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giovedì 9 settembre 2021

JERICHO - DARK SAND

889_JERICHO - DARK SAND. Regno Unito, 1937; Regia di Thornton Freeland.

Risultato decisamente positivo, Jericho ha alle spalle una vicenda produttiva piuttosto curiosa. Intanto, che nel 1937, il centro della scena se lo prenda un attore di colore, è già una cosa abbastanza insolita: che poi il Jericho Jackson sia un valoroso con spiccate doti di leader, che nel film la faccia in barba all’esercito americano, diserti scampando la pena di morte, si rifaccia una vita nel Sahara, si sposi con la bella della nostra storia ed abbia anche un marmocchio, beh, ce da rimanerne stupefatti. Il Jericho in questione è interpretato dal colossale, in tutti sensi, Paul Robeson che sciorina un’interpretazione da navigata star del cinema condita da una serie di brani cantati con la sua potente voce baritono-basso. Robeson era americano ma, al tempo, si era quasi stabilito in Inghilterra, per via dei numerosi concerti ma nel frattempo partecipò alla realizzazione di alcuni film. Uno di questi è appunto Jericho, (il cui titolo quando successivamente uscì negli States fu Dark Sand). Curiosamente, il film, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, prende il via su una nave da guerra americana su cui viaggia un reparto di soldati, ufficiali a parte, composto da soli uomini di colore. Navigare nelle acque oceaniche nella Grande Guerra era pericoloso e, infatti, ecco saltare fuori il sommergibile tedesco di turno che prontamente silura la nave degli americani. L’imbarcazione sta colando a picco, c’è un fuggi fuggi generale ma alcuni uomini sono rimasti intrappolati dietro una pesante porta; il caporale Jericho Jackson si prodiga insieme ad un commilitone per aprire il pesante portello ma sopraggiunge un sergente che intima ai due di lasciare la nave. Jackson non ne vuole sapere e allora il sottoufficiale, forse per farsi ubbidire, estrae la pistola, il caporale, che è una mezza montagna, giova ricordarlo, lo spintona via. Il sergente cadendo picchia la testa e muore; intanto Jackon è riuscito ad aprire la porta e gli uomini intrappolati possono andare in salvo sulle scialuppe. Malignamente, si può notare come ad una produzione inglese sorrida un po’ l’idea di mostrare l’ottusità dei militari americani, in quanto Jericho finisce davanti alla corte marziale per aver disobbedito agli ordini e causato la morte di un superiore. 


Il capitano Mack (Henry Wilcoxon), diretto superiore di Jericho non si dà pace, conoscendo perfettamente il suo caporale e comprendendo, com’è evidente, che la morte del sergente era stata incidentale. Senza contare gli uomini salvati dall’operato di Jackson. Ma la disciplina militare non permette questi sentimentalismi e i tentativi di Mack sono vani; non resta che provare a scrivere direttamente a Washington, anche perché è Natale e magari si può sperare in un maggior grado di magnanimità. Vista la sua capacità canora, e la sua popolarità presso la truppa, Jackson chiede, e ottiene, di uscire di cella per partecipare alla funzione religiosa; Mack impegna la sua parola che il suo sottoposto non tenterà di fuggire. Ma un guardiano un po’ distratto e soprattutto la sua pistola troppo in vista, sono un’esca irresistibile per Jericho che, evidentemente, non deve nutrire troppa fiducia nella domanda di grazia. L’uomo riesce a fuggire e finisce a bordo di un peschereccio con cui fa perdere le tracce; il capitano Mack ne paga le conseguenze finendo degradato e condannato a cinque anni di carcere militare. Come si vede, si tratta di una vicenda abbastanza insolita ma siamo ancora nella prima parte del film e le sorprese non sono mica finite. Jericho e Mike (Wallace Ford) l’uomo con cui si trova a dividere la barca, finiscono in Nord Africa e l’area sahariana sarà il teatro delle operazioni per il resto del film. Il militare afroamericano aveva competenze mediche e questa sua capacità gli guadagnerà presto la stima e l’ammirazione delle popolazioni native. 

La sua naturale leadership, agevolata dalla possente figura e dalla potente voce, le fanno assumere la guida della sua tribù di beduini ma presto riunisce tutti i vari gruppi di nomadi e organizza una grande carovana per recarsi a prendere il sale. Tra le altre cose, sgomina una banda di predoni e si sposa con la bella Gara (Princess Kouka); insomma, un clamoroso ritorno al continente d’origine, per un afroamericano! Ma naturalmente qualcosa manca all’appello dei conti da saldare: Mack, terminato di scontare la sua condanna, nonostante la guerra sia finita, vuole essere riabilitato e si mette in moto per cercare di trovare quel fuggitivo che gli ha rovinato la carriera. 

Con una serie di opportune combinazioni narrative, Mack scova dove è finito Jericho vedendolo in un reportage cinematografico. A quel punto l’ex capitano si precipita nell’accampamento del suo vecchio caporale che, sul momento, lo accoglie calorosamente. Era stato proprio grazie all’intercessione di Mack che Jericho aveva avuto la sua chance, infatti. Il nuovo venuto ha però intenti non proprio amichevoli, in quanto vuole riportare il caporale Jackson di fronte alla corte marziale. La situazione si fa tesa, Jericho comprende di aver causato dei guai al suo capitano e si dimostra dispiaciuto, Mack, da parte sua, comprende la buona fede dell’amico. Ma, mentre discutono per arrivare a queste conclusioni, gli uomini di Jericho vedono l’atteggiamento minaccioso dello straniero e si agitano. A quel punto è Jericho a dover aiutare Mack nella fuga con una situazione completamente ribaltata rispetto a quanto avvenuto in precedenza. La cosa è rimarcata anche figurativamente: se un bianco aveva aiutato un nero a fuggire una prima volta, ora è Jericho, nel suo bianco mantello sahariano, ad aiutare Mack, con il lungo giubbotto nero da pilota, a levarsi di torno. Jericho, sempre impulsivo, quando arrivano all’aereo vorrebbe addirittura partire con Mack, per aiutare il suo capitano a riscattarsi. Ma il capitano lo beffa, lasciandolo a terra e regalandogli il meritato lieto fine trionfale. Il tutto, ovvero un film in cui un personaggio di colore è l’assoluto protagonista, non paga le ingiuste condanne, diviene il capo di un popolo assai più chiaro di carnagione come sono i beduini nordafricani, si sposa l’unica donna in circolazione, ha un figlio e ottiene il perdono dall’amico, in un’opera in cui ci si riferisce al nostro con il termine di negro (nell’inglese originale). Alla faccia dei benpensanti di oggigiorno. 


Princess Kouka



mercoledì 8 settembre 2021

IL SERPENTE BIANCO

888_IL SERPENTE BIANCO (Mamba)Stati Uniti, 1930; Regia di Albert S. Rogell.

Leggendario film che si pensava fosse perduto, Il Serpente Bianco, o Mamba nell’originale, è un’opera che riserva una notevole quantità di aneddoti curiosi. Uscito agli arbori degli anni ’30, è stato il sesto lungometraggio a colori della storia del cinema, il primo tra questi a non essere un musical e il primo a non essere prodotto dalla Warner Bros. Il Serpente Bianco fu infatti realizzato dalla Tiffany Production, uno studio specializzato in Powerty Row, ovvero pellicole a basso costo, che per altro per il film di Rogell azzardò una produzione in grande stile. Il successo al botteghino del film non evitò allo studio quei problemi finanziari che lo portarono alla rapida chiusura. E senza che ci fosse qualcuno che si preoccupasse degli archivi della casa di produzione: si dice che i negativi originali del catalogo Tiffany furono usati sul set di Via col Vento (1939, di Victor Fleming) per alimentare gli incendi sulla scena(!). Tra questi, naturalmente, c’è chi ipotizzò ci fossero appunto gli originali de Il Serpente Bianco che, fino alla clamorosa scoperta di una copia australiana, sembrava un film andato perduto. Invece, nel 2009 venne rinvenuta la suddetta copia che però era priva di sonoro; fortunatamente all’UCLA Film & Television Archive erano custoditi l’audio e un paio di bobine a colori, insomma, Il Serpente Bianco poteva tornare in vita! Il film, in sé, non è certo un testo imprescindibile ma presenta alcuni aspetti anche più interessanti delle traversie citate. Mamba, il soprannome con cui era conosciuto August Bolte (Jean Hersholt) è un bieco individuo, razzista e violento. 

Proprietario terriero in quel di New Posen, nell’Africa orientale tedesca, maltratta i lavoratori africani al suo servizio e non esita ad approfittare sessualmente delle donne. Persino i militari dei presidi della zona, siamo alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, siano essi inglesi o tedeschi, lo evitano come la peste. Per cercare di rifarsi una reputazione si sposa con la bella Helen von Linden (Eleanor Boardman) una nobile in difficoltà economica che si sacrifica romanticamente per salvare il padre dalla rovina. Quando scoppia la guerra, Bolte, per evitare di essere arruolato e coinvolto nel conflitto, sobilla strumentalmente la rivolta degli indigeni; insomma, un individuo davvero spregevole a cui Jean Hersholt dedica però un’interpretazione memorabile. Sullo sfondo della guerra, con gli indigeni in subbuglio, in primo piano si staglia la lotta tra l’eroe e il cattivo, con Karl von Reiden (Ralph Forbes), un ufficiale tedesco, che cerca di salvare la bella Helen dalle grinfie del terribile Bolte. Incendiato da colori sgargianti, soprattutto i verdi e i rossi, spregiudicatamente dotato di un fascino malsano, Il Serpente Bianco non sarà un capolavoro della settima arte ma il suo recupero integrale e un’adeguata facilità di fruizione sono fortemente auspicabili. In mezzo alla mediocrità del politicamente corretto tanto in voga oggi, è puro ossigeno narrativo.







Eleanor Boardman



martedì 7 settembre 2021

BIANCO E NERO A COLORI

887_BIANCO E NERO A COLORI (La victoire en chantant). Costa d'Aviorio, Francia, Germania e Svizzera, 1976; Regia di Jean-Jacques Annaud.

Premiata con l’Oscar per la miglior pellicola straniera nel 1977 in rappresentanza della Costa d’Avorio, Bianco e Nero a colori di Jean-Jacquest Annaud è un’opera strepitosa. E’ difficile pensare oggi ad un linguaggio tanto lontano dal politicamente corretto quanto è quello che si respira in Bianco e Nero a colori: non solo viene messo alla berlina il colonialismo europeo con graffiante sagacia, ma non sono risparmiate ficcanti stoccate anche alle ideologie occidentali più illuminate e persino gli africani sono tratteggiati senza alcuna reticenza. Ed è proprio sotto questo aspetto che il film di Annaud vince a mani basse la sua partita: è un terreno che doveva essere scivoloso anche al tempo (e oggi totalmente impraticabile) ma l’intelligenza e l’acume del regista riescono a inquadrare sempre il racconto in modo inequivocabile, scongiurando qualsiasi possibile obiezione di razzismo o qualunquismo ideologico. Così i francesi sono mostrati nella loro sciocca arroganza, i tedeschi nell’ottusa intransigenza, gli africani dei villaggi nell’opportunismo senza pudore e quelli della savana allo stadio quasi primitivo ma, grosso modo tutti quanti, sempre pronti a cavalcare l’onda giusta nel momento che capiti. Fresnoy (Jacques Splesser) il giovane geografo, intelligente ed istruito (insomma, uno che sembra essere meno ottuso degli altri), una volta acquisito il prestigio approfitta subito dei privilegi connessi. E peggio di lui fanno la sua donna, la ragazza africana con cui decide di accompagnarsi, e Barthelémy (Marius Beugre Boignan), nativo che si comporta al volo da arrivato appena il suo superiore Fresnoy acquista il potere in quel di Fort Coulais. 

La vicenda è infatti ambientata nello sperduto avamposto dell’Africa Equatoriale Francese, abitato da un pugno di bianchi che gestiscono una sorta di posto di commercio. I possedimenti coloniali tedeschi sono ad un tiro di schioppo e siamo nel gennaio 1915: che cosa ci fanno, allora, Kraft (Dieter Schidor), ufficiale dell’imperatore Guglielmo II, e i suoi askari, tranquillamente all’interno dell’insediamento francese? Qui cominciano le cose buffe del racconto, che la musica di Pierre Bachelet accompagna adeguatamente: pare che, da quelle parti, nell’Africa equatoriale, non sia ancora giunta la notizia dello scoppio della Grande Guerra. Che arriva giusto a quel punto con un pacco di giornali recapitati a Fresnoy. Uno dei passaggi più spassosi dell’opera è proprio legato alle reazioni dei coloni francesi di Fort Coulais alla lettura dei giornali da parte del geografo: “Jaures è stato assassinato!” esclama sgomento Fresnoy, e il sergente Bosselet (Jean Carmet), l’unico militare bianco nell’avamposto, alza le spalle mal celando la sua ignoranza nel merito. Il geografo si acciglia e smette di leggere ad alta voce mentre padre Simon (Jacques Monnet) afferra un altro quotidiano e si lascia sfuggire una esclamazione non proprio consona alla sua veste: “Dio del Paradiso! Amici miei, siamo in guerra!”. 


Ecco una notizia che sembra poter scuotere il serafico Bosselet: “Siamo chi?”. “Noi, la Francia.” Risponde l’altro religioso, padre Jean de la Croix (Peter Berling) che intanto ha preso un altro giornale. Naturalmente i quotidiani sono dell’agosto del 1914, evidentemente c’è un certo ritardo nel consegnare la posta nell’Africa Equatoriale. E quindi Caprice (Maurice Barrier), uno dei commercianti del forte, si chiede come sia andata a finire quella guerra scoppiata ormai da mesi ma i giornali più recenti sono del 13° agosto, con la Grande Guerra assai lungi dall’essere conclusa in qualche modo. Per lo strampalato ritrovo di persone rimane un altro interrogativo, formulato dalla bella Marinette (Catherine Rouvel, deliziosa), consorte di Caprice, che domanda chi sia il nemico contro cui si combatte. 

Contro la Germania, ovviamente”, risponde padre Simon, sorprendendo Paul Rechampot (Jacques Dufilho), gestore dell’altro emporio del forte e convinto che la guerra fosse contro gli inglesi. Paul si allarma subito ma non perché il nemico tedesco sia vicinissimo, ma bensì perché ha appena fatto credito di quasi 58 franchi a Kraft. E’ solo al quel punto, mentre Paul si lamenta col fratello Jacques (Claude Legros) e Maryvonne (Dora Doll), giunonica moglie di uno dei due Rechampot (o di tutti e due?), dei soldi persi ora che la Germania non onorerà certo i debiti con un emporio nemico, che Caprice focalizza che il fronte è appena al di là del torrente. Questo è il divertente prologo alle azioni militari, che andranno dal reclutamento dei nativi nelle assai improvvisate truppe coloniali francesi, alla prima vera e propria azione di guerra, l’attacco a sorpresa dell’insediamento tedesco. La natura farsesca dell’operazione, che somiglia ad una carnevalata inconsapevole, non ne evita il fallimentare e tragico risultato, a riprova della validità del testo filmico che, pur nel suo essere leggero, non manca di momenti altamente drammatici. Gli sviluppi della situazione, l’ascesa carismatica di Fresnoy e, a quel punto, il suo rivelarsi non certamente molto più degno dei suoi compari di avventura, il comportamento ambiguo dei religiosi, le meschinità dei coloni e le bizzarrie dei nativi, tutto coopera alla riuscita di un quadro cinico, disilluso ma anche tanto, tanto divertito e divertente. Si ride per non piangere, ovviamente, ma che altro si può fare. Non tanto per quel che vale l’Oscar, un premio di una associazione privata con evidenti conflitti di interessi, ma in questo caso si tratta di un riconoscimento strameritato. 







Catherine Rouvel



lunedì 6 settembre 2021

L'ULTIMA PATTUGLIA (a seguire QUANDO LA STORIA... )

886_L'ULTIMA PATTUGLIA (Die Reiter von Deutsch-Ostafrika)Germania, 1934; Regia di Herbert Selpin.

Agile film d’avventura di matrice bellica, L’ultima Pattuglia di Herbert Selpin è ambientato in Africa Orientale allo scoppio delle ostilità della Prima Guerra Mondiale. I titoli di testa si aprono accompagnati da un’efficace musica che riecheggia una carica di cavalleria; in effetti, il titolo originale, Die Reiter von Deutsch-Ostafrika significa I cavalieri dell’Africa Orientale Tedesca. Il bianco e nero, forse troppo contrastato, non è particolarmente adatto al tipo di storia, con le tante scene che si svolgeranno in ombra e che diventano inevitabilmente troppo scure. Peter Hellhoff (Sepp Rist) e sua moglie Gerda (Ilse Stobrawa) sono coloni tedeschi e la loro fattoria è frequentata dall’inglese Cresswell (Peter Voß), anch’egli colono. Entrambi gli uomini ricevono la chiamata alle armi: mentre Peter si unisce alle Schutztruppe, le truppe coloniali tedesche, un reparto di militari inglesi, alla cui guida troviamo proprio Cresswell, occupa la fattoria degli Hellhoff. I britannici stanno presidiando tutti i luoghi dove si possa attingere acqua potabile, per costringere i nemici alla resa. Gerda, aiutata dal giovanissimo Klix (Rudolf Klicks), si mantiene in contatto col marito grazie all’uso dei piccioni viaggiatori. Cresswell sospetta qualcosa ma non prende provvedimenti, pur avvisando l’amica che, per un civile, uomo o donna che sia, aiutare i militari significa rischiare di essere messo a morte in qualità di spia. Ma l’impressione è che l’ufficiale inglese mai arriverebbe a tanto. Del resto la prospettiva della storia, pur se il film è del 1934, ovvero quando in Germania aleggiava già un’aria piuttosto pesante, non è affatto partigiana e, nel complesso, le parti in causa sono mostrate in modo abbastanza imparziale. Tanto che, nel 1939, il regime nazista proibì l’opera per il suo essere troppo tollerante nei confronti dei nemici inglesi. E va detto che anche nei confronti delle genti indigene c’è uno sguardo tutto sommato umanitario, fatta la tara dell’epoca. Probabilmente la vicenda risente di buona influenza legata alla reputazione degli Askari, le truppe africane al servizio dell’Impero Tedesco. Naturalmente l’indole austera germanica pretende anche in un film leggero come L’ultima Pattuglia il sacrificio di rito che, guarda caso, spetta al più giovane del lotto, il povero Klix. Il ragazzo offre la sua vita per portare l’acqua ai disperati soldati suoi connazionali: sulla sua tomba Peter gli promette di tornare, auspicio che si fonda sulla certezza di vincere la guerra. Per quel che conta, il povero Klix, starà ancora aspettando. 

Al termine della galleria fotografica del film, QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
WAKA WAKA - I TEDESCHI CHE NON SI ARRESERO





 Ilse Stobrawa



Appendice storica.

QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

WAKA WAKA

I TEDESCHI CHE NON SI ARRESERO

Il fronte africano rappresenta una peculiarità rispetto agli altri scenari della Grande Guerra; non solo perché, ovviamente, i campi di battaglia si trovavano su un altro continente rispetto agli eserciti delle nazioni belligeranti; ma, in un certo senso, il conflitto si svolgeva in una maniera praticamente antitetica rispetto ai fronti bellici europei; se in Europa, eserciti di milioni di uomini si scontravano in pochi chilometri quadrati dando origine alla guerra di trincea, in Africa pochi uomini si affrontavano lungo distese di territorio immense, delle quali loro per primi spesso perdevano il controllo. Ci furono battaglie decise dagli insetti. La guerra africana, scostandosi dalla controparte europea, così brutale, grigia, quasi meccanica, conservò un alone di romanticismo che la fa guardare, a tutt’oggi, nonostante i molti morti e le tragedie, con un pizzico di ammirazione e di rispetto in più.
Il conflitto africano si rese inevitabile in un’epoca ancora prettamente coloniale, nella quale gli europei controllavano una parte maggioritaria del territorio africano, qualcosa che era accettato universalmente come normale allo scoppio delle ostilità. Le piccole colonie tedesche furono quasi tutte assorbite subito dall’Impero Britannico, tutte tranne l’Africa Orientale Tedesca, corrispondente grosso modo alla Tanzania, Ruanda e Burundi di oggi; un investimento importante in questa colonia aveva fornito ai tedeschi delle infrastrutture e un piccolo esercito con i quali tormentare gli inglesi a oltranza. La speranza di vittoria era praticamente nulla per il piccolo esercito coloniale del colonnello Paul Emil von Lettow-Vorbeck, ma nonostante questo i tedeschi africani combatterono ad oltranza, ligi al dovere patriottico di distrarre quanti più soldati inglesi (e più tardi, portoghesi) possibile dai fronti europei principali. L’11 settembre 1918 al momento dell’armistizio, von Lettow-Vorbeck e i suoi africani erano ancora armi in pugno: le deposero solo tre giorni dopo quando dall’Europa arrivò la notizia della resa del Reich. Essi sostennero che fu il Reich ad arrendersi. Non loro. La vittoria alla battaglia di Tanga, nel Novembre 1914, durante la quale in un migliaio, perlopiù ascari, volsero in fuga i quasi 9000 uomini del comandante britannico Aitken, rimane la loro impresa più nota e celebrata.


Una delle epopee africane più interessanti, rimane comunque quella dell’incrociatore Koenigsberg. Questa nave era un fiore all’occhiello della Hochseeflotte, la marina militare tedesca, con una velocità, per l’epoca notevole, di 24 nodi e un armamentario capace di incutere parecchio timore, con i suoi due tubi lanciasiluri, due cannoni da 88 mm e dieci da 105 mm.
Quando il 25 Aprile 1914 la nave lasciò il porto di Kiel con una pomposa cerimonia, i suoi due comandanti, Fregattenkapitaen Max Loof, che aveva preso le redini solo pochi giorni prima, e Korvettenkapitaen George Koch sicuramente non sospettavano che non avrebbero fatto più ritorno in Europa… non con la loro nave almeno. In quella che era una esibizione del potere navale tedesco fortemente voluta dall’ammiraglio von Tirpitz, il segretario di Stato Imperiale per la Marina, la Koenigsberg con una larga crociera che lambì i maggiori porti europei e coloniali, arrivò infine a giugno a Dar-es-Salaam, la capitale dell’Africa Orientale Tedesca. La giocosa atmosfera coloniale non era però purtroppo replicata in Europa, dove le nubi di guerra, di mese in mese, si facevano sempre più dense. Questo aveva naturalmente un riflesso sull’atteggiamento delle navi da guerra, anche quelle più distanti dalla madrepatria come il Koenigsberg. Gli ultimi giorni di luglio Max Loof ricevette da Berlino il preciso ordine di prendere il mare, cosa che fece il 31 luglio attorno alle quattro del pomeriggio, seguito da lontano dalla piccola flotta inglese dell’ammiraglio King-Hall, che ne aveva previsto le mosse. Loof quindi si trovò pronti e via circondato da tre navi da guerra inglesi, l’Astrea, la Hyacinth e il Pegasus, armate molto pesantemente ma abbastanza più lente del Koenigsberg. 

Usando la sua maggiore velocità e il suo carbone di maggiore qualità, Loof seminò la sua scorta inglese il primo agosto, approfittando di una piccola burrasca che mise in difficoltà i britannici ma non il più moderno Koenigsberg. Il 5 agosto la parola in codice “enigma” fu ricevuta dai marinai in attesa: quella parola significava guerra con l’Intesa. Il tenete Richard Wenig, uno dei molti giovani ufficiali del Koenigsberg, così ricorda le sensazioni al ricevimento della notizia: “Strano. La luna brilla come prima, il mare romba, l’attrezzatura a bordo fa lo stesso rumore di sempre. Niente è cambiato! Com’è possibile? La luna non dovrebbe nascondersi tra le nuvole? Il mare non dovrebbe tingersi di nero? Niente di tutto ciò! Essi ridono delle umane cose. Cosa interessa il litigio di alcuni microbi all’immenso universo?”

In pieno mare africano, in effetti, nulla sembrava cambiato. Ma la storia aveva mai preso una piega molto differente, l’Europa coloniale, nella quale Wenig e i suoi compagni erano cresciuti, stava per vivere i suoi ultimi, terribili anni.
Loof, sicuramente meno romantico di Wenig, ma parecchio pratico, stabilì subito la priorità: carbone. Aveva lasciato a Dar-es-Salaam tutte le sue scorte ed era intelligente abbastanza da capire che un rientro nella colonia lo avrebbe esposto al ritorno della flotta inglese; preferì arrangiarsi come poté e lo fece brillantemente, contattando mercantili tedeschi qua e là e catturando il primo mercantile inglese dell’intera guerra, il City of Winchester. Le cose sembravano andare abbastanza bene, con il Koenigsberg capace anche di trovare un punto di ritrovo con altre navi tedesche nella Somalia italiana e fare buona scorta di carbone quando, il 19 settembre, Loof apprese che una nave da guerra inglese era a Zanzibar: il Pegasus del capitano J.A.Inglis.
Loof decise di compiere un’azione che ricorda le guerre dei pirati, o dell’Armada spagnola: di sorpresa, battendo bandiera da battaglia, apparve nel porto di Zanzibar e aprì il fuoco sulla Pegasus la quale era scarsamente protetta, in parte sentendosi al sicuro e anche per via di alcune riparazioni che doveva fare. Dopo venti minuti il porto di Zanzibar era tutto circondato dal fumo, mentre la Pegasus era in fiamme, essendosi beccata 200 colpi dal Koenigsberg, con 31 membri dell’equipaggio caduti. La Koenigsberg non aveva subito un colpo. La risposta degli inglesi fu quella di mandare contro il Koenigsberg il rimorchiatore armato Helmuth, il quale si era già distinto in negativo per essersi fatto sfuggire il Koenigsberg da sotto il naso mentre quest’ultimo si avvicinava a Zanzibar. Al suo apparire, l’Helmuth si beccò tre proiettili ed esplose, mentre i marinai si gettavano nelle acque infestate dagli squali.

La vittoria del Koenigsberg in un campo, quello navale, considerato specificatamente inglese, esaltò molto l’opinione pubblica tedesca ma non agevolò la posizione di Max Loof, che si trovava da solo a compiere azioni di pirateria, in un fronte marino i cui porti erano controllati dagli inglesi.
La situazione fu resa ancora più complessa in quanto, a poche ore dalla vittoria, una grave avaria alle caldaie costrinse il Koenigsberg allo stop. Non fidandosi a tornare a Dar-es-Salaam, Loof fermò il Koenigsberg nel delta del fiume Rufiji. Gli ascari provvidero a portare, via terra, i pezzi da riparare a Dar-es-Salaam, mentre i marinai sbarcarono le mitragliatrici e si diedero da fare per camuffare la nave coprendola con fronde d’albero e cespugli.
Gli inglesi non stavano inoperosi nel frattempo. Lo smacco subito con il bombardamento di Zanzibar rischiava di compromettere il loro prestigio presso i portoghesi e le popolazioni indigene. Inoltre, si trattava pur sempre della presenza di un incrociatore ultima generazione che svolgeva azioni di pirateria in acque coloniali britanniche. 

Il Koenigsberg andava fermato e la priorità della flotta coloniale inglese fu la caccia all’incrociatore. I guai, per i britannici, non finirono quando finalmente il 3 novembre il nascondiglio del Koenigsberg nel delta del Rufiji fu localizzato. Il comandante inglese Drury-Lowe, capendo l’urgenza del momento, affondò un mercantile davanti al delta del fiume per impedire al Koenigsberg di riprendere il mare e replicare un raid come quello su Zanzibar. Purtuttavia, Drury-Lowe non riusciva a colpire il Koenigsberg, troppo ben scelto era il rifugio di Loof, le navi britanniche avevano un pescaggio eccessivamente alto e non riuscivano a portarsi a tiro dell’incrociatore tedesco. Clamorosamente, fu necessario l’intervento diretto di Londra, che inviò due monitori per lo scopo, il Severn e il Mersey. Il primo attacco portato da questi il 6 luglio 1915 fu un mezzo fiasco: pur portando a segno qualche colpo, i due monitori furono colpiti a loro volta e costretti alla ritirata. Il Koenigsberg, già ammantato di un’aurea leggendaria, sembrava veramente stregato per gli inglesi. Un nuovo attacco fu portato l’11 luglio. Gli inglesi, meglio organizzati, riuscirono finalmente a trovare una buona direttrice di tiro nei confronti del Koenigsberg che lottò comunque fino allo stremo, al costo della vita di una trentina di membri dell’equipaggio. Verso sera, Loof realizzò che aveva fatto quello che aveva potuto: per un anno aveva menato l’intera flotta inglese in Africa dietro di sé come al guinzaglio, permettendo ai mercantili tedeschi di rifornire le colonie e di tenere i contatti con la madrepatria, oltre che ad agevolare la campagna di terra di Lettow-Vorbeck. Non era possibile fare di più. Affondò la sua nave, ma rifiutò di arrendersi, unendosi alle forze di terra del colonnello von Lettow-Vorbeck con le quali vissero l’avventurosa campagna africana.
Ma questa è un’altra storia.