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sabato 7 agosto 2021

PATRIA - NO MAN'S LAND

868_PATRIA - NO MAN'S LANDPaesi Bassi, 2014; Regia di Klaas van Eijkeren. 

C’è qualcosa che sfugge, in Patria - No Man’s Land (in seguito distribuito nel circuito home video col titolo 1914 The Western Front) di Klass van Eijkeren. Forse è solo la volontà del regista di fare un film credibile, realistico, e per farlo col budget risicato di cui disponeva la produzione, si è ricorsi a scelte narrativamente non convenzionali nel tentativo di non scivolare nei classici cliché. Si è letto, infatti, che gli autori avessero a disposizione 15.000 euro che sono pochi in assoluto, al cinema dei giorni nostri, ma considerato che il tema di Patria - No Man’s Land era la Prima Guerra Mondiale, è chiaro che si è dovuto fare di necessità virtù. Riuscendoci, a grandi linee. Sommariamente si può ritenere il film una rivendicazione legittima del ruolo avuto dagli olandesi nella Grande Guerra: probabilmente perché i Paesi Bassi non parteciparono al conflitto ma è un dato di fatto che al cinema non ci siano molte testimonianze del loro contributo bellico. Patria - No Man’s Land va quindi al colmare questa lacuna raccontando le gesta di Artur Knapp, olandese di origine indonesiana che vive in Francia e si arruola nella Legione Straniera per difendere il paese transalpino dall’aggressione degli unni, come vengono spregevolmente sempre chiamati nel film i tedeschi. Dell’adesione entusiasta dei giovani dell’epoca alla guerra, della successiva atroce scoperta di quanto questa fosse diversa dall’ideale diffuso ai tempi, delle illusioni sulla brevità del conflitto che andarono presto e ripetutamente infrante, della crudezza degli scontri, della presenza ossessiva della morte, del fango delle trincee, del cameratismo tra soldati, di tutto questo Patria - No Man’s Land non aggiunge niente di quando non si sia già visto decine di volte. 

Pur se è evidente, già a partire dal cast, che le risorse per realizzare il film erano quelle che erano, va detto che van Eijkeren fa un lavoro diligente dietro la macchina da presa e il risultato è funzionale. Non sono però questi gli aspetti che rendono interessante, ma anche interlocutorio, il film: del tributo agli olandesi si è detto, ma qui occorre approfondire meglio perché la cosa è forse meno scontata di una rivendicazione da parte orange. L’essere olandese di Knapp, personaggio realmente esistito, sembra un pretesto per affermare l’infondatezza delle idee nazionaliste che furoreggiavano al tempo e che stanno rinvigorendosi ancora oggi ad un secolo di distanza. Il titolo originale contrappone infatti due concetti di significato contrario, Patria e No Man’s Land, giocando sul termine nazionalista per eccellenza utilizzato dalla propaganda del tempo in alternativa a quella striscia tra le trincee che veniva chiamata terra di nessuno. Inoltre, il protagonista è evidentemente di origine asiatica, ha passaporto olandese ma si schiera per la Francia e combatte contro gli Imperi, ovvero istituzioni che del concetto di patria erano il superlativo assoluto. Tutto ciò sembra concordare in un’unica prospettiva. Eppure non si può evitare di notare lo sputo di un soldato in divisa francese quando vede sopraggiungere un suo commilitone di colore; l’uomo di origine africana, che darà il massimo contributo alla causa perdendo la propria vita poco dopo, è notato da Knapp che del resto non era neppure lui di stirpe europea. 

Certo, si erano visti anche episodi di tiepido nonnismo, nella storia, poco più che scherzi; questo passaggio è però un po’ disturbante seppure potrebbe essere un semplice contributo di credibilità del racconto. Oppure una velata insinuazione che i francesi non fossero poi così convinti di quei concetti sbandierati durante la propaganda bellica se, per caso, fossero coinvolti gli abitanti delle colonie. Volendo c’è un altro piccolo segnale, di questa vena critica da parte del film, già in avvio, quando Knapp sta giocando a pallone con gli amici e se la prende animatamente con l’improvvisato arbitro. Sophie (Marie-Claire Vugts), la sua fidanzata, che osserva la partita, lo richiama: perché diamine si infuria col suo amico per una questione tanto amena? Knapp si giustifica in modo semplice: in quel momento il suo amico ha la funzione di arbitro e quindi è normale insultarlo. Un banale passaggio di realismo nel film o un vago dubbio sul fatto che l’uomo, in modo naturale, debba sempre avere qualcuno contro cui scagliarsi? E che dire delle parole che si sentono nel finale, mentre Knapp sta morendo in seguito all’esposizione ai tremendi gas usati nella guerra, parole che sono parte di un discorso che si conclude così: “Quando già la vita e le origini del nostro popolo sono divise per economia, classi sociali, formazione e retroterra finanziari, l'obiettivo politico non può essere fondato su questa divisione e aspettarsi che duri!” Qualcuno proclama che le disparità finanziarie e sociali siano l’ostacolo da combattere politicamente: quel qualcuno è Adolf Hitler. Nelle sue parole, che preparavano già il terreno al secondo conflitto mondiale, concetti pericolosamente simili a quelli in cui credeva e per cui è morto Arthur Knapp. Insomma, al di là della retorica di facciata, si fatica a capire da che parte stia la ragione, posto che stia da qualche parte. Sono davvero passati più di cent’anni?


venerdì 6 agosto 2021

CEUX DE 14: EP. 3 LES SOLDATES BLEUS

867_CEUX DE 14: EP. 3 LES SOLDATES BLEUS Francia, 2014; Regia di Olivier Schatzky. 

Il 1914 sta per finire e la Prima Guerra Mondiale comincia a prendere quelle caratteristiche che gli sono tristemente note: le famigerate trincee fanno la loro comparsa in questo terzo film televisivo della serie Ceux de 14, stavolta dedicato ai militari francesi anche nel titolo specifico, Les soldates Bleus. I tedeschi si appostano lungo una linea, il fronte, e ai transalpini non rimane che scavare un lungo fosso, la trincea appunto, dove mantenere la posizione. Ma si nota già una differenza nell’organizzazione militare: la trincea tedesca e rinforzata da sacchi di sabbia e ben protetta, quella francese sostanzialmente un semplice solco profondo. Tuttavia si tratta solo di un assaggio della famigerata guerra di posizione: i soldati blu smobilitano presto e si accampano in un piccolo villaggio. Il tono si fa quindi più lieve, con il tenente Maurice (Théo Frillet) che mette sempre più in luce il suo animo artistico e la sua nobiltà d’animo, notata anche da una coppia di donne, madre e figlia, che lo ospitano in casa e che, al momento della sua partenza, gli lasceranno addirittura una lettera di referenze. Questo clima leggero è alimentato dalla festa a base di ostriche della truppa del 106° Reggimento di Fanteria e soltanto un po’ increspato dalla tristezza di Ivonne (Marie-Ange Casta) e Idalie (Esther Comar) alla notizia della morte di Lucien (Baptiste Chabauty). Ma in coda all’episodio, circola la voce che il 106° deve dirigersi a Les Éparges, luogo in seguito divenuto tristemente noto per via della famosa battaglia che vi infuriò: adesso veramente ci siamo.



giovedì 5 agosto 2021

LES CROIX DE L'YSER

866_LES CROIX DE L'YSER Belgio, 1928; Regia di Gaston Schoukens e Paul Flon.

Film patriottico prodotto nel 1928 per celebrare i dieci anni dalla fine della Grande Guerra, Les Croix de l’Yser era un evidente tentativo di ricordare, a chi cominciasse a pensare ad un nuovo conflitto, quanto fosse stata brutale la Prima Guerra Mondiale. In quest’ottica si può dire che l’operazione si stata vana, anche se per l’inizio della Seconda Guerra Mondiale passeranno ancora un’altra decina d’anni abbondanti. Inoltre, la produzione belga del film, a livello internazionale, sembra rivolgersi più che altro ai cugini francesi, mentre il nemico tedesco è relegato in poche immagini intento a guerreggiare. L’ambientazione iniziale del film è infatti francese, con passaggi curiosi, a vederli un secolo dopo, di come la chiamata alle armi fosse accolta con entusiasmo dalla popolazione, almeno da quella maschile. Pur essendo un film muto, Les Croix de l’Yser non rinuncia a ricorrere ad evocare un canto patriottico come la Marsigliese, l’inno nazionale francese, per scaldare l’atmosfera della vicenda. Nella casa dove comincia la storia, solo le due donne sembrano preoccupate per la mobilitazione generale; ai due figli, e anche all’anziano padre, brillano invece gli occhi per la febbre della battaglia. Le scene di guerra, dai primi scontri fino all’assestamento della linea del fronte lungo il fiume Yser, vero e proprio simbolo di resistenza belga, sono di routine. E’ comunque interessante vedere all’opera il corpo francese dei Fucilieri della Marina, venuti a dare man forte per far reggere la prima linea.

In ogni caso, l’idea più importante del film, ovvero di essere una testimonianza di quale dramma fu la guerra, pur se congenita alla storia raccontata, si concretizza in forma compiuta solo nel finale. Gli anziani genitori dei due fratelli in arme protagonisti del racconto si recano all’ospedale militare di Saint Georges, per visitare il figlio minore, Jean (Jean Norey), ferito gravemente. I registi  Gaston Schoukens e Paul Flon, seppure nel resto del lungometraggio si limitino ad una regia di mestiere, in questo passaggio dimostrano di conoscere i meccanismi narrativi della suspense. Già dal colloquio col piantone all’ingresso si crea una discreta tensione per sapere se il figlio è tutt’ora sopravvissuto; ma è quando l’infermiera li conduce al letto del soldato Bouchard che abbiamo il colpo di scena. Gli autori giocano infatti con il cognome identico dei due fratelli e, nel letto di ospedale, i due anziani non trovano Jean ma Pierre (René Vermandèle), il figlio maggiore. Ma allora dov’è finito Jean che, da quel letto, aveva scritto ai genitori? Pierre, pur se gravemente ferito, riesce a raccontare della morte fratello, sopraggiunta in seguito alle gravi ferite. Jean è morto da eroe, come tanti altri. Ma nemmeno Pierre, che era con lui in prima linea, saprà dirci perché.




mercoledì 4 agosto 2021

LE HEROS DE LA MARNE

865_LE HEROS DE LA MARNE Francia, 1938; Regia di André  Hugon.

Melodramma anche eccessivo, Le Héros de la Marne di André Hugon, è un’escalation di situazioni emozionanti a cui il regista non riesce a trovare il giusto equilibrio. Hugon, coautore anche del soggetto, non era probabilmente un autore in grado di gestire del tutto i pericolosi toni del melò e così il risultato finale vanifica quanto di buono poteva esserci nell’idea di base. L’impostazione classica, una vicenda particolare su uno sfondo storico, quello della Grande Guerra, è utilizzata in questo caso per enfatizzare e risolvere, i conflitti interni dei protagonisti. Ovviamente un elemento come la Prima Guerra Mondiale finisce per invadere pesantemente la vita dei personaggi al centro della vicenda e, forse anche questo, arriva a colmare la misura di sentimento appesantendola in modo eccessivo. Bernard Lefrançois (interpretato dall’istrionico Raimu) è un contadino francese con tre figli, il maggiore dei quali, Jean (Bernanrd Lancret) è innamorato di Hélène (Jaqueline Porel). La ragazza è figlia di Bardin (Édouard Delmont ), che abita in una piccola tenuta agricola confinante a quella ben più corposa dei Lefrançois. E Bernard vede, nell’interesse di Hélène per il figlio Jean, una manovra del vicino per mettere le mani sulla sua terra. Il suo opporsi all’unione tra i due giovani è quindi una sorta di difesa del proprio territorio che in parte richiama quella che subentrerà in modo più ampio con l’aggressione tedesca alla terra francese. Bernard difetta però nel suo modo di vedere le cose e, proprio in seguito all’entrata in guerra, pagherà quasi per contrappasso questa sua colpa (vedeva cose che non c’erano, non vedrà più). 

Questo modo di raccontare, con coincidenze e similitudini che si sommano o ribaltano, è tipico del melodramma e non è di per sé un difetto, anche se va detto che occorre una particolare maestria per non far traboccare il vaso del sentimentalismo. E, come detto, Hugon fatica un po’. Così, se Jean e Hélène si amano nonostante il disappunto di Bernard, la ragazza rimane incinta, probabilmente alla prima occasione. Jean è al fronte e la ragazza si confronta coi genitori di lui, trovando nella madre Suzanne (Germaine Dermoz) comprensione mentre Bernard sospetta ancora menzogne. A fronte di questo insulto, Hélène si trasferisce dai cugini, ad Amiens. Intanto scoppia la guerra, proprio nel giorno in cui nasce il bambino: ecco, questo è un altro tipico colpo di scena melodrammatico che sembra aggiungere significato alla vicenda ma che, se non corrisposto in modo adeguato, finisce al contrario per svilirla. Hugon è forse troppo preso dalle vicende narrative per riuscire poi a svilupparle a dovere: Jean diventa rapidamente un asso dell’aviazione, mentre i tedeschi occupano Amiens. Hélèn, oltre ad accudire il figlio, trova il tempo per improvvisarsi agente di spionaggio, con un contributo fondamentale nella difesa francese della Marna. Consegnato il prezioso messaggio, deve ritornare dal neonato quand’è ormai pieno giorno e così viene fatta prigioniera dai tedeschi, che minacciano di condannarla a morte in qualità di spia. I tre figli sono al fronte, la fattoria Lefrançois devastata e Bernard, ad oltre 50 anni, si arruola volontario.

Hugon alterna le vicende private ad alcune scene di guerra, forse di repertorio, mostrando alcuni passaggi peculiari del conflitto, dai bombardamenti, ai taxi della Marna, alle acrobazie dei biplani. Il finale è naturalmente di grande emozione, con il vecchio Lefrançois, divenuto cieco a causa di una ferita di guerra, che ora, paradossalmente, riconosce il figlio di Hélèn come nipote. Il piccolo però, proprio nel giorno dell’armistizio, è divenuto orfano, essendo stato abbattuto Jean durante la sua ultimissima missione. E’ l’ennesimo stucchevole colpo di scena, in quanto la successiva soluzione per rimediare un lieto fine non sembra propriamente adeguata. Alla notizia di essere rimasta vedova, Hélèn riceve la proposta di Pierre (Paul Cambo), da sempre innamorato della ragazza, che coglie quindi al volo l’occasione. E proprio l’intempestività dell’ultimo passaggio può essere d’esempio dei limiti generali dell’opera.


martedì 3 agosto 2021

CEUX DE 14: EP. 2 NOUS N’EN REVIENDRONS PAS

864_CEUX DE 14: EP. 2 NOUS N’EN REVIENDRONS PAS Francia, 2014; Regia di Olivier Schatzky.

Nonostante il poco augurante titolo (Nous n'en reviendrons pas, non torneremo) il secondo capitolo della serie di film televisivi Ceux de 14 inizialmente non sembra avere un clima così pessimista. Il 106° Reggimento di Fanteria francese sembra girare un po’ in tondo, ritirandosi di fronte alle prime avanzate tedesche; ma siamo ancora agli inizi della Grande Guerra e, come nel primo episodio, per capirlo basta guardare il paesaggio. Più che i verdi prati stavolta sullo sfondo troviamo la boscaglia o le foreste vere e proprie; comunque ambienti naturali ancora non devastati dal conflitto. Certo, il bosco nasconde delle insidie, ad esempio, nel caso di una guerra può sbucare un battaglione nemico all’improvviso; come poi accade. Ma prima c’è il tempo per gli scherzi tra i commilitoni, per un incontro tra i vecchi amici Maurice Genevoix (Théo Frillet) e Lucien (Baptiste Chabauty), ora sottotenenti, mentre le loro ragazze Idalie (Esther Comar) e Yvonne (Marie-Ange Casta) aspettano invano una lettera dal fronte. I tedeschi prima si ritirano e i ragazzi del 106° si vedono già a Berlino; ma poi contrattaccano di brutto. Finalmente l’enfatica musica che accompagna la serie trova una nota adeguata nella morte di Gonin (Romain Lancry) mentre il tenente Genevoix si scopre a nascondersi vigliaccamente dietro una pianta. Ma non c’è niente di strano ad avere un momento di debolezza, quando la guerra mostra il suo lato più truce: Maurice si riprende e riesce a cavarsela, riunendosi al suo reparto. Non prima di aver ucciso tre tedeschi. Tre uomini; per un uomo sensibile come lui, è un artista, forse un trauma peggiore dell’attacco di panico durante la carica nemica. La guerra sta per entrare nel vivo.   

lunedì 2 agosto 2021

OUR WORLD WAR: THE FIRST DAY

863_OUR WORLD WAR: THE FIRST DAY Regno Unito, 2014; Regia di Bruce Goodison.

Il capitolo d’esordio di questa trilogia in formato televisivo prodotta dalla BBC ci riporta alle primissime ostilità della Grande Guerra. Siamo a Mons, nel Belgio vallone, l’esercito britannico è appostato a protezione dei ponti sul canale; prudentemente si pensa anche a minarli, nel caso sia necessario farli saltare per ostacolare l’avanzata dei tedeschi. Di cui però si sa ben poco. Al ponte di Nimy è stanziata soltanto una compagnia di Royal Fusiliers, i fucilieri di Sua Maestà; è in quel preciso punto che la mattina del  23 agosto, il famoso primo giorno del titolo del film, confluiranno ben quattro battaglioni tedeschi dando vita ad una autentica carneficina. Lo scontro sul ponte Nimy è ricostruito dalla BBC sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti, in quello che è lo spirito della miniserie televisiva One World War, in questo caso prevalentemente di Sidney Godley (Theo Barklem-Biggs) e da uno scritto del tenente Fred Steele (Jefferson Hall). Il soldato semplice Godley e il tenente Maurice Dease (Dominic Thorburn), che cadrà eroicamente quel giorno, si diedero un gran daffare alla mitragliatrice falciando le file tedesche e furono i primi inglesi decorati della Grande Guerra con la Victoria Cross. Oltre alle devastanti scene d’azione che caratterizzano la seconda parte, la ricostruzione prova ad essere attendibile fornendo anche dettagli specifici. Ad esempio è sottolineato il fatto che gli inglesi fossero tutto sommato fiduciosi essendo il loro un esercito professionale e non di leva, come era invece quello tedesco. Oppure come la velata presunzione che la precisione al tiro dei Royal Fusiliers fosse talmente elevata da rendere quasi superfluo l’impiego delle mitragliatrici. 

Nella gara che scherzosamente i fucilieri fanno mentre ingannano l’attesa  del nemico, la tanica lanciata da Steele è mancata dalla mitragliatrice mentre è colpita ripetutamente dai fucilieri. Ma questo non deve far pensare che, nel racconto filmico, gli inglesi attendano il nemico ridendo e scherzando: al contrario, per tutta la prima parte è proprio la tensione per il pericolo incombente, ma di cui si sa poco o nulla, a sostenere la narrazione. C’è una generale fiducia che tutto possa andare per il meglio, ma si avverte strisciante il timore per qualcosa che, nonostante la preparazione dei militari sia stata scrupolosa, sia ancora ignoto. Lo stile visivo strizza l’occhio alle recenti produzioni di deriva documentaristica per il piccolo schermo: ad esempio le immagini dall’alto, che simulano una sorta di ripresa agli infrarossi, chiariscono in modo schematico le fasi, per altro piuttosto semplici da intuire, della battaglia. A queste sono alternate immagini di natura opposta, come l’utilizzo di bodycam  o altre scelte stilistiche in chiave soggettiva, per cercare di farci vivere con questi stratagemmi tecnici gli eventi in prima persona. E’ una buona, e tutto sommato economica, strategia che il linguaggio televisivo mette spesso in campo per supplire alle carenze artistiche rispetto al cinema e ai suoi autori di rango. 


Nel complesso il risultato è positivo, anche nell’umiltà di prendere un episodio minimo e specifico che può essere così raccontato in modo tutto sommato esaustivo. Da un punto di vista dell’obiettività sui fatti narrati, vero cruccio di ogni reportage di guerra, in modo un po’ opportunistico, la BBC si smarca da ogni critica in tal senso sin da subito: Our World Day, il titolo della serie, chiarisce che è la ‘nostra’ (our) guerra mondiale, nel senso di noi inglesi. Ma nel complesso il racconto non è nemmeno troppo retoricamente di parte. C’è, è vero, una certa celebrazione per i caduti eroicamente, sacrosanta del resto, mentre si rimarcano le pesantissime perdite inflitte al nemico (500 uomini nei primi due minuti, stando ad una didascalia). Insomma, quando si evidenzia l’estrema superiorità numerica tedesca si fornisce l’impressione di una parziale giustificazione per la cocente sconfitta. Ma c’è anche l’ammissione esplicita che la battaglia di Mons fu una pesante umiliazione per l’esercito inglese, sottolineata dalle immagini, queste storiche e non di finzione, dei soldati di Sua Maestà in fuga a gambe levate.     

domenica 1 agosto 2021

IL BELGIO MARTIRE (a seguire QUANDO LA STORIA... )

862_IL BELGIO MARTIRE (La Belgique Martyre)Belgio, 1919; Regia di Charles Tutelier.

Il Belgio Martire, questa la traduzione letterale del titolo del film di Charles Tutelier uscito nel 1919, risente ancora fortemente dell’eco della Grande Guerra, finita troppo poco tempo prima per non lasciare strascichi. Il paese fiammingo, all’inizio delle ostilità, era stato oggetto da parte tedesca di quello che è tristemente rimasto famoso come lo stupro del Belgio: il risentimento antigermanico che permea Il Belgio Martire è quindi ben motivato. Quello di Tutelier è naturalmente un film muto che una serie di duplici pannelli bilingue, francese e fiammingo, rendono perfettamente fruibile. Il recente restauro della Cineteca Reale Belga permette una visione sufficientemente chiara anche se si rimane un po’ perplessi a fronte dei segmenti narrativi interamente colorati in modo monocromatico, ma niente di così disturbante. E’ piuttosto un’iniziativa lodevole, quella della benemerita Cinematek di Bruxelles, di riproporre questo antico film belga che ben illustra il clima che si viveva al tempo. Il Belgio Martire si compone di cinque parti che si suddividono in tre fasi differenti. Le prime due parti dell’opera sono riferite all’aggressione tedesca vista in un’ottica privata, quella di una povera famiglia di contadini. Siamo in un piccolo villaggio delle Fiandre e la vita scorre tranquilla finché arriva la notizia che l’impero Austroungarico ha dato l’ultimatum alla Serbia e, cosa assai più inquietante per i belgi, quello tedesco ha annunciato la mobilitazione. Il Belgio, forse per la sua matrice intrinseca già divisa, testimoniata dal riconoscimento ufficiale di almeno due lingue nazionali diverse, era consapevole di essere un punto nevralgico dello scacchiere europeo in ottica bellica. 

Ad interpretare questi timori, il film belga pacifista Maudite soit la guerre di Alfred Machin era uscito con solo qualche mese di anticipo sugli eventi, nel maggio del 1914. Pochi mesi dopo, il 2 agosto 1914 i paesani de Il Belgio Martire ricevono la chiamata alle armi: è la mobilitazione generale. Nella famiglia Segers, il padre Pierre (M. Mylo) deve partire mentre il figlio Robert (Charlies Tutelier) per ora è troppo giovane; il nonno (M. Liesse) è invece troppo anziano. Le truppe germaniche entrano presto in azione e arriva la notizia dell’invasione dei confini belgi; la resistenza stoica di Liegi infiamma d’entusiasmo il villaggio ma presto i boche, come venivano chiamati con disprezzo i tedeschi, arriveranno. 

L’occupazione del villaggio da parte tedesca è particolarmente cruenta: inizialmente i soldati dell’Impero si contengono, seppure il tenente von Freiherr (M. Sovet) sia particolarmente sprezzante. A sera le truppe festeggiano ubriacandosi per strada: nella confusione scoppia un parapiglia e finisce che un soldato accoppi un camerata con una fucilata. Sopraggiunge von Freiherr che incolpa la resistenza belga dell’uccisione: l’onta dovrà essere pagata col sangue. Entrato nella casa dei Segers vi trova Robert, suo nonno, la madre (Nadia Dangely) e pretende un colpevole da fucilare; non ha fatto caso alla piccola Louisette (Marie Louise) che gli si scaglia giustamente contro insultandolo. Von Freiherr pare divertito, visto che la cosa gli ha suggerito un’idea: chiede infatti alla piccola a chi voglia più bene tra i suoi tre congiunti. Scontata la risposta dell’innocente e ingenua bambina: sarà quindi mamma Segers a finire davanti al plotone di esecuzione. La sua figura femminile ricorda, perlomeno nell’estremo sacrificio, quella dell’eroina belga Gabrielle Petit, crocerossina e spia al servizio dei britannici, o di Edith Cavell, infermiera inglese che operò in Belgio, tutte e due fucilate dai tedeschi. In questo caso con l’aggravante che la povera donna non aveva nulla a che fare con qualsivoglia attività bellica. 

Come si può notare, Tutelier non vuole fare alcuno sconto ai tedeschi che, in questo caso, ricorrono in modo oltremodo inopportuno alla loro nota e riconosciuta vendicatività: non solo la donna è innocente, ma nemmeno c’è un colpevole tra i belgi, visto che il soldato è stato ucciso per errore da un suo compagno. La definizione di vigliacchi con cui vengono tacciati i tedeschi in una didascalia è, sul momento, spiazzante, in quanto la codardia è l’ultimo dei difetti abitualmente attribuiti al soldato germanico. Eppure è quanto mai azzeccata, sia nello specifico narrativo che nel contesto generale. Infatti il plotone di sei uomini armati di fucile che prende di mira la povera signora Segers è un’efficace metafora dell’aggressione tedesca al Belgio. I soldati dell’Imperatore Guglielmo II chiudono la questione dando fuoco al villaggio. La terza parte si intitola La nazione in lutto, come ad estendere la tragedia che si è abbattuta sui Segers a tutto il popolo belga. Questa parte e la successiva sposteranno l’attenzione intorno al fiume Yser, a cui vengono dedicate un paio di panoramiche incendiate di rosso. E’ lì infatti che infiamma la battaglia ed è lì che Robert raggiungere il padre in prima linea una volta lasciato il paese ormai distrutto. 

Al fronte si possono osservare le prime rudimentali forme di trincea, poco più che avvallamenti o rilievi del terreno adeguati alla bisogna. Nella battaglia decisiva il giovane si troverà di fronte ancora al tenente von Freiherr che, pur se gravemente ferito, sarà comunque temibile e dovrà essere giustiziato (come si evince dalla didascalia) da Pierre che salva il figlio con un colpo di fucile. L’azione specifica è anche in questo caso lo specchio di quella generale: ancora una volta il valoroso leone belga ha sconfitto l’aquila prussiana, per usare testualmente le parole di Tutelier. Sia come sia, i tedeschi vengono perlomeno fermati: il fronte si stabilizzerà. L’ultima parte del lungometraggio fa un deciso balzo in avanti, condensato dall’animazione che vede il soldato tedesco venire respinto da quello belga fuori dai propri confini. Dopo di che, a guerra ormai finita, i toni sembrano divenire via via più concilianti, con un messaggio che auspica la pace per un popolo e un territorio tanto martoriato. C’è tempo per la didascalia conclusiva che definisce il Belgio avanguardia del mondo civilizzato. E’ l’ultimo ringraziamento di Tutelier rivolto alla Germania, evidentemente ritenuta al di fuori di quel confine. 

Al termine della galleria fotografica del film, QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
GRANDE GUERRA, PICCOLO ESERCITO (A.I.V.)


Appendice storica.

QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

GRANDE GUERRA, PICCOLO ESERCITO

(Absit Iniuria Verbis)

Alla vigilia della Grande Guerra, il Belgio si trovava nella scomoda posizione del vaso di coccio circondato da vasi di ferro. In Europa, ovviamente, non mancavano altri piccoli paesi, aspiranti alla neutralità più o meno marcata nel conflitto che stava per arrivare: quello che però rendeva particolarmente delicata la situazione belga, era il fatto che i piani di guerra di entrambi i due blocchi, Intesa e Triplice, prevedessero il coinvolgimento del Paese nel gigantesco scontro. Un coinvolgimento che il Belgio era deciso ad evitare, ma che realisticamente vedeva come sempre più probabile.
Per capire meglio la difficile situazione strategica belga nel 1914, occorre dare una occhiata agli avvenimenti politico-militari precedenti, partendo proprio dall’ultima guerra tra Francia e Germania, quella del 1870. Durante quel conflitto, nessuna delle due potenze aveva violato la neutralità belga; la strategia tedesca allora si era sviluppata attraverso una offensiva che aveva schiacciato l’esercito del Secondo Impero francese proprio contro la frontiera belga in una trappola per topi: l’esito fu l’intera cattura delle forze armate dai pantaloni rossi a Sedan con il loro Imperatore, Napoleone III. Negli anni seguenti al 1870 i belgi ritenevano, quindi, che la strategia germanica in caso di nuovo conflitto con la Francia potesse essere simile, dal momento che per il Secondo Reich sarebbe stato più conveniente cercare di schiacciare nuovamente i francesi nell’angusto spazio tra i forti confinari e la frontiera belga, piuttosto che tentare un attacco con l’ala destra dal nord, di fronte al quale i francesi si sarebbero potuti ritirare a sud, barattando lo spazio in cambio di tempo -come in effetti avvenne. Tuttavia, nel 1870 erano presenti delle condizioni che, nel 1914, non erano più replicabili: in primis, il massimo garante della neutralità belga, l’Inghilterra, non era più neutrale essa stessa. Nel 1870, la politica estera inglese era contraddistinta dalla legge dell’equilibrio: in parole povere, quelle teste matte di europei potevano massacrarsi ad oltranza finché volevano, purché da queste guerre non emergesse una potenza egemonica continentale (sullo stile del primo impero francese). La seconda clausola della legge dell’equilibrio prevedeva l’assoluta inviolabilità, da parte delle potenze continentali, della neutralità belga. Finché queste due clausole fossero stare rispettate, l’Inghilterra non avrebbe preso parte ai conflitti europei.


L’importanza del Belgio per l’Inghilterra era vitale e le due nazioni traevano reciproco beneficio dalla loro storica alleanza: l’Inghilterra poteva contare su un porto sicuro verso il continente, mentre il Belgio affidava al grande impero britannico la tutela della propria indipendenza di fronte alle potenze circostanti, considerate inequivocabilmente ostili (ricordiamo che era ancora vivo il ricordo dei tentativi di Francia e Olanda di esercitare un dominio sul Paese). Per l’Inghilterra, se i porti belgi fossero stati occupati da una potenza ostile – non necessariamente la Germania- il rischio di trovarsi tagliati fuori dal continente e di giocare un ruolo marginale, come durante le guerre napoleoniche, era concreto.
Questo quadro diplomatico cambiò, in ogni caso, con l’Entente cordiale del 1904. L’Inghilterra non era più neutrale ma, in caso di conflitto europeo, si sarebbe potuta trovare nell’esigenza di chiedere il contributo belga, anche solo sottoforma di supporto logistico, navale e portuale. Una situazione ben differente da quella del 1870 quando la Gran Bretagna ammonì severamente Francia e Germania sui rischi di violare la neutralità belga. Ora, nel nuovo scenario, la neutralità belga potenzialmente non esisteva più, anzi i militari inglesi parlavano già esplicitamente di come usare Anversa come appoggio per eventuali operazioni in Europa, anche se a livello diplomatico il ministro degli Esteri inglese, Lord Grey, reiterò l’impegno a mantenere la neutralità belga più volte, costringendo anche i francesi a farlo.

Naturalmente, anche i militari tedeschi facevano piani sul Belgio, con la differenza che in questo caso i diplomatici teutonici non si facevano molti scrupoli a cercare di spingere il Belgio dalla parte della Germania, come avvenne il 6 Novembre 1913, quando il Kaiser avvertì Alberto, re del Belgio, che sarebbe stato meglio per lui schierarsi con la Triplice Alleanza in caso di un conflitto europeo. Ormai i belgi non avevano bisogno di questi minacciosi avvertimenti per rendersi conto della loro situazione pericolosa. Le discussioni sulla strategia da mantenere si fecero intense: non mancava all’interno della leadership politico-militare belga una sorda diffidenza verso i potenziali alleati francesi; qualcuno suggerì che il Belgio si sarebbe dovuto comportare come alcuni piccoli Stati italiani e tedeschi nel XVII secolo, i cui territori erano stati ripetutamente violati dalle bande mercenarie delle potenze belligeranti, mantenendo comunque una rigida neutralità e limitandosi a proteste diplomatiche per non essere coinvolti nel conflitto. Ma il XX secolo non era il XVII, se il Belgio si fosse mantenuto neutrale anche in caso di invasione tedesca, l’Intesa avrebbe considerato il gesto come uno schierarsi dalla parte della Germania, come un lasciarle libero il passaggio verso la Francia. I belgi si resero insomma conto che l’unica alternativa sarebbe stata quella di combattere.
L’esercito belga era piccolo se paragonato a quello dei vicini, ma estremamente efficiente: per questo il titolo di questo articolo si riferisce alla piccolezza quantitativa non certo a quella qualitativa. Infatti, l’eccellente stato della rete ferroviaria belga riduceva di molto i tempi di mobilitazione; la favolosa rete di fortezze, facenti perno intorno a Namur e Liegi, era una delle più avanzate d’Europa; re Alberto si era occupato personalmente dei progressi delle sue forze armate; la tecnica delle armi pesanti era all’avanguardia.
Tuttavia, proprio l’unico vantaggio che aveva il Belgio e cioè la propria “innocenza” diplomatica, rischiava di trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Infatti, per non dare adito alla Germania di accusare i belgi di aver mobilitato per primi, questi ultimi erano costretti a ritardare il più possibile ogni provvedimento di tipo militare. Basti pensare che le prime discussioni sulla mobilitazione tra le autorità ferroviarie e il capo di stato maggiore belga, generale de Selliers de Moranville avvennero solo il 29 luglio 1914. Questo handicap agevolò l’invasione tedesca, anche se gettò tutta la responsabilità esclusivamente addosso agli invasori.


L’esercito belga era, grosso modo, costituito da una forza mobile di 117,000 uomini, ai quali vanno aggiunti i 200,000 che si adoperavano attorno e dentro le fortezze ma che erano per diversi aspetti inadeguati per scontri in campo aperto (e viceversa). La strategia belga, comunque, inevitabilmente, ruotava intorno alla difesa delle fortezze: se i tedeschi fossero stati trattenuti abbastanza, c’era speranza nell’arrivo dei francesi. Liegi, in particolare, era il pezzo forte della struttura: difesa da un anello di 12 forti, che Erich Ludendorff, il quale l’aveva visitata negli anni precedenti la guerra, sosteneva di poter espugnare in “48 ore”. L’attacco cominciò il 5 agosto: probabilmente già la sera di quel giorno Ludendorff, a capo delle operazioni, si rese conto che la sua previsione era stata ottimistica: i tedeschi avevano sofferto perdite pesantissime. Il 6 Agosto, gli Zeppelin bombardarono la città (la prima, in Europa, a subire un attacco aereo) uccidendo 9 civili. Dalla Germania si cercavano di far arrivare i calibri più pesanti, con un piccolo apporto austriaco (gli asburgici erano considerati, a torto o ragione, specialisti di artiglieria da montagna di grosso calibro), ma le ferrovie intasate a causa della mobilitazione resero lenti i progressi. Liegi infine, inevitabilmente, cadde dopo 11 giorni. La sua eroica difesa colse i tedeschi di sorpresa e ritardò la loro avanzata – secondo i calcoli di Hew Strachan- di due giorni (cifra che probabilmente non cambiò nulla nello svolgersi della campagna, ma che certo incrinò qualche sicurezza).
Il “Belgio martire” non è solo una storia inventata dalla propaganda. Infatti, la sua invasione, comunque la si voglia giustificare con esigenze strategiche, fu un atto di sopruso, la sofferenza alla quale fu esposta la popolazione, enorme. Gli stessi invasori sentirono prudere la loro coscienza: Bethmann Holwegg, primo ministro tedesco, dichiarò pubblicamente che il torto fatto ora sarebbe stato dal Reich riparato più tardi con adeguate compensazioni. Francia e Inghilterra ebbero le loro responsabilità nel seguire, innanzitutto, la loro strategia, senza preoccuparsi molto di supportare il piccolo Paese del cui coinvolgimento erano essi stessi indirettamente responsabili.

PER CHI VUOLE APPROFONDIRE

-Bitsch, Marie-Therese, La Belgique entre la France et l’Allemagne

-Strachan, Hew: The First world War, vol 1: To Arms!

-Zuber, Terence: Ten Days in August. The Siege of Liege, 1914.



sabato 31 luglio 2021

CEUX DE 14: EP. 1 ALLONS ENFANTS (a seguire QUANDO A STORIA...)

861_CEUX DE 14: EP. 1 ALLONS ENFANS . Francia, 2014; Regia di Olivier Schatzky.

Tratta dall’omonimo testo autobiografico di Maurice Genevoix, Ceux de 14 è una serie televisiva francese prodotta nel centenario dello scoppio della Grande Guerra. L’incipit del primo episodio ci proietta già in una fase cruciale del conflitto ma successivamente il racconto ritorna all’inizio, alla vita da borghese, frivola e spensierata, dello studente universitario Maurice Genevoix (Théo Frillet) che, in riva alla Marna, vediamo scherzare con Lucien (Baptiste Chabauty), Idalie (Esther Comar) e Yvonne (Marie-Ange Casta). La chiamata alle armi è accolta con entusiasmo dai giovani che, evidentemente, non avevano la minima idea di quello a cui sarebbero andati incontro; era però il clima dell’epoca. In questo capitolo iniziale, il regista Olivier Schatzky se la prende comoda e alimenta il tenore del racconto con un paio di pennellate metalinguistiche: il titolo Allons enfants che si rifà all’attacco della Marsigliese (l’inno nazionale francese) e i soldati blu ripresi in senso letterale e non solo per via delle divise. I volti dei militari appaiano infatti bluastri a causa di un fango sul volto nelle scene dell’introduzione che, come detto, ci mostra una fase successiva alle principali vicende narrate in questo episodio. Un aspetto sorprendente del film è quello ambientale: non le fangose trincee e la martoriata e brulla terra di nessuno a cui siamo abituati quando si parla della Prima Guerra Mondiale, ma la verde campagna francese: distese di prati a perdita d’occhio. La Grande Guerra è ancora agli arbori e ancora non si vedono i devastanti risultati che avrà anche sul paesaggio. 

Al termine della galleria fotografica del film, QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
IL PIANO SCHLIEFFEN: CRONACA DI UN DIBATTITO STORIOGRAFICO




Marie-Ange Casta


Appendice storica.

QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

IL PIANO SCHLIEFFEN: CRONACA DI UN DIBATTITO STORIOGRAFICO

Dal momento in cui, con la fine della guerra, in Germania si cominciarono a cercare le cause della sconfitta e ad elencarne i responsabili, si iniziò subito un dibattito acceso sui motivi per cui il piano tedesco iniziale per l’invasione della Francia, non riuscì a replicare la brillante vittoria del 1870.
In breve, il piano adottato dal capo di stato maggiore Helmuth von Moltke jr. era stato concepito dal suo predecessore, Alfred von Schlieffen (da cui il nome) e prevedeva un rapido attacco contro l’avversario che si sarebbe concentrato in meno tempo in uno spazio minore (la Francia) mentre si sarebbe dovuta mantenere una rigida difensiva contro l’impero zarista a oriente. La Francia avrebbe dovuta essere attaccata dal fiore dell’esercito tedesco, sei armate, delle quali quelle formanti l’ala sinistra e centrale avrebbero dovuto fornire attacchi di mero supporto a quella che era l’offensiva principale, che sarebbe toccata all’ ala destra dell’esercito (I, II e III armata) che avrebbe dovuto violare la neutralità belga per implementare le sue direttive d’attacco. L’obiettivo di questa gigantesca Canne avrebbe dovuto essere l’esercito francese e non la capitale, Parigi: l’esercito francese avrebbe dovuto essere circondato dall’ala destra tedesca e poi chiuso in una fatale morsa dall’intero esercito teutonico. La I armata, l’appendice estrema dell’ala destra, allo scopo di allargare ulteriormente la tenaglia, doveva disinteressarsi completamente di Parigi, anzi continuare la marcia tenendosi la capitale alla sua sinistra, in modo da includerla nell’ambiziosa operazione di accerchiamento. Una volta distrutto l’esercito francese, i tedeschi avrebbero rapidamente spostato tutti i soldati a oriente per un confronto finale contro l’esercito zarista che si prevedeva, a quel punto, avesse già finito la sua più complicata mobilitazione e iniziato le prime fasi offensive. Era centrale, secondo questo piano, una certa dose di rischio nello sguarnire il fronte orientale ma, soprattutto, nel rafforzare l’ala destra dell’esercito operante in Francia, a discapito dell’ala centrale e sinistra. Leggenda vuole che le parole di Schlieffen sul letto di morte fossero state: Rinforzate la destra!
Von Moltke jr. adottò la filosofia generale di questo piano, apportando alcune basilari modifiche, per cui gli storici preferiscono parlare di piano Schlieffen-Moltke. Innanzitutto, le forze sul fronte orientale seppure comunque decisamente minoritarie rispetto a quelle sul fronte opposto (una armata contro cinque) erano comunque superiori a quelle previste da Schlieffen, con la possibilità di essere ulteriormente rinforzate durante la campagna. Questo era un aggiornamento al piano che teneva conto delle grandi migliorie operate dall’impero zarista nell’ambito dei trasporti ferroviari (in gran parte finanziati da capitalisti anglofrancesi) con conseguente accorciamento dei tempi di mobilitazione. Inoltre, Moltke, tenendo conto che l’offensiva francese sarebbe caduta proprio sul lato sinistro e centrale dell’esercito tedesco rafforzò in parte queste due ali, a discapito della destra.

Il piano Schlieffen-Moltke finì sotto pesanti critiche ancora prima di essere utilizzato. Assolutamente contraria era la Kaiserliche Marine, la Marina tedesca, la quale comprendeva chiaramente che la violazione della neutralità belga avrebbe fatto scendere in campo gli inglesi con la loro terribile Royal Navy; gli austriaci lo vedevano come il fumo negli occhi, così lo Stato di Baviera; molti ufficiali dello Stato Maggiore erano scettici a riguardo, ma Moltke jr. vinse la battaglia argomentando che con questo piano si sarebbe sfruttato al meglio quello che era il vantaggio iniziale tedesco, cioè la rapidità della mobilitazione e la maggiore disciplina.
La storiografia classica ha sempre visto von Schlieffen come una specie di giocatore di scacchi, un uomo dalla cultura libresca senza contatti con la realtà, che voleva riprodurre sul campo di battaglia quello che leggeva negli scrittori classici sulla battaglia di Canne. Secondo questa visione, von Moltke era un po’ l’opposto: un uomo più insicuro, dalle credenze stravaganti (riteneva imminente la Parusia, la Seconda Venuta di Cristo), più attento ai rischi impliciti nel piano; da qui le sue modifiche, che se da una parte diminuivano i rischi, dall’altra annullavano drasticamente le possibilità di una rapida vittoria. La storiografia classica ha visto quindi il piano Schlieffen-Moltke come il progetto ambizioso, impossibile, di un pedante, corretto, per quanto possibile, in modo insicuro da un pragmatico che però non ebbe abbastanza carattere per cambiarlo del tutto.
Recentemente, il dibattito storiografico si è acceso di nuovo intorno al piano Schlieffen con toni anche aspri, principalmente dovuti alla personalità stravagante di Terence Zuber, lo storico americano che- come vedremo- ha contestato alla radice la lettura di cui sopra.
Non è l’unico: la storica Annika Mombauer nel suo capitale Helmuth von Moltke and the Origins of the First World War, finalmente smonta l’immagine di un von Moltke leader indeciso, quasi trascinato dagli eventi, costretto ad adottare un piano del quale lui, per primo, non era convinto. Mombauer dimostra invece il ruolo di von Moltke nello stesso processo decisionale che portò alla guerra, la sua ambizione di emergere come leader di una Germania vittoriosa, la sua personalità tutt’altro che debole nel costringere i riluttanti ad accettare il piano Schlieffen-Moltke e ad attenersi rigidamente ad esso.
Terence Holmes, da parte sua, argomentò dopo una serie di studi sulle fonti primarie che il piano Schlieffen originale prevedeva, sì, un attacco alla Francia, ma solo in caso di guerra con la sola Francia. In caso di entrata in guerra della Russia, secondo Holmes, Schlieffen avrebbe preferito un’altra strategia, più elastica e meno rigida.
In questo contesto fu pubblicato il libro-bomba di Terence Zuber, provocatorio fin dal titolo: Inventing the Schlieffen Plan. Inventare il piano Schlieffen. Terence Zuber, un ex ufficiale dell’esercito americano laureatosi in Storia in Germania, è un esperto della Battaglia delle Frontiere e della campagna tedesca del 1914. I suoi libri sono audaci, provocatori (ricordiamo The Mons Myth, nel quale distrugge il mito della battaglia di Mons, riducendolo a quello che è: una disastrosa sconfitta degli inglesi con ritirata alla si salvi chi può), però sono anche dettagliati, basati esclusivamente su fonti primarie. Il carattere di Zuber è spigoloso, difficilmente accetta tesi contrarie alle sue, come durante il dibattito con Holmes sul piano Schlieffen.
In breve, la tesi di Zuber è radicale: il piano Schlieffen è stato un mito creato ad arte negli anni ’20 da un gruppo di ufficiali che voleva trovare un capro espiatorio per il fallimento della campagna del 1914. Prova ne è, secondo Zuber, il fatto che Schlieffen non abbia mai stampato lo schizzo del piano – come fece con altri progetti operativi- ma che fosse appunto, solo uno schizzo, che semmai avrebbe dovuto dimostrare il contrario e cioè che la Germania NON AVEVA le forze necessarie per una grande battaglia di accerchiamento e quindi doveva tenere conto di questa debolezza nel preparare la guerra su due fronti. Secondo Zuber, né Schlieffen, né Moltke sognavano una rapida vittoria e una Canne in grande stile: il loro intento era di controbattere all’attacco francese, che si sarebbe sviluppato forzatamente verso la Lorena e le Ardenne (ala centrale e sinistra tedesca) con una sostanziale strategia elastica, che si sarebbe dovuta evolvere a seconda della reazione francese al fallimento dei loro attacchi – e i tedeschi erano sicuri di battere i francesi in Alsazia e nelle Ardenne. In questo contesto, le “modifiche” di Moltke, che prevedevano un’ala sinistra molto forte, non erano violazioni di un immaginario piano Schlieffen, ma semplici accorgimenti che vanno letti nell’ottica di questa strategia elastica difensiva-offensiva secondo la quale era vitale in primis parare il colpo francese sull’ala sinistra e poi reagire con decisione. Le offensive sull’ala destra, invece, erano previste per eliminare un problema piuttosto serio: i forti belgi e francesi che, in caso di difficoltà tedesca, sarebbero stati i perni attorno al quale il nemico avrebbe montato la sua offensiva verso il Reich.
In un certo senso, secondo la concezione di Zuber, gli eventi che portarono alla Marna non furono frutto di un piano prestabilito, ma di un duplice sviluppo della condotta alleata, che i tedeschi non si aspettavano fino in fondo: da una parte, le armate francesi in Lorena fallirono sì le offensive, come previsto, ma resistettero egregiamente al contrattacco tedesco anche in virtù di una eccellente tecnica ed utilizzo delle armi pesanti; dall’altra parte, proprio i forti belgi e francesi del nord, che suscitavano più timore, dopo una prima resistenza feroce, crollarono provocando una ritirata generale delle forze britanniche e francesi nell’area, una ritirata verso Parigi che attrasse l’ala destra tedesca al loro inseguimento e che aprì un gap fra due metà delle forze armate teutoniche, una vittoriosa e marciante (l’ala destra) e l’altra tenuta ferma dalla resistenza dei francesi. Non fu insomma l’aderenza ad un piano fisso prestabilito decenni prima a determinare la sconfitta dei tedeschi, semmai il contrario: fu la loro incapacità a implementare la strategia fluida sulla quale si basavano le premesse della campagna.

Hew Strachan, nel suo The First World War: To Arms! (primo libro di una tetralogia che purtroppo non sarà mai completata per problemi personali dell’autore), pur non addentrandosi nel dibattito, riconosce comunque che quello della “vittoria rapida” è un cliché post-bellico e storiografico. Gli Stati Maggiori di tutti gli eserciti erano consapevoli della superiorità tecnologica delle armi difensive su quelle offensive, per cui si aspettavano una guerra lunga. In questo senso, possiamo vedere i presupposti base del piano tedesco come persino realizzati: scardinare le “porte” della Francia (i forti), portare la guerra in territorio nemico, impedire una invasione della Germania da Occidente.
Sicuramente la tesi di Zuber contiene elementi di radicalità, come tutte le tesi nuove costrette a combattere per farsi strada, ma poggia su elementi di indubbio interesse che non possono essere ignorati dalla storiografia:
-non esiste, durante la carriera ufficiale di Schlieffen, alcuna pubblicazione ufficiale in merito al piano Schlieffen. Gli altri piani, invece, sono stati stampati e distribuiti agli alti ufficiali
-la tesi di un piano Schlieffen che prevedesse la scommessa totale sull’offensiva dell’ala destra è incompatibile con le “modifiche” di von Moltke, in particolare con il rafforzamento, quantitativo ma anche qualitativo, dell’ala sinistra e con la disponibilità di quest’ultima al contrattacco, la quale si evince dalle forti perdite.
-nessuno prima e durante la campagna del 1914 si è riferito al piano Schlieffen come ad una cieca scommessa sull’ala destra, dalla quale dipendeva il destino della guerra e del Reich stesso. Gli elementi negativi rilevati dai suoi critici erano in merito alla violazione della neutralità belga, che avrebbe automaticamente comportato l’entrata in guerra della Gran Bretagna. I difensori della strategia pensavano, invece, che l’Inghilterra sarebbe entrata in guerra ugualmente ed avrebbe usato i porti belgi a suo piacimento: per questo la violazione della neutralità era, dal punto di vista dei motlkiani, una necessità di guerra.
Intorno a questi che sono dati di fatto indiscutibili, il dibattito sul piano Schlieffen non si è ancora concluso oggi.