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lunedì 17 ottobre 2022

CRY MACHO

1135_CRY MACHO - RITORNO A CASA (Cry Macho). Stati Uniti 2021;  Regia di Clint Eastwood.

Terzo capitolo di quella che per ora è una sorta di trilogia sulla vecchiaia, Cry Macho non è certamente il film migliore di Clint Eastwood tantomeno il più memorabile. Ma è anche comprensibile: il ruolo è ancora quello del vecchio leone ma in Gran Torino, il primo film di questa ipotetica trilogia sceneggiata dal fido Nick Schenk, Clint aveva 78 anni, in Cry Macho 91. E proprio una prima traccia di questa sua ultima fatica è legata al tempo: se Earl Stone, il protagonista di Il corriere – The Mule, l’altro dei tre film in ballo, era un tizio che arrivava in orario sbrigando velocemente ogni contrattempo, Mike Milo in Cry Macho si prende il tempo che gli sembra necessario. Deve portare il giovane Rafo (Eduardo Minett) dal Messico in Texas da suo padre in una storia che, a raccontarla, sembrerebbe certo più noiosa e meno interessante di quanto la regia classica di Eastwood riesca a renderla sullo schermo. Ne è consapevole anche il patriarca, che di storie di questo tipo ne ha interpretate e dirette, oltre che viste, a dozzine; c’è un passaggio in cui Milo lo dice esplicitamente. La disquisizione sul termine Macho, che Rafa ha affibbiato al suo gallo da combattimento, permette a Clint/Milo di chiarire ulteriormente come non sia più tempo di eroi o presunti tali e tantomeno delle storie che li vedono protagonisti. Anzi, a dirla tutta il vecchio sembra convinto che quel tempo non sia mai esistito e si sia trattato di un enorme bluff. Eppure, la vicenda, che come detto non è niente di che, è costellata da continui rimandi metalinguistici che ripercorrono, in modo a volte estemporaneo ma simbolicamente significativo, la filmografia di Eastwood. Degli altri film dell’ipotetica trilogia sulla vecchiaia si è detto, ma sono evidenti i riferimenti ai lungometraggi in cui il nostro ha interpretato il cowboy e perfino a quelli del gringo negli spaghetti di Sergio Leone. Se un uomo e un ragazzo in viaggio possono ricordare Un mondo perfetto (1993), la conoscenza del linguaggio dei segni dei sordomuti potrebbe richiamare Mystic River (2003), fino al ballo con Marta (Natalia Traven) che ripropone un Eastwood galante quanto ne I ponti di Madison County (1995). Anche nel loro semplice abbozzo queste citazioni non sono gratuite: Cry Macho si assume, in effetti, la responsabilità sull’intera carriera del cineasta. E dalla tag-line dell’edizione italiana, che recita Ritorno a casa, fino alle stesse vedute panoramiche sul cielo del deserto nordamericano al tramonto, tutto lascia intendere che siamo di fronte ad un testo nostalgico. Niente di più sbagliato. 

Sono false piste perché Milo, come fa notare al suo ex datore di lavoro quando se lo ritrova in casa, non chiude a chiave la porta: tanto non ha niente di valore che possa venire rubato. Tutta una carriera di successi, anche nel film il protagonista ha vinto numerosi premi, eppure niente di ciò ha più alcun valore e, come spiegherà poi a Rafo, neppure lo ha mai avuto. Per questo anche Leta (Fernanda Urrejola) e i suoi scagnozzi sono così ridicolizzati dalla storia, che è ovviamente vista dalla prospettiva della regia di Eastwood. I cattivi di questa vicenda inseguono proprio quel tipo di affermazione, basato sulla forza, sulla violenza, sulla vittoria, atteggiandosi esattamente a tipici machi, un’affermazione che Clint/Milo ha capito in prima persona non avere alcuna valenza. 

Ma anche questa morale che pervade il film lo fa in modo ironico e sfumato, visto che sarà proprio un Macho, in questo caso il gallo di Rafo, a cavare d’impiccio i nostri con un intervento a suo modo violento. Del resto lo stesso Milo all’occorrenza un cazzotto lo rifila, se serve, perché non si tratta di rinnegare l’utilizzo della forza ma comprendere che non si può basare tutto sull’essere il migliore perché questo, alla lunga, spesso può provocare il ricorso a metodi violenti per imporsi. E’ una sorta di rifiuto del Sogno Americano, insomma, che Clint Eastwood ha incarnato per decenni nel suo essere il perfetto eroe del cinema. Eppure, se è vero che come il Ringo di John Wayne in Ombre Rosse (1939, di John Ford) Milo sceglie il Messico e non gli Stati Uniti, c’è ancora qualcosa da capire. 

Nel corso della storia Milo ha appreso che Polk (Dwight Yoakam), padre di Rafo e suo ex datore di lavoro, rivuole con sé il figlio non per amore paterno ma per via di alcuni investimenti fatti a nome del ragazzo. E per questo stesso motivo sua madre Leta non voleva lasciarlo partire. Quando apprende questo Rafo va in crisi ma Milo non gli propone di tornare con lui da Marta, nel paesino messicano. Polk ha un grande ranch, è un uomo ricco: è giusto che Rafo faccia la sua scelta. Sarà una buona idea unirsi al padre con simili presupposti? Rafo decide di andare a scoprirlo e si incammina verso la frontiera degli Stati Uniti. E’ la scelta giusta? Probabilmente no. Anzi, sicuramente no, basta aver visto Cry Macho per rendersene conto. John Ford, quando inaugurava il western classico con il citato Ombre Rosse, aveva già capito che il Sogno Americano, che il western avrebbe cantato in modo epico – e nessuno mai come il vecchio patriarca – era un bluff.
Ma per arrivarci c’è solo un modo valido: andare a vedergli le carte. Si chiama libertà di scelta. Proprio quella che oggi costantemente cercano di toglierci e meno male che se ne può trovare ancora un po’ al cinema. Almeno in quello serio.     



Natalia Traven 


Fernanda Urrejola



 Galleria di manifesti 



giovedì 18 agosto 2022

FROST

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1075_FROST . Lituania, Francia, Ucraina, Polonia, Svizzera, Monaco, 2017;  Regia di Sharunas Bartas.

C’è un dialogo, in Frost di Šarūnas Bartas, che è emblematico e non solo del film lituano del 2017 ma un po’ della situazione generale. Rokas (Mantas Jančiauskas), è un tranquillo ragazzo e ha sorprendentemente accettato di guidare un camion di trasporti umanitari dalla sua Lituania fino nell’est dell’Ucraina, dove infuria la guerra civile. Lo accompagna la fidanzata Inga (Lyja Maknavičiūtė), ragazza non certo bellissima e dal carattere taciturno, ma non del tutto passivo, che costituisce con Rokas una coppia non proprio ideale, da un punto di vista strettamente narrativo, per quello che si presenta a tutti gli effetti come un road movie. Perché se speriamo che siano i dialoghi tra i due a dare ritmo alla storia stiamo freschi; ma non è questo il senso del titolo del film. Del resto da un’opera di Bartas non è che ci si aspetti una narrazione forte, travolgente; però il regista sa molto bene il fatto suo e insieme ai due protagonisti ci porta nel cuore di quell’Europa che, per tanti occidentali, è invece ai margini dell’area di interesse, come dice sostanzialmente uno dei presenti alla sorta di festa nell’hotel in cui i nostri si fermano lungo la strada. Piuttosto, l’Ucraina è terra di confine, lo si ribadisce sempre nei dialoghi tra i presenti al party, una convention tra individui liberal chic tra cui è impossibile non restare affascinati dalla classe di Vanessa Paradis (nel ruolo di una giornalista un po’ disillusa). Il punto è che, sempre stando alle parole che si scambiano all’hotel i presenti, il concetto di confine è una cosa relativa; ora la guerra in Ucraina può interessarci per una questione di vicinanza geografica, mentre quella in Siria meno e altre in aree più remote del mondo, dalla nostra prospettiva europea, ancora meno. 

In sé è un concetto banale, ovvio, ma sdogana, in un certo senso, la generale indifferenza. Se ci sono indifferenti i morti nei conflitti in Africa, che capita comunque di vedere alla televisione o di averne in qualche modo notizia, perché mai dovrebbero preoccuparci quelli dell’Ucraina? Beh, forse occorre cambiare approccio alla cosa. Non a caso il protagonista del film, e il film stesso, è lituano; ovvero di un’altra zona di confine, una repubblica baltica ai confini e mai realmente al centro dell’Unione Sovietica prima e della scena europea ora. Chi meglio di un uomo che vive ai margini (della Comunità Europea) che si reca in una terra di confine (secondo alcune interpretazioni linguistiche, Ucraina significa appunto terra di confine) può simbolicamente interpretare lo stato d’animo apatico e fuori fuoco in cui ci troviamo un po’ tutti quanti? 

Da un punto di vista narrativo, non è nemmeno tanto chiaro perché Rokas accetti un simile incarico: non si parla di lavoro, in quanto non si fa menzione a nessuna paga. E’ un favore che fa ad un amico e questo sarebbe comprensibile, se non fosse che trasportare aiuti umanitari fino in zona di guerra non è una cosa particolarmente plausibile. Oltretutto affrontando un viaggio lunghissimo attraverso territori non propriamente turistici; ma Bartas è un narratore saggio ed evita di approfondire le motivazioni che spingono Rokas ad accettare. In questo modo non possiamo neppure obiettare sulla credibilità del pretesto, perché in sostanza non viene chiarito; il che è, anzi, un altro tassello a favore del senso del film, vedremo poi come. 

In ogni caso, il dialogo cruciale citato in apertura non è uno di quelli che si sentono nell’hotel dove avviene l’improvvisato ritrovo. No, le parole più incisive sono di un militare ucraino, un soldato di un reparto che ha il compito di recuperare i cadaveri e dare loro degna sepoltura. Già questo fatto è una sorta di pedigree dell’uomo che, pur se in guerra, fa comunque un lavoro nobile. Rokas, a quel punto, ha già fatto tantissima strada, attraverso la Polonia e poi nella stessa Ucraina: man mano che si avvicina, si lascia tiepidamente coinvolgere dall’interesse per quel che sta succedendo. Tiepidamente, perché si è detto che è un tipo tranquillo; e poi in fondo è lituano, cosa può interessagli quello che vogliono fare nel Donbass o giù di lì? Ma è a questo punto che il citato militare ucraino lo scuote, svegliandolo dal suo torpore. Non è vero che è poco interessato. 

Ha guidato uno scassato furgone stracarico per migliaia di chilometri, passando attraverso frontiere con dogane e ispezioni, muovendosi in territori che si fanno via via più pericolosi. Come può dirsi poco interessato o titubante nei confronti di un concetto come patria. Da un altro scambio di parole, in questo dialogo a pochi chilometri dal fronte, emerge un’altra frase se non banale non certo inedita: si va in guerra, non per sopravvivere o altro; si va in guerra per ammazzare. D’accordo, è la scoperta dell’acqua, non calda ma fredda (del resto il film si intitola Frost) e, proprio come una doccia gelata, riporta Rokas un minimo alla realtà. Ora vuole davvero capire cosa succede, si mette addirittura a filmare con lo smartphone: ma aveva ragione il militare ucraino, questo desiderio di sapere, di sapere la verità, e non le frottole raccontate da stampa e televisione, Rokas l’aveva sempre avuto dentro, si era solo assopito, congelato. Non è forse per questo, facendo riferimento al punto rimasto in sospeso, che aveva accettato l’incarico? E quell’indifferenza per eventi che saranno anche remoti ma in realtà riguardano ognuno di noi, così come la titubanza nel non sapere cosa faremmo nel caso coinvolti in prima persona, sono cose che valgono per tutti; noi spettatori compresi. In fondo, abbiamo tutti finito per crearci una nostra Lituania privata, un luogo dove farci i fatti nostri in santa pace guardando il mondo là fuori su YouTube giusto quando serve. Ora, però, non si tratta più di curiosità, di voglia, di desiderio, ma di necessità. Purtroppo, queste sono situazioni che non ammettono ritardi e ormai, se non è già troppo tardi, ci siamo dannatamente vicino. Nel qual caso, non rimarrà che consolarci con qualche pietosa bugia, che se la dici con sentimento potrà avere la parvenza di essere credibile, se non vera. Come Inga, bella quando mente e bellissima nella bugia che chiude il film. E coì facendo potremo tornare nello stato ibernato della nostra realtà.  



  Vanessa Paradis 





 
 Lyja Maknavičiūtė

Galleria di manifesti 






martedì 5 luglio 2022

TRE UOMINI E UNA GAMBA

1043_TRE UOMINI E UNA GAMBA . Italia, 1997; Regia di Aldo, Giovanni & Giacomo e Massimo Venier.

Per il loro esordio sul grande schermo, il trio di comici Aldo, Giovanni e Giacomo si prendono un bel rischio, mettendosi perfino dietro alla macchina da presa, affiancati, in questo ruolo, da un altro esordiente nel mondo cinema, Massimo Venier. Tre uomini e una gamba, andò ben al di là della fiducia nutrita dai fan del trio e fu un successo sorprendente e meritato. Il film è indiscutibilmente divertente con i tre che giocano con intelligenza con il proprio pubblico, ripescando molte delle gag con cui si erano fatti strada sul palco teatrale e sullo schermo televisivo. Eppure, sin dall’incipit che li vede all’opera nei panni di Al, John e Jack, i gangster americani, si capisce che i nostri non vogliono semplicemente trasferire il loro tipico repertorio sullo schermo gigante del cinema, ma provare ad interpretare al loro meglio questo differente mezzo di espressione artistica. C’è anche umiltà, da parte loro, nel rimanere comunque nel loro ambito, con le loro tipiche scenette che sono l’essenza della loro arte; del resto il cinema prevede la possibilità di frammentare, con i più disparatati stratagemmi narrativi, il racconto in più segmenti. Ma alla base di Tre uomini e una gamba c’è un road movie: e che i nostri si muovano da nord verso sud e a bordo di una Daewoo Nubira Station Wagon sono elementi a loro modo significativi. Innanzitutto la direzione: in genere, il cinema italiano, ha raccontato della migrazione verso nord, all’interno della mai chiusa questione meridionale, tema prediletto di molto nostro cinema. 

Aldo, Giovanni e Giacomo sembrano quindi prendere un po’ le distanze dal cinema impegnato di casa nostra a partire già dal verso del viaggio. La ben poco affascinante automobile utilizzata in parte cerca di schernire il lavoro del trio rispetto agli illustri esempi di road movie americani dove i personaggi sfrecciavano a bordo di Cadillac cabriolet o bolidi simili, e al tempo stesso permette di rendere avventuroso persino un viaggio attraverso l’Italia. Insomma, i quattro, mettiamoci anche Venier che affianca il trio in regia, fanno professione di umiltà ma vogliono fare cinema a modo loro. Il tema del viaggio funge da sorta di contenitore narrativo, all’interno del quale i nostri, con una scusa o l’altra, inseriscono una serie di sketch di altri generi narrativi. 

La citata scena iniziale, che nella finzione è un film visto alla televisione da Giacomo (Giacomo Poretti), è un omaggio ai gangster movie; Biglietto amaro, il fittizio lungometraggio che i nostri si fermano a guardare, scherza col neorealismo permettendo al contempo di mettere in scena una gag classica del trio. Il sogno di Aldo (Aldo Baglio) è invece un’incursione nell’horror nella chiave demenziale di uno dei loro più celebri sketch, quello con Dracula e i due contadini transilvani leghisti. Più amalgamate nella trama altre due citazioni, quella della partitella di calcio sulla spiaggia è tributo esplicito a Gabriele Salvatores e al suo Marrakech Express (1989), mentre un curioso rimando a Point Break – Punto di Rottura (1991) adrenalinico capolavoro di Kathryn Bigelow, può essere colto nel passaggio con le maschere dei presidenti. Naturalmente c’è anche il titolo dell’opera che fa il verso a Tre uomini in barca (per non parlar del cane) di Jerome K. Jerome, romanzo del 1889 e che condivide con il film del trio l’idea di tre amici in viaggio. Il tema dominante su cui si basa il film è ancora una volta grosso modo reso esplicito in una rappresentazione nella rappresentazione, in linea con tutta quanta l’operazione che in fondo è il tentativo, riuscitissimo, di attori di cabaret (televisivo e teatrale) che cercano di riciclarsi nel cinema. 

La scena ripresa dalle telecamere dell’autogrill, infatti, anticipa sostanzialmente la trama della vicenda: Giacomo è in cerca di una partner e gli altri due, Giovanni (Giovanni Storti) in particolare, provano a mettergli i bastoni tra le ruote. Nella scenetta ripresa dalle telecamere a circuito chiuso ci riusciranno, con la stangona bionda allontanata mostrando il paginone di una rivista erotica; nel film vero e proprio, tra Giacomo e Chiara (una strepitosa Marina Massironi) sarà più complicato impedire il fiorire di un’intesa. Le resistenze di Giovanni, e solo in seconda battuta di Aldo, non sono tanto il classico ostruzionismo cameratesco tra amici; il punto è che il viaggio verso la Puglia ha come meta il matrimonio di Giacomo! Si tratta di un matrimonio di interesse e nel contrapporgli una vera storia d’amore c’è il senso del film, sottolineato dalla bella canzone dei Negrita Ho imparato a sognare. Il previsto sposalizio dovrebbe arrivare sulla scia di quelli già celebrati tra Giovanni e Aldo e due delle tre figlie di Eros Cecconi (Carlo Croccolo), odioso datore di lavoro dei nostri protagonisti. All’appello mancano appunto Giacomo e Giuliana (Luciana Littizzetto), terza figlia del Cecconi, ma, considerato anche l’avvenenza e soprattutto del fascino di questa, sarebbe davvero troppo. Anche per un film comico.   



 Marina Massironi 





Galleria di manifesti 

sabato 24 marzo 2018

EASY RIDER - LIBERTA' E PAURA

120_EASY RIDER - LIBERTA' E PAURA (Easy Rider). Stati Uniti, 1969;  Regia di Dennis Hopper.

Film culto per eccellenza della cultura hippy, Easy Rider è un'opera che colse perfettamente lo spirito di quel tempo e di quella generazione che andavano in controtendenza rispetto agli ideali borghesi della cultura americana (e occidentale in generale). Dal punto di vista cinematografico questo aspetto è sancito in modo emblematico dal viaggio che i due protagonisti compiono: Wyatt (Peter Fonda) e Billy (Dennis Hopper, anche regista della pellicola), vanno infatti da Los Angeles alla Louisiana, ovvero compiono il percorso inverso di quello che, ai tempi della conquista del west, sancì l’ideologia del sogno americano. Sebbene la contestazione sia, quindi, almeno a livello simbolico, radicale, non c’è però traccia di violenza da parte dei due giovani, che rappresentano in modo ideale due tipici figli dei fiori. Hopper è però onesto nella sua rappresentazione e non manca di mostrare come, nella storia raccontata, la scelta di vita sconclusionata dei due ragazzi si fondi su una premessa equivoca e discutibile; che poi era la caratteristica, grosso modo, del fenomeno culturale stesso. Ovvero, nello specifico del film c’è un guadagno illecito e moralmente criticabile come il commercio di droga, a dare il alla vicenda. Infatti, se è vero che Wyatt e Billy fumano tranquillamente marijuana (e pare fosse autentica quella usata dai due attori sul set), non ricorrono all’uso di droghe pesanti: è però con la vendita di cocaina che riescono a racimolare i soldi per comprarsi le motociclette (due appariscenti chopper) e ad intraprendere il proprio viaggio.
C’è quindi all’interno stesso di questo esplicito manifesto che è appunto Easy Rider, una onesta ammissione dei limiti e dell’ipocrisia di fondo che lo stesso movimento aveva: d’accordo sull’insofferenza per le convenzioni borghesi, ma il tema della libertà era vissuto dalla corrente rivoluzionaria sessantottina in modo sostanzialmente un po’ troppo di comodo, come del resto viene mostrato dal film. Ad onor del vero, il fatto che il regista insista su un montaggio schizzato e indugi poi nel farci vivere un trip da parte dei nostri baldi giovanotti, evidenzia come, per poter apprezzare pienamente la controcultura del periodo, sia necessario perlomeno l’aiuto di quei prodotti della cannabis che erano uno dei fondamenti di quello stesso movimento. Che, in fin della fiera è anche il limite di Easy Rider: divertente, godibile, con gran belle canzoni (la più famosa è naturalmente Born to be wild degli Steppenwolf) sicuramente rappresentativo di un certo mondo, ma leggero come un boccata di fumo.
D’hashish, naturalmente.








Karen Black