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venerdì 4 giugno 2021

1914 - GLI ULTIMI GIORNI PRIMA DELLA GUERRA (a seguire QUANDO LA STORIA...)

828_1914 -GLI ULTIMI GIORNI PRIMA DELLA GUERRA (1914 - Die Letzten Tage vor dem Weltbrand)Germania, 1931; Regia di Richard Oswald.

Con la crisi economica mondiale del 1929 che era arrivata a sommarsi ad una situazione sociale già disastrosa, la Germania della Repubblica di Weimar doveva cercare in qualche modo di calmare gli animi. Uno dei problemi sul tavolo era trovare, agli occhi della pubblica opinione, le giustificazioni per la sciagurata scelta fatta nel 1914 di entrare in guerra e le cui conseguenze economiche erano ancora devastanti. Le tensioni interne erano notevoli e il governo debole della Repubblica doveva barcamenarsi tra differenti forze: questo tentativo di estremo equilibrismo lo possiamo notare anche in 1914, die letzten Tage vor dem Weltbrand un film di Richard Oswald che pare assumersi l’incarico di ridistribuire le colpe dello scoppio della guerra. Ai tedeschi, avendo perso il conflitto, ai danni legati alle battaglie e agli scontri, si aggiunsero pesanti sanzioni oltre al torto morale di aver provocato la guerra. Naturalmente le ostilità erano state aperte dagli austroungarici, che però erano fortemente imparentati coi tedeschi oltre che alleati e, in un primo momento, quasi spronati da questi all’azione (il famoso assegno in bianco). Inoltre, durante il conflitto, la propaganda bellica tedesca non si era mai tirata indietro. Ultimo aspetto, ma certamente non meno importante, la guerra l’impero Tedesco l’aveva persa e quindi era normale che dovesse subire le ragioni dei vincitori. Il problema era che, a fronte di una situazione economica tragica, per la classe dirigente aver trascinato il paese in una guerra (e averla persa) diventava una colpa insostenibile a fronte della disperazione della popolazione. Se sulla sconfitta si poteva fare poco (a meno di non cercare la rivincita come farà Hitler in seguito) si poteva però lavorare sulle responsabilità. La difficoltà stava nel non poter scaricare la colpa genericamente sul nemico, costituito da paesi con i quali si stava cercando di ristabilire rapporti di pacifica convivenza. 


Al netto delle reali responsabilità, che forse andavano divise tra più soggetti coinvolti, l’unico stato che poteva essere incolpato senza troppi scrupoli, forse più che per motivazioni storiche o tradizioni, per convenienze commerciali e lontananza politica e geografica, era la Russia, al tempo già divenuta Unione Sovietica. Il compito che si pose Oswald in 1914, die letzten Tage vor dem Weltbrand fu quindi in sostanza mostrare come la responsabilità del conflitto non furono prevalentemente di matrice tedesca ma siano maggiormente distribuite; anzi, appunto convogliate in un preciso altrove. Lo stile dell’opera è semidocumentaristico, benché la pellicola sia tutto materiale filmico girato con attori nei ruoli dei vari capi di governo: in ogni caso di azione, a parte un paio di omicidi, peraltro simbolicamente cruciali, non c’è traccia. Il film è un susseguirsi di colloqui nelle varie stanze dei bottoni del tempo, risultando anche un po’ noioso nei suoi estenuanti temporeggiamenti, almeno ai fini del mero intrattenimento. 

Nell’incipit, per la verità un po’ estraneo al resto della pellicola, prende la parola il dottor Eugen Fischer-Baling, uno storico dell’epoca, che introduce già la prospettiva del lungometraggio. Dopo una sequenza con l’attentato di Sarajevo, si parte con il giro nei salotti del potere, cominciando con Vienna e Francesco Giuseppe (Eugenio Klopfer), abbastanza accigliato alla notizia dell’uccisione del nipote Francesco Ferdinando, l’erede al trono. Nella ricostruzione degli interni c’è una delle rare forme di operazione cinematografica presenti nell’opera, ovvero l’utilizzo ai fini narrativi della scenografia, unica alternativa allo smodato uso dei dialoghi nella pellicola. Va detto, a parziale giustificazione di Oswald e dei suoi collaboratori, che si era all’alba del cinema sonoro e i nostri, avendo un testo che verteva prevalentemente sulle relazioni diplomatiche, si buttarono a capofitto sul parlato, evitando, ad esempio, l’utilizzo della musica di accompagnamento. In ogni caso la sala dell’imperatore asburgico è magniloquente e riccamente decorata. Se c’è questa attenzione per l’eccellenza austriaca, per il kaiser tedesco il regista opera in modo completamente differente: forse per eccesso di riverenza, in un clima teso come quello della Germania di quegli anni, Guglielmo II non compare mai nella pellicola. Si può anche ipotizzare che la feroce censura abbia imposto questa soluzione, in modo simile a quanto si pretenderà per von Hildenburg in Tanneneberg (1932, regia Heinz Paul), quasi cancellato dal film. 

Ad orchestrare i piani dell’Impero tedesco è quindi chiamato il cancelliere Bethmann-Hollweg (Albert Bassermann), un signore distinto ed elegante ma sobriamente vestito, come del resto appare arredato il suo studio. Largo spazio viene dato alla sponda russa della trattativa diplomatica: c’è l’ambiente a volte un po’ oscuro dove opera il ministro degli esteri Sazanow (Oscar Homolka) e c’è lo zar Nicola II (Reinhold Schünzel) che vagabonda col suo sigaro tra il suo salone elegante, gli incontri coi suoi collaboratori e il salotto della zarina (Lucie Höflich). Lo zar sembra pensieroso a tratti anche quasi in preda al panico: Sazanow con altri ministri e soprattutto con l’appoggio del granduca Nicolaj (Ferdinand Hart), forte della sua statuaria prestanza, hanno buon gioco nel fargli pressione per reagire all’azione austriaca. Sebbene in Unione Sovietica, nel 1931, è certo che la memoria dello zar non dovesse essere presa particolarmente a cuore, l’attenzione di Oswald nell’attribuire le giuste responsabilità, senza esagerare, insomma, è avvertibile anche in questa descrizione. 

Sono quindi state in prevalenza le manovre diplomatiche e di mobilitazione russe a scatenare il conflitto, come si evince dal quadro generale, ma furono frutto di una sorta di cospirazione interna e non propriamente volute dallo zar, che era il vero rappresentante della nazione. Francesi e inglesi, in via ufficiale, furono invece ben poco coinvolti. Nei confronti della Francia c’è addirittura una sorta di ossequio, in quanto nel giro di collegamenti (che in sostanza è 1914) è coinvolto, insieme a questi illustri personaggi, un uomo che non è di governo, Jean Jaurès (Heinrich George). Giornalista, scrittore e uomo politico fortemente pacifista, Jaurès credeva in una soluzione diplomatica alla crisi. Il film, simbolicamente, termina così con la seconda scena d’azione dell’intero lungometraggio: l’assassino di Juarès in un ristorante di Parigi. Pensandoci bene sottotraccia si può cogliere un velenoso appunto del regista ai rivali storici transalpini. Sebbene Oswald abbia sostanzialmente incolpato i russi a discapito di inglesi e francesi (oltre che tedeschi), forse non è un caso che il film si chiuda con un atto violento da parte di un francese, Raoul Villain, fautore dell’ostilità franco tedesca. Il film di Oswald è, in concreto, una lunga sequela di colloqui diplomatici condita da due atti violenti la cui estraneità al resto del testo non può che accomunarli. E la figura di Villain assume quindi un ruolo del tutto simile a quello riconosciuto di Gavrilo Princip.

Al termine della galleria fotografica del film, QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
PRELUDIO: IL CASO REDL, LA CRISI DI LUGLIO, LE DICHIARAZIONI DI GUERRA




Appendice storica.
QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

PRELUDIO: IL CASO REDL, LA CRISI DI LUGLIO, LE DICHIARAZIONI DI GUERRA

-25 MAGGIO 1913, VIENNA: Alfred Redl, colonnello dell’esercito austro-ungarico, viene scoperto come spia al servizio dei russi dopo una serie di incredibili coincidenze, ed è costretto al suicidio. Redl ha comunque avuto, negli anni, il tempo di rivelare ai russi tutti i piani di guerra dell’esercito asburgico.

-28 GIUGNO 1914, SARAJEVO: Nonostante ripetuti avvertimenti sulla probabilità di un attentato, l’arciduca Francesco Ferdinando si reca a Sarajevo, in Bosnia, dove verrà ucciso in un attentato insieme alla moglie.

-5/6 LUGLIO 1914, BERLINO: missione del conte Hoyos, inviato del ministro degli esteri austriaco, a Berlino per saggiare l’appoggio della Germania in caso di guerra contro la Serbia. Dopo una serie di tentennamenti, il ministero degli Esteri tedesco e lo stesso imperatore Guglielmo II, danno l’appoggio della Germania ad una guerra tra Austria e Serbia, incoraggiando anzi gli austriaci a far fuori la Serbia il prima possibile mettendo l’Europa di fronte al fatto compiuto. Questo appoggio diventerà noto come l’assegno in bianco

-7 LUGLIO 1914, VIENNA: Nonostante le raccomandazioni tedesche per una celere aggressione alla Serbia, che avrebbe privato la Russia -alleata dei serbi- del tempo fisico per intervenire, la complicata politica austroungarica frena gli eventi: il conte Tisza, primo ministro ungherese e fortemente contrario a una guerra e ad una annessione della Serbia (che avrebbe aumentato l’elemento slavo nell’impero a discapito di quello ungherese) protesta veementemente contro la proposta di un ultimatum durissimo da consegnare ai serbi. La decisione di consegnare l’ultimatum viene comunque posposta al 23 luglio, data in cui il presidente e il primo ministro francese sarebbero stati in viaggio diplomatico per San Pietroburgo


-14 LUGLIO 1914, VIENNA: Il capo di stato maggiore austriaco Conrad von Hotzendorf, uno dei più accesi fautori della guerra, ora frena dicendo che l’esercito non sarebbe comunque pronto prima del 25, contribuendo alla decisione di posticipare la consegna dell’ultimatum. L’atmosfera europea si fa più distesa e la possibilità della guerra sembra allontanarsi.

-23 LUGLIO, BELGRADO: La Serbia riceve l’ultimatum austriaco, tempo 48 ore per rispondere. Il documento, durissimo, è accolto con scetticismo da gran parte  dei governi europei (l’onda di sdegno per l’attentato di Sarajevo si è attenuata a quasi un mese di distanza). La Francia non può reagire con presidente e primo ministro in viaggio.

-25 LUGLIO, BELGRADO-VIENNA: La Serbia piega la testa e accetta praticamente tutte le richieste austriache tranne quella che avrebbe previsto (di fatto) la sospensione della sovranità nazionale. L’Austria-Ungheria, non si reputa comunque soddisfatta e rompe le relazioni diplomatiche.

-28 LUGLIO: VIENNA-BERLINO: Guerra dichiarata tra Austria-Ungheria e Serbia: i pontoni sul Danubio aprono il fuoco su Belgrado. Il Kaiser suggerisce agli austriaci di invadere il più presto possibile la Serbia e di fermarsi a Belgrado per non dare adito alla Russia di intervenire.

-28  LUGLIO, SAN PIETROBURGO: Lo Zar Nicola II firma la mobilitazione dei distretti di Odessa, Kiev, Mosca e Kazan’ (mobilitazione parziale contro l'Austria). 

-29 LUGLIO, BERLINO: Costernazione di fronte alla mobilitazione russa, e all’atmosfera europea generalmente ostile alle Potenze Centrali. Il Kaiser e il suo Cancelliere Bethmann-Hollweg implorano con un telegramma dai toni vaghi Vienna di non trascinare tutti in una conflagrazione europea.

-29 LUGLIO, SAN PIETROBURGO: Lo Zar esita a ordinare la mobilitazione generale, nonostante la pressione dei circoli militari. Dopo una serie di telegrammi amichevoli col Kaiser decide di non ricorrere alla mobilitazione. Ma avendo già firmato la mobilitazione parziale il giorno prima, Nicola ha avviato una reazione a catena: nessuna delle potenze vuole essere pescata in ritardo dai preparativi avversari e la mobilitazione parziale russa provoca la pre-mobilitazione tedesca.

-30 LUGLIO, SAN PIETROBURGO: La pre-mobilitazione tedesca spaventa i militari russi che fanno pressioni impossibili sullo Zar per formare la mobilitazione generale, cosa che avviene alle 16 ora locale.

-1 AGOSTO: La mobilitazione generale russa, mette in moto quella tedesca e la conseguente dichiarazione di guerra. La Francia mobilita a sua volta l’esercito.

-3 AGOSTO: La Germania dichiara guerra alla Francia. Annuncio neutralità italiana

-4 AGOSTO: La Gran Bretagna dichiara guerra alla Germania

-6 AGOSTO: L'Austria-Ungheria dichiara guerra alla Russia.

giovedì 3 giugno 2021

HO DIFESO LA GIOVANE BOSNIA

827_HO DIFESO LA GIOVANE BOSNIA (Branio Sam Mladu Bosnu). Serbia, 2014; Regia di Srdjan Koljevic. 

Appassionante miniserie televisiva in cinque capitoli, Branio Sam Mladu Bosnu (Ho difeso la Giovane Bosnia, traduzione letterale) ripercorre principalmente le fasi del processo a carico non solo di Gavrilo Princip (Milos Djurovic) ma di 25 sospettati di essere in qualche modo coinvolti con l’attentato all’Arciduca Francesco Ferdinando, il celebre casus belli della Prima Guerra Mondiale. Naturalmente sia il giudice Kurinaldi (Dragan Petrovic-Pele) che il regista della serie, Srdjan Koljevic, concentrano la loro attenzione sui principali attori dei tragici fatti. Il protagonista del film non è però tra questi: Rudolf Zistler (Nikola Rakocevic) è infatti solamente l’avvocato (le manca ancora l’abilitazione, per la verità) di Veljko Čubrilović (Vuk Kostić) e del fratello Vaso (Vucic Perovic). La posizione di Veljko Čubrilović sembra meno grave di quella di altri, non essendo coinvolto nell’esecuzione materiale dell’assassino dell’arciduca ma non secondo le leggi austroungariche del tempo. A differenza dei principali artefici dell’attentato, Veljko era un adulto, addirittura un insegnante quando gli altri non erano che studenti: e visto che nell’Impero non si potevano condannare a morte individui in età minore di 21 anni, ne consegue che i maggiorenni coinvolti rischiavano quasi una sorta di aggravante per compensazione. In effetti si sa che Veljko, unitamente ad altri due condannati tra le persone meno giovani coinvolte nelle indagini, venne impiccato il 3 febbraio 1915. Ma per Zistler non fu l’unica sconfitta nel processo: la sua condotta troppo scrupolosa, quasi appassionata, non venne gradita dal giudice Kurinaldi e neppure dal magistrato Leo Pfefer (Nebojša Glogovac), che pure lo riteneva un suo pupillo. Zistler si considerava un fedele suddito austriaco e quindi si era pensato che adottasse una difesa d’ufficio accomodante nei confronti della linea di condotta già decisa preventivamente dalla magistratura imperiale. Anzi, questo compito meramente formale sarebbe servito a Zistler per accelerare la propria carriera, come detto giusto agli inizi. Purtroppo l’avvocato aveva preso sul serio il suo lavoro ed erano sin da subito state frequenti le frizioni col giudice Kurinaldi, deciso a far valere le ragioni di Vienna, che voleva semplicemente la conferma processuale alla già stabilita a priori responsabilità serba. Il racconto filmico si snoda quindi tra le fasi preliminari e le sedute del processo tenendo, tutto sommato in modo abbastanza scoperto e prevedibile, il punto di vista slavo sulla questione. 

Significativi, in quest’ottica, due aspetti che danno l’idea di una visione comunque parziale degli eventi: mentre si fa largo riferimento alla Giovane Bosnia (sin dal titolo dell’opera) di mazziniana ispirazione, non si parla mai della Mano nera, un’organizzazione segreta che complottava anch’essa per liberare gli slavi dal giogo imperiale. Senza addentrarci nei dettagli storici, sembra probabile che mettere in scena imberbi irredentisti affiliati alla Giovane Bosnia faccia un’impressione migliore che vederli aderire ad una società segreta dal nome sinistro come la Mano Nera. 

L’altro aspetto che denota una certa partigianeria, anche comprensibile, sia chiaro, nel pur avvincente racconto di Srdjan Koljevic, è la cornice narrativa: Branio Sam Mladu Bosnu è infatti visto totalmente in flashback. L’opera si apre, infatti, con le scene storiche dei nazisti che depongono la targa dedicata a Princip sul luogo dell’attentato; ancora tedeschi che occupano Sarajevo. La successiva irruzione a casa Zistler e l’arresto dell’avvocato, danno la possibilità al legale di rammentare i drammatici fatti occorsi tanto tempo prima. In un sotterraneo, insieme ad altri in attesa come lui di essere deportati in qualche campo di prigionia, Zistler riflette su come quello che gli stia accadendo sia probabilmente una vendetta per aver difeso gli attentatori di un imperatore di lingua tedesca. 

Non è ebreo e nemmeno è comunista, ne altro che giustifichi il suo arresto da parte nazista, infatti. C’è quindi un parallelo tra i due periodi storici, quello della cornice narrativa e quello del racconto nel flashback: l’occupazione di matrice tedesca in Bosnia. Che è innegabile, questo va riconosciuto; la perplessità, quella che fa sembrare quest’operazione un po’ di comodo, è che non convince totalmente il fatto di vedere la cosa in ottica pan-slava. Cioè, convincerebbe anche, ma a patto di ricordare allora anche i tragici giorni più recenti, dove ad insanguinare Sarajevo saranno le battaglie tra fratelli slavi. Perché il tema che viene portato avanti nel film, attraverso le parole degli indiziati a processo, è che la Serbia cercasse di essere il Piemonte slavo, per unificare tutti gli slavi del sud in uno stato chiamato Jugoslavia. E’ questo che viene contrapposto all’occupazione tedesca o austriaca: non ha caso la cornice è ambientata nel 1941; la Storia però dirà che, se non proprio un falso mito, si trattò di un mito adottato con una certa superficialità. Sono passati ormai trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, un evento storico che ha stappato la situazione geopolitica europea: trent’anni anche più travagliati del passato, per i popoli slavi dell’area della ex Jugoslavia, che dimostrano che il giogo tedesco era certamente un problema, ma non propriamente in ottica anti-slava. Come invece si potrebbe dedurre vedendo Branio Sam Mladu Bosnu, permeato com’è del rancore verso l’occupazione tedesca a cui si contrappone la fierezza e la volontà degli slavi del sud di veder sorgere una propria nazione. 


C’è, per la verità, qualche contrasto anche tra gli slavi del film, in particolare tra due avvocati degli accusati dell’attentato; i due legali approfittano dell’arringa difensiva finale per fare una sorta di comizio politico, in contrasto tra loro e per niente vantaggioso per i propri clienti. E’ opportuno notare come i due avvocati in questione siano croati, mentre il film è una produzione serba; e se abbiamo memoria di quello che è successo in questi ultimi citati trent’anni, il fatto potrà forse dirci qualcosa. Sottigliezze, sia chiaro, all’interno di un testo come detto avvincente. Ma vanno tenute a mente, se ci si vuole fare un’idea su come sia possibile, al netto delle questioni storiche, che Princip sia considerato tutt’ora un eroe nazionale in Serbia e un terrorista in Austria. La definizione della personalità dell’esecutore materiale dell’assassinio dell’Arciduca che esce dal film di Srdjan Koljevic è, in effetti, molto rispettosa, quasi deferente. Il Gavrilo Princip del film è un rivoluzionario fiero, coraggioso, serio e consapevole della gravità delle sue azioni, di cui riconosce le proprie responsabilità. Da buon anarchico, l’uomo che scagliò la bomba Nedeljko Čabrinović (Marko Grabež) è al contrario un tipo esuberante quanto Princip è ombroso. 

Stupisce il suo commento nel finale, quando dice di essersi quasi commosso nell’udire la testimonianza che citava le ultime parole di Francesco Ferdinando alla moglie morente. L’arciduca, colpito a morte come la moglie, l’aveva pregata di non morire, di continuare a vivere per i loro figlioletti; solo allora Čabrinović si era reso conto che Francesco Ferdinando era un padre, un uomo, oltre che l’erede all’odiato trono asburgico. Più taciturno il giovanissimo Trifko Grabež (Marko Pablović), per quanto anch’egli un tipo da prendere con le molle. Più sfumate le altre figure, com’era anche prevedibile. Alla bella moglie di Veljko, Jovanka (Vaja Dujovic) è affidato il compito di introdurre una flebile traccia sentimentale. In parte legata al carteggio col marito, di cui si incarica clandestinamente Zistler nei colloqui col suo cliente, mentre è solo suggerita un’intesa particolare tra Jovanka e l’avvocato. Non succederà però niente di ciò, nonostante lo stesso Veljko, consapevole della condanna a morte che lo attendeva, avesse in pratica spronato entrambi a prendersi cura reciprocamente. Questi aspetti sottolineano l’attenzione in regia di Koljevic perché sono semplici depistaggi narrativi: ogni storia necessità di una dose di sentimento, per prendere corpo e distrarre, in un certo senso, lo spettatore. Perché poi il colpo di scena è strettamente inerente al tema trattato, il processo agli irredentisti della Giovane Bosnia, i colpevoli dell’Attentato di Sarajevo. Le posizioni si delineano, nel corso del film, chiaramente: l’Impero vuole la conferma processuale della responsabilità serba. Il giudice Kurinaldi tratta il duplice omicidio non come un semplice delitto, ma come un attentato alla sovranità imperiale. La matrice politica del gesto comporta fortissime aggravanti per tutti i coinvolti, non andando a concentrarsi solo con gli esecutori materiali. Nel corso del dibattimento Zistler cerca invece attenuanti. 

Prova a dimostrare che Veljko sia stato minacciato dagli studenti e, avendo moglie e una figlia piccola, abbia finito per cedere alle pressione dei giovani. Inoltre, più in generale, cerca di decontestualizzare l’attentato dai moti irredentisti, auspicando che venga trattato come un semplice fatto in sé stesso. L’asso nella manica Zistler lo cava però fuori nell’arringa finale. Il capo di accusa peggiore nei confronti degli imputati era alto tradimento: come detto reato di per sé stesso anche più grave dell’omicidio. Si contestava a Princip e compagni di aver tradito l’Impero, attentando alla vita dello stesso, più che aver assassinato la coppia reale.  Il giovane avvocato accettava l’accusa di omicidio e complicità nello stesso, per le uccisioni dell’arciduca e consorte, ma aveva trovato il cavillo per contestare l’alto tradimento. 

In seguito agli Accordi di Berlino del 1878, l’Impero Austroungarico aveva occupato la Bosnja e Erzegovina; successivamente, nel 1908, questi territori erano stati annessi all’Impero. Da un punto di vista legale doveva però essere completata la ratifica istituzionale che andava approvata da parte di entrambi i regni che costituivano la monarchia, quello austriaco ma anche quello ungherese. Un passaggio non ancora completamente compiuto e quindi, se la sottomissione della Bosnja e Erzegovina era un dato di fatto, non lo era però dal punto di vista legale. Gli austroungarici dominavano con il diritto di forza ma non con quello legale. E di conseguenza, non si poteva accusare gli irredentisti della Giovane Bosnia di alto tradimento; almeno non da un punto di vista legale, che era quello che era tenuto a fare un processo in un tribunale. Le parole dell’avvocato lasciano sbigottiti Kurinaldi e la pubblica accusa, in primis un sempre più sconsolato Pfeffer, che Zistler lo aveva pure raccomandato. Il giovane avvocato conclude citando il Professor Finger che, a Vienna, aveva appunto esposto questa tesi. C’è nervosismo ma manca ancora da sentire l’arringa difensiva di Malek (Rale Milenkovic), ultimo avvocato chiamato a parlare ma talmente intimidito che perlomeno da lui non sono attesi colpi a sorpresa. In effetti l’anziano legale comincia in modo dimesso, confermando l’opinione di uomo mite e timoroso che aveva dato fin lì. Poi non solo si accoda alle parole di Zistler, prendendo in contropiede la platea ma suggella il tutto con un colpo da vecchio lupo delle aule di tribunale che spiazza tutti, spettatori compresi. 

Dalla borsa tira fuori il libro del Professor Finger, Das Stafrecht, volume 2, e lo apre a pagina 768 dove trova conferma la tesi esposta da Zistler. Nemmeno il suo giovane collega riesce a spiegarsi come Malek, che sembrava totalmente asservito ad una sentenza di comodo, potesse aver avuto la sua stessa intuizione. Tuttavia l’unico risultato inatteso del processo sarà l’esilio per Zistler, mentre Malek progettava già di andarsene dalla Bosnia. I congiurati verranno tutti condannati; tra di loro, i tre adulti verranno impiccati, compreso, come detto, Veljko Čubrilović, l’imputato a cui aveva prestato attenzione il protagonista della nostra storia. Il finale è mesto, con una suggestiva scena notturna di decine di uomini armati di fiaccole ai lati del treno che porterà i prigionieri al campo di detenzione. C’è ancora tempo per le classiche didascalie che, in questi casi, riassumono il destino dei protagonisti della vicenda. Curiosa la sorte di Zistler: una volta ritornato in Bosnia, verrà arrestato nel 1941 dai nazisti, come visto nelle scene dell’inizio. Poi, nel 1950, sarà la volta dei comunisti: in questa occasione il reato contestatogli sarà il ruolo legale in un caso di espropriazione di patrimoni privati. Come dire, anche in Bosnia per i governanti la legge è sempre un intralcio. Vorremmo poter dire di non conoscere il problema.     

Vaja Dujovic


mercoledì 2 giugno 2021

L'ATTENTATO - SARAJEVO 1914 (a seguire QUANDO LA STORIA... )

826_L'ATTENTATO - SARAJEVO 1914 (Das Attentat - Sarajevo 1914). Austria, Germania, 2014; Regia di Andreas Prochaska. 

Un film su un fatto storico colpisce l’immaginario degli spettatori soprattutto per il racconto dell’episodio in questione, in particolar modo se questo é di grande portata. E ce ne sono pochi di paragonabili, nel corso dell’intera Storia dell’umanità, all’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria. L’attentato, avvenuto nel 1914 a Sarajevo, in Bosnia-Erzegovina, è considerato la scintilla che fece scoppiare la Prima Guerra Mondiale. E già questo è un carico mica da ridire; ufficialmente la responsabilità fu fatta ricadere su movimenti di matrice serba. Certo, lo stesso L’attentato – Sarajevo 1914, film austriaco per la televisione di Andreas Prochaska, lascia intendere che l’uccisione dell’erede al trono degli Asburgo sia stato un pretesto quasi auspicato dagli stessi ambienti di Vienna, che non vedevano di buon occhio le idee politiche dell’aspirante sovrano. Il protagonista del film, il magistrato Leo Pfeiffer (Florian Teichtmeister), è nominato a capo dell’inchiesta che dovrà far luce sull’attentato. Per la verità l’autore materiale dell’assassino è stato catturato, è Gavrilo Princip (Eugen Knecht) e con lui è stato arrestato il complice Nedeljko Čabrinović (Mateusz Dopieralski), ma sembrano poco più che ragazzini. E Pfeiffer è un giudice attento e scrupoloso e troppi pezzi del puzzle della ricostruzione già prontamente imbastita non combaciano: la questione serba era nota ma, allora, perché l’erede al trono si era così esposto? Perché si era reso pubblico il tragitto? Perché, una volta che Čabrinović aveva fallito il primo attentato, il corteo aveva riattraversato la città? 

E perché invece di una strada più scorrevole si era scelto la via dei vicoli, per di più sbagliando una svolta e arrivando a fermare l’auto con a bordo Francesco Ferdinando e consorte, proprio davanti a Princip? Ma a Vienna non interessano affatto tutti questi dettagli; certo, Pfeiffer, deve indagare, ma sbrigandosi, e deve piuttosto firmare il rapporto che riveli la mano serba dietro l’attentato dando il via libera alla reazione austriaca. Che è già pianificata: l’Austria ha in mente di scatenare una guerra per conquistare la Serbia senza dare il tempo alla Russia di intervenire in soccorso al paese slavo. Tira quindi una brutta aria per i serbo-bosniaci, a Sarajevo: i Jeftanovic presto dovranno lasciare la loro sontuosa residenza. Stojan Jeftanovic (Juraj Kukura) sostiene che il piano austriaco sia condiviso dalla Germania e l’obiettivo sia una ferrovia che unisca Berlino alla Turchia e, guarda caso, la Serbia è proprio sulla strada. Sua figlia Marija (Melika Foroutan) pur se preoccupata, trova il tempo per allietare le indagini di Pfeiffer, tingendo di rosa una trama che diversamente sarebbe rimasta davvero troppo plumbea. Ma, in ogni caso, in un film storico il destino è già scritto e sappiamo bene che le cose andranno come peggio non si potrebbe. Ma tutto questo è legato, con un certo grado di fedeltà, agli avvenimenti storici; il che è anche uno degli elementi di spicco del film. 


La ricostruzione, gli scenari, il vestiario, soprattutto pensando che si tratta di una produzione televisiva, alimentando una rappresentazione fortemente evocativa sono un altro fiore all’occhiello de L’attentato – Sarajevo 1914. Ma l’aspetto migliore del film è un altro; non è nei fatti narrati quindi, e nemmeno nella ricostruzione scenica. No, la cosa che sferza maggiormente lo spettatore sono gli sguardi. Pfeiffer, che si sente legittimamente austriaco in quanto cittadino dell’Impero, è ebreo. Ogni volta che passa accanto ad un militare austriaco, si distingue chiaramente lo sguardo di questi che lo osserva, non a lungo, solo un’occhiata o poco più, ma implacabile. Pfeiffer interroga gli attentatori; il poliziotto austriaco distoglie lo sguardo dall’irredentista sotto torchio e lo posa sul magistrato. 

Lo soppesa per un po’. Solo poi torna a guardare se l’attentatore dà segni di cedimenti o meglio decida di rivelare i mandanti serbi. Pfeiffer arriva alla stazione di polizia, il piantone lo segue con lo sguardo; Pfeiffer passa vicino ad una sentinella, questa gli getta una rapida occhiata e, anche se la ripresa è in campo lungo, si fa comunque in tempo a notare. Sempre. In modo ossessivo; uno sguardo dall’alto verso il basso, essendo i soldati austriaci tutti marcantoni e il magistrato di statura media. In ogni caso è impossibile non avvertire l’onnipresente malcelato disprezzo che segue Pfeiffer, in ogni suo spostamento. Uno sguardo che sembra quasi rivelare un malvagio rammarico premonitore: ora è il turno degli slavi, ma ci sarà il tempo anche per gli ebrei. 

Al termine della galleria fotografica del film, QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
LA GERMANIA E LE ORIGINI DELLA GRANDE GUERRA








Melika Foroutan



Appendice storica.

QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

LA GERMANIA E LE ORIGINI DELLA GRANDE GUERRA

Mentre a Berlino Philipp Scheidemann dal Reichstag proclamava, a mezzogiorno del 9 novembre 1918, la nascita della repubblica tedesca, il Kaiser Guglielmo II a Spa, dopo aver invano tentato di assicurarsi per l’ultima volta la fedeltà dei suoi ufficiali, si dirigeva in esilio: gli Hoenzollern cessavano così di esistere come casa regnante del Brandeburgo-Prussia e con loro crollava il secondo Reich, quella costruzione tanto recente, ma che aveva radici storiche lontane che datavano all’epoca in cui la piccola Prussia si era affacciata al panorama della grande politica europea. Solo poche ore più tardi, l’imperatore austro-ungarico Carlo rinunciò al trono, pur rifiutandosi di abdicare formalmente, con un gesto di dignità della quale quel carattere pur così docile non era certo privo; anche lui andrà in esilio qualche mese più tardi, in Svizzera, non lontano dalle rovine del castello di Habitchsburg, sulle rive dell’Aar, proprio il posto dal quale i suoi antenati più di 600 anni prima erano partiti per andare a regnare sull’Austria prima, e sull’Europa poi.
La scomparsa delle storiche dinastie regnanti d’Asburgo, Hoenzollern e Romanov non era la sola conseguenza della guerra: 9,3 milioni di soldati erano morti durante la Grande Guerra, 12 milioni i civili che persero la vita a causa della stessa; la Russia non esisteva più, sostituita da una Federazione Sovietica che incarnava la realizzazione di tutti i peggiori incubi delle classi superiori europee del fin du siécle; l’impero ottomano a sua volta era stato sradicato con la violenza senza che si fosse pensato a come sostituirlo e gli effetti tragici di questa leggerezza li sperimentiamo, oggi, sulla nostra stessa pelle; l’Europa dell’Ottocento, l’Europa di Van Gogh e di Nietzsche, l’Europa romantica e impressionista, l’Europa che dominava il mondo e che vedeva in sé stessa, nei decenni precedenti la guerra, il culmine della civiltà occidentale assieme all’epoca classica, quell’Europa non esisteva più. Annegata nel fango delle trincee, l’Europa sarà d’ora innanzi solo capace di generare mostri come Auschwitz o i gulag siberiani; e tutto questo era percepito dai contemporanei, e lo è ancora da noi, come una conseguenza della Grande Guerra. Perfettamente logico, quindi, che le conseguenze estreme, drammatiche del conflitto abbiano aperto una discussione infinita sulle cause dello stesso: si ha la percezione che, chiunque ne sia stato il responsabile, l’abbia fatta davvero grossa.

Se dovessimo fare una classifica degli argomenti storici più controversi e dibattuti, certamente la discussione sulle cause della prima guerra mondiale salirebbe di diritto sul podio, assieme a pochi altri “pezzi da novanta” come i motivi della caduta dell’impero romano, o le differenti valutazioni del periodo giacobino della Rivoluzione francese. La cosa non ci deve sorprendere affatto, per i motivi di cui sopra. Ma c’è un altro aspetto che una discussione simile comporta, ossia le differenti filosofie della storia che essa coinvolge: la guerra fu, secondo la prospettiva leninista, un inevitabile portato del sistema, la fase suprema del capitalismo, oppure fu una tragedia occasionata dalle decisioni personali di un gruppo di persone, persone con nomi e cognomi, che nell’estate del 1914 valutarono il conflitto come il minore dei mali? Come al solito, l’estremismo non è un buon consigliere e probabilmente c’è del vero in entrambe queste due letture: il sistema sociale, economico e politico europeo rendeva la guerra una possibilità, una possibilità persino auspicata da parte di alcune potenze; ma questo era vero nel 1914, come poteva esserlo nel 1905, nel 1911 o durante le guerre balcaniche a maggior ragione, eppure il conflitto era stato sempre evitato in occasione di quelle crisi. 

Nel 1914 invece la spinta decisionale di un gruppo di individui, alcuni dei quali insospettabili, fece propendere la bilancia dalla parte della guerra; non c’è lo spazio nell’ambito di questo articolo per un’analisi articolata che dovrebbe comprendere uno studio della politica balcanica della Russia e il suo sogno costantinopolitano, così come l’ipotesi di una “triarchia” Austro-Ungaro-Slava propugnata a Vienna da Francesco Ferdinando, entrambi aspetti questi che mettevano i due imperi centro-orientali in rotta di collisione; non abbiamo lo spazio per accennare al fatto che molti dei più convinti bellicisti, come il capo di stato maggiore austriaco Conrad von Hotzendorf, propugnavano la guerra anche per motivi strettamente personali, intimi persino; nel suo caso infatti, entrava in gioco la speranza di diventare un eroe di guerra, che gli avrebbe permesso di ufficializzare il suo scandaloso rapporto  con l’aristocratica italiana Virginia von Reininghaus, sposata con un altro uomo. Infine, bisognerebbe analizzare anche l’influenza delle masse su questa decisione, in particolare delle masse cittadine delle grandi capitali europee le quali reagirono, come si sa, non con spavento di fronte alla minaccia della guerra, ma con entusiasmo. Lo spirito del 1914 coinvolgerà anche molti intellettuali non certo addentro alle cose della politica: Freud ricorderà come in quei giorni, “la mia libido era rivolta tutta all’Austria-Ungheria”. Molti anni dopo, da parte di persone che soffrirono lutti e disgrazie durante la guerra, quei gironi di luglio-agosto 1914 verranno ricordati come i più intensi e spiritualmente profondi della loro vita.

Un quadro quantomai complesso, quindi, nel quale noi ci limiteremo ad analizzare il ruolo della Germania, alla quale il trattato di Versailles conferì ufficialmente la responsabilità della guerra in un articolo così pesante che causò il quasi immediato pentimento dei suoi stessi autori. Oggi il focus sulle decisioni tedesche è quasi totale, a causa delle conseguenze che la guerra ebbe sulla Germania, in particolare l’ascesa di Hitler; così però dimentichiamo appunto temi quali il conflitto balcanico austro-russo, temi che a noi possono non dire più niente, ma che erano molto sentiti dai contemporanei. La Germania, in ogni caso, era la prima potenza europea del tempo e qualsiasi mossa in direzione della pace o della guerra sul continente passava attraverso Berlino. La situazione strategica del Secondo Reich era cambiata, in peggio, con la salita al trono del giovane Kaiser Guglielmo II; l’asse sulla quale si reggeva la politica bismarckiana, ossia l’alleanza con Vienna e San Pietroburgo, in una sorta di “internazionale conservatrice” che garantiva reciproco supporto in caso di sommosse sociali interne o pericoli esterni, si era spezzata: le continue crisi balcaniche, che avevano portato Russia e Austria allo scontro diplomatico, misero la Germania nella difficile posizione di dover scegliere tra i due alleati; essendo impensabile rompere il legame con l’Austria, fu rotto quello con la Russia, con gravi conseguenze. La Russia si legò alla Francia, chiudendo così il Reich in un abbraccio soffocante a Est e a Ovest. Il nuovo alleato, l’Italia, non garantiva gli stessi benefici strategici della Russia, anche se gli accordi commerciali tra i capitalisti dei due paesi contribuirono notevolmente alla crescita economica di entrambe le nazioni. Tuttavia c’era la questione dei territori cosiddetti irredenti , cioè le regioni che l’Italia reclamava dall’Austria (Trento, Trieste) a minare la stabilità della Triplice Alleanza; il tentativo, che pure fu fatto, di convogliare il nazionalismo italiano in funzione anti-francese (Nizza, Savoia, la Corsica) non ebbe risultati apprezzabili.

Venne a determinarsi una situazione da guerra fredda con due blocchi contrapposti tra di loro; certo, a differenza della guerra fredda USA e URSS non c’era opposizione ideologica tra i due blocchi; in realtà non c’era neanche una reale inimicizia: il tempo stava persino mitigando le ferite della Francia a seguito della guerra del 1870. Purtuttavia, la presenza di un impero tedesco in continua ascesa in un’area, quella dell’Europa centrale, che per secoli era stata poco più di un campo di battaglia tra Austria e Francia, era sufficiente a creare un elemento perturbatore dell’ordine europeo. Le psicosi reciproche si alimentavano facilmente: la Francia, in crisi demografica e economica rispetto alla Germania, si tutelava questo continuo declino che la poneva in posizione subordinata rispetto al potente vicino cercando alleati in Russia e Inghilterra, cosa che contribuiva ad aumentare il senso di accerchiamento tedesco; le riforme dell’esercito russo, necessarie dopo la sconfitta col Giappone e le rivolte del 1905, venivano a loro volta viste da Berlino come una mossa antitedesca, anche perché si calcolava che, nel giro di un decennio, la Russia sarebbe stata in grado di armare un numero di soldati considerevolmente superiore a quello del Reich. E purtuttavia, malgrado tutte queste tensioni, la guerra veniva vista come extrema ratio , come risposta eventuale ad una aggressione che poteva sì accadere, ma che le armi della diplomazia avrebbe dovuto evitare. Ci sono segnali che, a Berlino, la guerra non era pensata come probabile prima del 1914: nel 1912 l’esercito prussiano rifiutò di aumentare il suo numero di tre corpi d’armata (più di 800,000 uomini) per timore che la “coesione sociale” del corpo ufficiali ne avrebbe sofferto; nell’estate del 1914, le scorte di munizioni erano ben sotto i livelli richiesti, spesso anche inferiori al 50%; più importante ancora, se c’erano piani strategici militari a bizzeffe (come in tutti gli altri stati europei) mancavano totalmente degli obiettivi per una ipotetica guerra: cosa si sarebbe chiesto in caso di vittoria? E a chi? Domande che trovarono risposte solo a guerra iniziata, perché prima nessuno pensava davvero che una guerra fosse lì lì per iniziare.

In Germania come in altri paesi, prima del 1914 erano i militari, non i politici, a insistere sull’opportunità di una guerra preventiva, da combattersi prima che la Russia fosse stata forte abbastanza da essere in pratica imbattibile. Helmuth von Moltke jr. , il capo di stato maggiore tedesco, condivideva con il suo collega viennese Conrad, il carattere ansioso e la propensione a scendere in guerra prima che fosse troppo tardi. Le analogie finiscono però lì: a differenza dell’ateo, materialista e libertino Conrad, von Moltke era profondamente religioso e riteneva imminente la Seconda Venuta di Cristo. Egli vedeva il suo ruolo come una missione nell’imminente “conflitto tra Germani e Slavi”; la responsabilità del comando pesava molto su di lui e lo condurrà a varie crisi di nervi durante la battaglia delle frontiere e infine, alla morte. La sua paura della Russia e la sua ostilità verso la Serbia che egli vedeva (non del tutto a torto) come un agente russo nei Balcani, ripetute mille e mille volte nelle riunioni nel Reichstag, finirono con influenzare i membri del gabinetto tedesco; questi ultimi, non erano della razza dei Bismarck. Fautori di teorie come il pangermanesimo e il darwinismo sociale, in realtà erano schiacciati dalla personalità dei militari e incapaci di farsi ascoltare dal Kaiser con la stessa persuasione di cui era capace Moltke. Il cancelliere Bethmann-Hollweg finì per convincersi che, sì, forse Moltke aveva ragione e che dopotutto era più facile mettersi dalla parte degli influenti militari prussiani che non contro di loro; all’indomani di Sarajevo la sua decisione, fatale, di concedere carta bianca agli austriaci per una guerra contro la Serbia, faceva parte di una strategia diplomatica di rischio calcolato: non voleva la guerra come prima opzione, ma la contemplava come possibilità in caso che fosse sfuggita la vittoria diplomatica. Bethmann-Hollweg contava, appoggiando l’Austria contro la Serbia, di isolare il conflitto alla sola Europa orientale dal momento che, egli credeva, la Francia e l’Inghilterra non sarebbero scese in campo per difendere il turbolento regno serbo e/o gli interessi russi nei Balcani; senza i suoi alleati, la Russia avrebbe fatto marcia indietro, la Serbia sarebbe stata alla mercé degli austriaci e la Germania avrebbe spezzato l’asse anglo-franco-russo: una grande vittoria diplomatica, insomma. 

Certo, c’era anche l’eventualità che invece Francia e Gran Bretagna appoggiassero la Russia per davvero: allora sarebbe stata la guerra, che avrebbe portato all’espansione dell’egemonia tedesca con altri mezzi, mezzi violenti, appunto. D’altra parte se c’era un momento ideale per correre un simile rischio era proprio quello: non lo dicevano forse anche Moltke e i militari? La strategia del cancelliere non era assurda, ma si scontrò non tanto contro quella russa o serba: ma contro quella di Moltke. Infatti il piano militare in caso di guerra con l’Intesa prevedeva l’attacco alla potenza più debole, la Francia (causando così l’estensione del conflitto a occidente), passando attraverso il Belgio (cosa che avrebbe significato l’automatico intervento inglese): la localizzazione del conflitto nei Balcani si rivelò impossibile a causa della strategia militare dello stato maggiore tedesco; la corona d’alloro della vittoria diplomatica, che Bethmann-Hollweg già vedeva sulla sua fronte, gli fu sottratta da Moltke. In poche ore l’intero continente era in guerra. Per quanto riguarda la Germania, il maggior peso dei militari, la classe che aveva costruito l’impero tedesco, rispetto ai politici fu la causa dell’allargamento del conflitto e del precipitare degli eventi. Moltke e i militari fecero pressioni insostenibili sul Kaiser e i sui dirigenti politici insistendo sul fatto che un secondo in più concesso ai russi avrebbe significato la catastrofe; questo velocizzò il processo di mobilitazione e l’attuazione del piano Schlieffen (invasione della Francia attraverso il Belgio) mentre i progetti diplomatici dei dirigenti politici furono presi in contropiede e accumularono un ritardo fatale rispetto agli avvenimenti.
Bisognerà aspettare il 1945 prima che questo ritardo torni a essere colmato.