di Bibbia per il romanticismo tedesco per molti decenni dopo la sua uscita, imitato più o meno pedissequamente da Foscolo, letto dalla piccola, media e grande borghesia, dalla nobiltà su su fino alle corti reali e imperiali. Sull’onda di un successo che non accennava a diminuire, specie nell’area tedescofona d’Europa, il Werther entrò alle soglie della Belle époque; l’immagine idealizzata del suicidio per amore, del giovane sognatore che rinuncia alla propria vita perché non trova nella società posto per il suo concetto sublimato di amore, faceva certamente ancora molta presa sul pubblico. Certo, molta presa, ma alla prova dei fatti l’Ottocento inseriva elementi suoi propri, peculiari, che non potevano trovarsi nel romanzo settecentesco e in nessun altro evento ciò è più chiaro che non nei Fatti di Mayerling del 1889.

Gli eventi sono noti: il trentenne arciduca Rodolfo d’Asburgo, unico figlio maschio dell’imperatore Francesco Giuseppe e erede al trono imperiale d’Austria-Ungheria, si trova nella residenza di caccia imperiale a Mayerling, a circa 30 km dalla capitale. La mattina nevosa del 30 gennaio 1889, il servitore di Rodolfo, un certo Loschek e il compagno di caccia dell’arciduca, conte Hoyos, sono preoccupati dal fatto che Rodolfo non apre la porta della sua stanza. Loschek spacca il pannello di vetro della porta e riesce a aprirla dall’interno. Lo spettacolo che Loschek e Hoyos si trovano davanti agli occhi è orrendo: sul letto dell’arciduca giace, pallida e rigida, la baronessina Maria Vetsera, diciassettenne amante di Rodolfo; quest’ultimo è accasciato al suo fianco, sangue a macchiargli il volto. Terrificati Loschek e Hoyos si fanno subito prendere dal panico e dai dubbi: cosa era successo? Come comunicare la morte del figlio a Francesco Giuseppe e a Sissi? Un nervosissimo Hoyos si allontana subito e corre a Vienna per informare la corte dell’accaduto.

Un cerimoniale quasi sacrale, intriso di rispetto, di pietà e di paura, viene messo in atto a corte e la notizia infine raggiunge l’imperatrice e Francesco Giuseppe. In breve la cosa è di dominio pubblico e la versione ufficiale iniziale, cioè che Rodolfo fosse morto per un attacco cardiaco, crolla e la verità comincia a essere discussa in tutta Europa: l’arciduca Rodolfo, rifugiatosi nella tenuta di Mayerling si è suicidato insieme alla sua giovanissima amante, la baronessina Vetsera. Ma perché? Si trattava di un suicidio romantico, dovuto all’opposizione di Francesco Giuseppe alla relazione tra Rodolfo, trentenne e sposato con Stefania del Belgio, e la Vetsera? E poi, era stato un patto suicida, o Rodolfo aveva assassinato prima la Vetsera e poi si era ucciso? Ma era poi sicuro si fosse trattato di suicidio? In fondo, si diceva, la morte di Rodolfo apriva una crisi dinastica nell’impero che era la spina dorsale dell’ordine centro-europeo. In fondo, altri aggiungevano, il liberale Rodolfo era inviso a Bismarck. La ridda di ipotesi sui fatti di Mayerling non cessa ancora oggi e ha portato a una serie di avvenimenti tra il comico e il tragico, tra questi il più eclatante fu la riesumazione clandestina e il furto nottetempo dei resti della Vetsera, avvenuto negli anni ’90 da parte di un certo Helmut Flatzelsteiner che arrangiò un esame forense privato per approdare sostanzialmente a nulla. 

Ancora oggi le motivazioni del suicidio non appaiono chiare: forse un tentativo di aborto clandestino finito male, con Rodolfo che decide di uccidersi per i sensi di colpa? Questa spiegazione, un tempo abbastanza in voga, è stata dismessa dagli storici perché strideva dal punto di vista della cronologia degli eventi. Ma allora, quale fu la reale motivazione? Dobbiamo rassegnarci: non sapremo mai quello che avvenne realmente nella notte tra il 29 e il 30 gennaio in quella buia stanza di Mayerling. Una cosa è certa: le lettere di addio di Rodolfo e Maria Vetsera confermano che entrambi avevano coscientemente scelto di togliersi la vita. Ma gli appassionati hanno troppo tempo concentrato la loro attenzione esclusiva sul fatto in sé, perdendo di vista il quadro più generale che, forse, permette di capire qualcosa di più. Mayerling è stato per troppo tempo prigioniero di Mayerling. Proviamo, invece, a guardare le persone dietro gli eventi: chi erano l’arciduca Rodolfo e Maria Vetsera?
Rodolfo era sostanzialmente un figlio del suo tempo, figlio delle contraddizioni della corte viennese: un Asburgo certamente sensibile al suo lignaggio, ma più liberale del padre. 

Attento alle esigenze di rinnovamento che gran parte dell’impero chiedeva, il liberalismo ha in lui ancora qualcosa di adolescenziale: a tratti la sincera convinzione politica si mischia con la posa tenuta per fare un dispetto al padre, per liberarsi dalla sua oppressiva tutela. Il matrimonio con Stefania, figlia di Leopoldo del Belgio, fu infelice: dopo la nascita della loro unica figlia, i rapporti si incrinarono ulteriormente e Rodolfo trovò nelle relazioni extraconiugali, nell’alcool e nella morfina il modo per evadere un ambiente, quello di corte, che evidentemente non gli si confaceva più. Avendo contratto una malattia venerea, Rodolfo la trasmise alla moglie rendendola sterile cosa che, mischiata a alcool, morfina e infelicità coniugale acuì la depressione di cui doveva soffrire l’arciduca. La personalità di Rodolfo viene così a delinearsi, un uomo sensibile, con tratti adolescenziali mischiati a depressione e senso di soffocamento dovuto all’autorità paterna: un mix pericoloso. E’ probabile che Rodolfo, il quale allora trovava conforto specialmente nelle sue amanti, abbia iniziato a pensare seriamente al suicidio. Inizialmente propose il patto suicida a Mizzi Kaspar, una famosa attrice, sua amante storica, che rifiutò e che provò ad allertare le autorità circa queste tendenze di Rodolfo: ma vuoi per la facilità con cui ai tempi si minacciava il suicidio senza che poi la minaccia venisse realmente messa in atto, vuoi per la dubbia reputazione della Kaspar in campo morale (morirà di sifilide) non ci furono misure prese a riguardo. E’ probabile che Rodolfo, cercando una compagna di morte, abbia quindi in qualche modo coinvolto la giovane e innamorata baronessina Vetsera nel patto suicida. La Vetsera, emotiva e con una autentica venerazione nei confronti di Rodolfo, non avrebbe dunque esitato a scegliere di morire con lui, come attesta d’altronde la sua lettera d’addio, scoperta solo recentemente.


Torniamo quindi a Mayerling. E al Werther. Quanto fascino esercitava ancora il suicidio per amore, ma quanto diversa era la sua versione ottocentesca da quella goethiana! In Mayerling si riassume tutta la Belle époque, col suo romanticismo e la sua grandeur, con le sue soluzioni estreme e le sue passioni incontrollate; ma accanto alla grandeur, la fine Ottocento era anche decadenza morale e tristezza per un mondo che stava scomparendo, come traluce dagli eventi di Mayerling, dove insieme alle forti passioni c’è la sifilide, c’è la paura, ci sono due cadaveri giacenti nel buio di una stanza in una fredda mattina di gennaio.
La tragedia di Mayerling impattò duramente sulla corte asburgica e sulla diplomazia europea. Privo di un erede diretto, Francesco Giuseppe nominò suo nipote Francesco Ferdinando erede al trono d’Austria. Personalità più concreta e coi piedi per terra di Rodolfo, Francesco Ferdinando non si rivelò per questo meno controverso del defunto cugino. Anzi, proprio perché le sue idee politiche avevano basi decisamente più solide, Francesco Ferdinando era ancora più temuto di Rodolfo da alcuni settori della corte viennese. Nel supportare un maggiore centralismo politico al quale si sarebbe però dovuta associare una maggiore autonomia dei popoli sotto la Corona asburgica, Francesco Ferdinando si proponeva come un modernizzatore dell’Austria-Ungheria, nell’ottica di alcune riforme che avrebbero perpetuato ancora a lungo il dominio asburgico sull’Europa centrale. Con la successione dinastica austriaca di nuovo ristabilita, l’Europa poteva ancora chiudere gli occhi felice e continuare a sognare gli splendori della Belle époque.
I colpi assassini della rivoltella di Gavrilo Princip la svegliarono una volta per sempre.