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giovedì 8 luglio 2021

TELL THE KING THE SKY IS FALLING

849_FALL OF EAGLES: TELL THE KING THE SKY IS FALLING .Regno Unito, 1974; Regia di David Sullivan Proudfoot.

Dopo i fatti di Sarajevo, la guerra irrompe non solo nell’Europa del tempo ma anche nella serie di film televisivi inglesi La caduta delle Aquile con l’undicesimo capitolo intitolato Tell the King the Sky is falling e ambientato presso la corte zarista. Delle tre dinastie che sfoggiano l’aquila come simbolo, e della cui caduta tratta la produzione, dopo il citato attentato in Bosnia che ha inguaiato in modo irreversibile quella asburgica è la volta di casa Romanov a pagare dazio. Per la caduta dei Hohenzollerns, la dinastia tedesca, c’è invece ancora tempo: anzi, in questa fase la fortuna sembra arridere a Guglielmo II e ai suoi sudditi che rifilano una serie di batoste ai nemici russi. A Pietrogrado, tra l’altro, una serie di nodi lasciati in sospeso stanno venendo al pettine: si comincia presto con lo smacco subito da Nicola II (Charles Kay) che riceve un telegramma tutto sommato amichevole di Guglielmo II salvo poi apprendere quasi contemporaneamente della dichiarazione di guerra tedesca all’Impero Russo. L’apertura delle ostilità con la Germania presentava dei problemi ulteriori in seno alla famiglia regnante a Pietrogrado, essendo la zarina Alessandra (Gayle Hunnicutt) di sangue teutonico. Oltre a ciò, sebbene in un certo senso non fu cosa prevedibile ma piuttosto uno scherzo del destino, la scelta della donna di fidarsi ciecamente del monaco Rasputin (Michael Aldrige), già folle di suo, avrebbe avuto conseguenze drammatiche anche in questo ambito nel momento in cui la situazione si fece sempre più difficile. La sovrana era già al centro di maldicenze per via della sua citata stirpe tedesca, nonché per l’emofilia ereditaria, la malattia che aveva trasmesso al figlio, ma a quel punto ci fu chi insinuò che fosse una spia del nemico. Ecco, se la cosa era già discutibile di suo, in una tale situazione affidarsi ad un personaggio ambiguo come Rasputin come consigliere era un’aggravante che Alessandra si sarebbe potuta risparmiare. Va detto che probabilmente la donna era in buona fede, visto che il monaco era un abile imbonitore; tuttavia un maggior senso di responsabilità da parte di una regnante sarebbe stato lecito attenderselo. Il complesso magma fatto di giochi di potere, confidenze, illazioni, sotterfugi, che animava la corte zarista è quindi giustamente al centro della scena nello sceneggiato di David Sullivan Proudfoot dal momento che risulterà un aspetto cruciale nello sviluppo degli avvenimenti. La messa in scena di matrice teatrale è l’ideale per mostrare le lotte intestine alla corte, con il continuo interferire della zarina nelle decisioni che spettavano al consorte. Una situazione difficile da gestire a cui si aggiungevano le scelte avventate dello zar stesso: ad esempio l’assunzione in prima persona del comando dell’esercito sostituendo l’ingombrante figura del gran duca Nicola (John Phillips), che con la sua imponenza e il suo carisma stava mettendo in ombra il sovrano, espose però Nicola II alle critiche a fronte delle fragorose sconfitte militari. L’elite russa non solo aveva perso da tempo il contatto con la realtà del paese ma si presentava lacerata anche al suo stesso interno: i tempi per una guerra civile si avvicinavano in modo inevitabile. E quella mondiale, in questo contesto, sarebbe divenuta presto un diversivo insostenibile. 




Gayle Hunnicutt

mercoledì 7 luglio 2021

SOLDIER'S LULLABY

848_SOLDIER'S LULLABY (Zapanska Za Vojnike). Serbia 2018; Regia di Predrag Antonijevic.

L’incipit e la chiusura di Zapanska Za Vojnike, film del 2018 distribuito nel mondo con il titolo anglosassone Soldier’s lullaby, sono tutto sommato simili, a simboleggiare una sorta di circolarità dello schema narrativo. Un po’ come se si stesse girando su sé stessi, riflettendo, in un certo senso; e, in effetti, Zapanska Za Vojnike è una sorta di moto interiore dell’ex soldato protagonista che ripercorre il proprio passato. Il racconto è infatti visto in flashback, vent’anni dopo gli avvenimenti. Stevan (Marco Vasiljevic) era un professore di biologia arruolato nell’esercito serbo nel 1914, nella Quinta Batteria di Artiglieria, col ruolo di sergente. Il grado Stevan lo aveva ottenuto grazie all’istruzione, in quanto non aveva competenze militari; inizialmente aveva palesato un certo disagio, a fronte dei suoi superiori, veterani di guerra. Il tenente Aleksandar (Vuk Jovanovic) era un tipo tosto, in grado di tenere pubblicamente testa ad un monumento come il comandante della batteria (Ljubomir Bandovic). Il maggiore non ammetteva debolezze o insubordinazioni ma il tenente non mancava di far presente quando gli ordini esponevano a rischi inutili gli uomini del reparto e questo suo rimbeccare al superiore, gli era concesso unicamente per il suo valore sul campo. Il comandante, per altro, sapeva il fatto suo: la sua eccessiva attenzione ai cavalli, quasi ritenuti più importanti degli uomini, aveva un suo fondamento, almeno a livello di strategia militare. Lo scoppio della Grande Guerra non proiettò, infatti, gli eserciti direttamente in quelle trincee che siamo abituati a vedere al cinema come luogo per antonomasia del conflitto. Innanzitutto bisognava arrivarci, al fronte, e per farlo bisognava marciare per interminabili giornate. 

In effetti per una grandissima parte di Zapanska Za Vojnike vediamo la Quinta Batteria d’Artiglieria in movimento verso il luogo degli scontri e, dovendo i nostri trasportare i cannoni, la salute degli animali diveniva cruciale. Tuttavia questa maniacale attenzione verso i quadrupedi da parte del comandante finisce per essere in parte travisata: non è un uomo cattivo, l’ufficiale, è che deve riuscire a portare i cannoni in zona di tiro. Il tenente Aleksandar è tuttavia di ben altra pasta umana: chiamato a rintuzzare un tentativo di insubordinazione di un reparto che stava abbandonando il proprio posto lungo la prima linea, convince quegli uomini a far ritorno sui propri passi. E a fronte della successiva richiesta del maggiore di fornirgli i nomi degli ufficiali coinvolti, si inventa la scusa di aver perso il taccuino, suscitando la muta ammirazione del protagonista Stevan. 

Il clima del racconto è generalmente greve anche se, nella truppa della Quinta Batteria d’Artiglieria, non mancano i classici marmittoni che non perdono occasione di scherzare. Eccoli lungo un fiume che stanno appunto dando luogo ad uno dei loro tipici siparietti, che sull’altra riva si palesano gli austriaci. E’ un agguato in piena regola: i serbi sono alle prese con un ponte appena costruito che si dimostra non adeguato, nonostante le rassicurazioni del capitano del genio militare. Il ponte crolla malamente nonostante l’artiglieria non avesse ancora cominciato l’attraversamento. La battaglia infuria, gli austriaci al coperto fanno fuoco senza pietà, poi interviene anche l’artiglieria imperiale a gettare i serbi nel panico. Dopo la battaglia, il capitano, che aveva sì costruito il ponte per la fanteria ma aveva assicurato che avrebbe permesso il passaggio dei cannoni, arriva a suicidarsi per il disonore. Non si mette bene, per la Serbia: la Bulgaria è entrata in guerra e, approfittando dell’impegno dei vicini slavi sul fronte austriaco, ha sfondato lungo il fronte macedone. Stevan è preoccupato per la sua famiglia e chiede il permesso di tornare al paese: il maggiore glielo nega, la patria innanzitutto. Il povero sergente è sempre più affranto e il tenente Aleksandar lo rincuora consegnandogli la licenza firmata proprio dal maggiore. In realtà si tratta di un falso, è lo stesso tenente ad aver copiato la firma del suo superiore che, il mattino dopo, informato della cosa, va naturalmente su tutte le furie. Ma le minacce di punizione al tenente vengono infrante dall’attacco austroungarico che arriva a spazzar via l’intero reparto serbo. Il maggiore sopravvive ed è proprio lui a ritrovarsi, nella cornice narrativa aperta nell’incipit, con il sergente per una rievocazione degli eventi. Stevan scopre così che la sua sopravvivenza fu legata ad un’azione irregolare del tenente Aleksander, un uomo il cui valore e il cui coraggio non gli fecero mai mancare la giusta considerazione per la vita umana. In guerra, in ogni guerra ma specialmente in un conflitto aspro come la Grande Guerra, merce rara. 






martedì 6 luglio 2021

LA BATTAGLIA DI KOLUBARA

847_LA BATTAGLIA DI KOLUBARA (Kolubarska bitka). Serbia 1990; Regia di Arsenije Jovanovic e Jovan Ristic.

Operazione quantomai singolare, La battaglia di Kolubara (traduzione letterale dal serbo Kolubarska bitka) è una rappresentazione teatrale adeguata sommariamente al mezzo televisivo, tratta dal testo La battaglia di Suvobor, tomo secondo dell’opera in quattro volumi Vreme Smrti di Dobrica Cosic. Per chiarezza di informazione, Suvobor è il nome dell’altura che fu luogo, insieme al monte Rajac, della Battaglia di Kolubara: uno scontro cruciale, almeno temporaneamente, nelle prime fasi della Grande Guerra. Gli austroungarici erano infatti decisi a risolvere la questione serba una volta per tutte, dopo le due prime fallimentari offensive imbastite dagli inizi della guerra. Stavolta i serbi avevano concesso loro campo, ritirandosi oltre il fiume Kolubara per potersi meglio difendere; era però stata lasciata in mano al nemico la capitale Belgrado, un colpo duro da accettare a livello di morale. E’ quindi un momento topico della guerra e non solo dal punto di vista militare: i serbi erano alle corde e l’impressione diffusa era che gli alleati occidentali non fossero poi così preoccupati della sorte del paese slavo oggetto delle mire austroungariche. Gli ufficiali serbi, tra cui nella rappresentazione si distingue il generale Zivojin Misic (Misa Janketic), devono prendere le scelte giuste, se vogliono avere qualche speranza contro i meglio attrezzati e numerosi soldati imperiali. Nonostante questo la Storia ci riserverà un finale, perlomeno in questo specifico episodio bellico, inatteso. 

E’ quindi una pagina davvero intrigante, quella della battaglia di Kolubara eppure il racconto in oggetto ristagna sul palcoscenico teatrale, le cui sommarie scenografie sono certamente adeguate ad un spettacolo dal vivo ma mostrano tutti i limiti una volta riviste su uno schermo. Siamo negli anni novanta ed è un po’ sorprendente che la televisione serba ricorra ad espediente narrativo tanto povero, in sostanza viene semplicemente ripresa una rappresentazione teatrale, quando il mezzo televisivo offriva già svariate possibilità più consone. Gli interminabili dialoghi degli interpreti, se dal vivo possono essere un efficace strumento per carpire l’attenzione dello spettatore, faticano assai di più una volta che non vi si assiste in presenza. Tra l’altro il soggetto all’origine dell’opera, il testo di Dobrica Cosic, non era da prendere a cuor leggero: l'autore oltre che scrittore era uno politico di grande rilevanza (fu poi il primo presidente della Repubblica Federale Jugoslavia dal 1992 al 1993) e il suo punto di vista sull’annosa questione serba era certamente interessante. La sua prosa era però ben articolata e strutturata e il risultato finale sullo schermo non sembra rendergli giustizia, fosse anche non per demerito degli artisti coinvolti ma per le carenze del mezzo, oltretutto in una forma spuria poco convincente. In pratica né vivo e pulsante teatro né finzione televisiva ben imbastita. Poi, per carità, la scelta dei produttori della RTS, la Radio Televisione Serba, di mettere sullo schermo l’opera teatrale con un’azione di adattamento così minima è del tutto lecita. Peccato, però.  


lunedì 5 luglio 2021

AUSTERIA

846_AUSTERIA . Polonia 1983; Regia di Jerzy Kawalerowicz.

Se dovesse capitare di restare un po’ interdetti alla visione di Austeria di Jerzy Kawalerowicz non c’è da stupirsene troppo: perfino Martin Scorsese, presentando il film ad un festival dei capolavori della cinematografia polacca, ha ammesso le sue difficoltà. Ma del resto il cinema dell’est Europa ha nelle sue peculiarità una certa ritrosia alla semplicità di accesso, alla facilità di fruizione, quasi che questa fosse un demerito; e Austeria concede ben poco allo spettatore in cerca di svago o divertimento. In realtà i passaggi ironici sono anche ricercati da Kawalerowicz, basti vedere la congrega di ebrei chassidici che manifesta un’escalation di comportamento bizzarro tanto da far venire qualche dubbio sugli intenti dell’autore. Sebbene sia chiaro che gli ebrei mostrati siano vittime, in quanto stanno tutti sgomberando dalle proprie case per l’imminente arrivo dei cosacchi dell’esercito zarista. Beh, non stanno scappando proprio tutti: il vecchio Tag (Franciszek Pieczka), proprietario della locanda che da il titolo all’opera (Austeria significa appunto locanda, in polacco) è intenzionato a non muoversi. L’uomo dimostra di avere sangue freddo ai limiti dell’incoscienza: i pogrom russi, i terrificanti attacchi vandalici di cui erano stati già più volte vittime gli ebrei nel corso della Storia, non erano uno scherzo. In ogni caso, sotto questo aspetto, in qualità di spettatori veniamo risparmiati: pare infatti che il poco che si vede in merito in Austeria, fu quanto concesso dalla censura sovietica. Le armate razziatrici erano agli ordini dello Zar, che non stava certo in simpatia presso le autorità di Mosca degli anni ottanta, tuttavia erano pur sempre russe. 

In ogni caso è evidente che per gli ebrei tirasse una brutta aria. Siamo nella Galizia, una regione al tempo sotto il dominio dell’Impero Austroungarico e ai confini con la Russia: praticamente i primi luoghi attraversati dalla temibilissima avanzata zarista. Corre infatti l’anno 1914, all’inizio della Prima Guerra Mondiale. Dopo un primo tentativo di scappare più lontano possibile, appare evidente che non è con una carovana che avanza a passo d’uomo che si potrà sfuggire alla cavalleria cosacca: c’è quindi un generale ritorno alla locanda di Tag che si ritrova l’edificio pieno di gente. Il più disperato è Bum (Marek Wilk), un ragazzo a cui i soldati russi hanno ucciso la fidanzata Asia (Ewa Domanska). 

Il cadavere della ragazza viene adagiato in una stanza, quando arrivano anche i genitori, l’affranto padre Wilf (Szymon Szurmiej) e sua moglie Blanka (Golda Tencer), che sembra invece più preoccupata per il dolore ai piedi per la lunga camminata. Ma alla locanda fanno ritorno un po’ tutti, compreso un ussaro ungherese che è rimasto isolato dal resto del suo reparto: Blanka troverà nella sua prestanza un modo per farsi consolare per i suoi dolori. Per Tag i più complicati da gestire sono in ogni caso gli stralunati membri del gruppo di chassidici che non intendono rassegnarsi a stare tranquilli. Sarebbe infatti saggio cercare di non attirare attenzione sulla locanda: i cosacchi stanno razziando il vicino paese, a cui appiccheranno fuoco, e non c’è da stare troppo sereni. 

Chi sembra sempre sapere cosa fare è Tag: se prima non si era lasciato prendere dal panico mettendosi in una quanto mai vana fuga, ora invita i suoi ospiti a fare silenzio. E’ l’unico, insomma, a non essersi lasciato prendere dall’isteria (termine che ha una forte assonanza con austeria anche in polacco) collettiva. Ma stavolta è lui ad illudersi: niente sembra poter ricondurre alla ragione i compatrioti ebrei, tra cui spiccano per incoscienza i membri del citato gruppo di chassidici che la feroce ironia di Kawalerowicz probabilmente esagera nel dipingere in modo denigratorio. E’ questo l’aspetto più inquietante di Austeria: non è che agli ebrei del film si possa imputare una qualche colpa, sia chiaro, ma certamente l’unico a dimostrare un certo senso pratico, nell’ottica di stare al mondo, è Tag. Che Kawalerowicz prova a non incensare come eroe, è solo un uomo che fa quello che deve essere fatto; e se c’è da allungare una mano sul seno della sua giovane dipendente Jewdocha (una selvaggia e seducente Liliana Komorowska) non si tira certo indietro. Certo, la ragazza è consenziente, anche se lo chiama ripetutamente vecchio diavolo, in fondo gli vuole bene; e a ragione, perché Tag è un vero eroe, al di là della cortina fumogena narrativa che il racconto ci mette davanti agli occhi. In un momento cruciale l’uomo apre la sua porta a tutti quanti vi bussano mettendo a rischio la sua incolumità e, nel finale, si reca al villaggio dove i cosacchi vogliono giustiziare Bum. E’ prevedibile che i russi accetteranno di condonare il ragazzo solo in cambio di qualche altro da mettere al suo posto; per quanto la questione non venga esplorata fino in fondo dal film. 


Ma, pur essendone l’assoluto protagonista, non è tanto Tag a rimanere negli occhi dello spettatore dopo questo Austeria. La cosa difficile da dimenticare è l’assoluta follia, del tutta avulsa da ogni senso pratico, degli ebrei ortodossi. I loro canti interminabili, le loro noiose litanie, i loro balli scombinati, sono ardui da sopportare guardando il film, figuriamoci contestualizzandoli. Questi cantano a squarciagola in una locanda col rischio che i cosacchi possano udirli e intervenire con nefasti effetti per tutti gli ospiti. E dire che Tag ci prova, a condurli alla ragione; li esorta, li prega, li scongiura. Niente, la liturgia dal sapore vagamente suicida degli ebrei non può essere interrotta. 

E qui che si fatica a capire come questo film possa essere un tributo alla comunità ebraica della Galizia di inizio XX secolo. Il riferimento ai pogrom, citati in un dialogo del film, ci ricorda che gli ebrei avevano subito persecuzioni già prima dei giorni raccontati dal film. Ma, sempre in un scambio di vedute nel racconto, apprendiamo che c’è una consapevolezza che il mondo sia cambiato, in quei tempi, e che la Grande Guerra ne è un po’ lo spartiacque. Prima i conflitti venivano combattuti dagli eserciti, coi generali sulle colline a dare disposizione alle truppe; ora la violenza è rivolta a tutti, militari e civili, indiscriminatamente. C’è quindi una sorta di presentimento, da parte degli ebrei galiziani, che il futuro possa addirittura volgere al peggio per la loro comunità? Che il loro mantenere le proprie tradizioni, la propria cultura, la propria identità, possa rappresentare un bersaglio comodo e ben visibile per la sete di violenza che sarà la matrice della nuova era? Se prima potevano essere perseguitati periodicamente, ora sarebbero divenuti l’obiettivo perenne, insomma? E allora prende un senso anche l’irragionevolezza dei ebrei chassidici ch non si preoccupano troppo di stare zitti ma alla fine se ne vanno addirittura a fare il bagno nel fiume, completamente nudi, in preda ad una febbrile follia. Tag avrebbe ragione di dissentire: sarebbe stato saggio starsene nascosti. Ma noi sappiamo che non sarebbe cambiato nulla: la Storia insegna che negli anni a venire gli ebrei verranno stanati in qualunque posto avessero cercato rifugio. E poi, a conti fatti, anche lo spettatore odierno fatica ad essere obiettivo di fronte a quello che vede: in questa storia i folli non sono infatti gli ebrei chassidici, ma i razziatori cosacchi.   
   



 Liliana Komorowska




Ewa Domanska



Zofia Saretok


Golda Tencer

domenica 4 luglio 2021

TANNENBERG (a seguire QUANDO LA STORIA...)

 845_TANNENBERG . Svizzera, Germania 1932; Regia di Heinz Paul.

«Il maresciallo von Hindenburg ha dormito nel quartier generale di Tannenberg prima, dopo e, detto tra noi, anche "durante" la battaglia...». Il tenente colonnello Max Hoffmann, capo ufficio delle operazioni dell’VIII armata tedesca, a cui è attribuita questa frase, probabilmente voleva solo fare un po’ di ironia ma, nel caso, avrà comunque rischiato: su Paul L. von Hindenburg, divenuto, dopo Tannenberg, un autentico mito, c’era poco da scherzare. Tuttavia guardando Tannenberg, il film del 1932 di Heinz Paul, verrebbe da credere alla battuta di Hoffmann: il contributo di von Hildenburg alla battaglia, per quanto decisivo, sembra minimo. C’è però una spiegazione: a suo tempo, nel 1932, la situazione in Germania era particolarmente critica. C’era la crisi economica legata alla Grande Depressione e Hitler, che era in forte ascesa, era stato battuto alle elezioni primaverili di quello stesso anno proprio da von Hindenburg, che si era così confermato alla guida del paese. Un clima quindi particolare che, forse, può aiutare a spiegare l’assurda decisione del comitato della censura di far eliminare quasi tutte le immagini in cui il generale von Hindelburg veniva interpretato sullo schermo da Karl Körner, reo di assomigliare troppo all’originale mancandogli, in questo senso, di rispetto. [Letteralmente Violare gli interessi reputazionali cit. Lichtbild-Bühne, organo di stampa cinematografica tedesca]. 

Ecco così spiegato il motivo della curiosa assenza (o quasi) del riconosciuto eroe di Tannenberg dalla rappresentazione cinematografica più celebre della battaglia. La presenza di von Hindenburg, oltre che nelle sparute scene in cui fa la fugace quanto imperiosa comparsa, è sottolineata, forse per recuperarne un po’ il peso, dai documenti e dagli ordini firmati dal generale su cui la regia insiste in modo evidente. Tuttavia, anche con questa anomalia, Tannenberg rimane un film molto interessante. La struttura dell’opera verte su due tracce che viaggiano in parallelo per la durata del film: c’è il contesto storico, preponderante, e c’è la vicenda privata di una famiglia tedesca che vede la sua residenza proprio al centro dell’invasione russa. I tempi della rappresentazione non sono divisi in parti uguali ma, a differenza che in un film americano o anche italiano, la storia della famiglia del proprietario terriero von Arndt (Hans Stüwe) ha meno spazio e, in sostanza, serve unicamente per dare un pathos più accessibile, più fruibile, allo spettatore. 

Per cercare di alimentare la tensione emotiva su questa sponda, che non è eccessivamente sviluppata, si inserisce la figura del piccolo Fritz (Rudolf Klicks) e addirittura quella del cagnolino di casa. La funzione narrativa privata, che in questo tipo di operazioni narrative è abitualmente messa in primo piano su uno sfondo storico, qui non ha la necessaria struttura, anche se gli strappi inferti sono notevoli. Il suo scopo, oltre a creare, come detto, un po’ di empatia con lo spettatore, è più che altro fare da contrappunto agli sviluppi generali e fornire alcune indicazioni. Ad esempio che non c’è particolare odio tra russi e tedeschi: a casa von Arnst abita la cognata Sonja (Hertha von Walther), di origini russe; il padrone di casa la rassicura che sarà sempre ben accetta. Dal canto suo la ragazza si prodiga per salvare la vita ad una spia tedesca catturata dai soldati russi, facendo leva su una sua conoscenza presso il reparto degli invasori. Le truppe zariste avevano infatti fatto irruzione nella lussuosa magione, senza per altro nessun atto vandalico. Anche a livello complessivo il film non mostra una particolare faziosità: le operazioni militari sono illustrate con differenze ma senza infierire sulla controparte. Da un punto di vista storico, per quanto siano state usate anche immagini di repertorio dell’epoca, il film non riesce a fornire un quadro degli scontri troppo comprensibile; è un problema evidentemente di cui gli autori erano consapevoli e, per ovviarlo, fecero ricorso molto spesso ad utilissime mappe con gli spostamenti delle truppe sul terreno. I dialoghi dei numerosi passaggi in cui vediamo i generali discutere tra loro, tra quelli tedeschi da segnalare Ludendorff (Henry Pless) e Hoffmann (Hans Mühlhofer), danno un ulteriore aiuto a completare il quadro in quest’ottica. 

Per quel che è mostrato sullo schermo, nella prima parte si assiste ad un massiccio confluire di soldati russi, in marcia a piedi o a cavallo, che più che combattere semplicemente avanzano. Come detto per comprendere le strategie grande importanza hanno le riunioni dei comandi militari e gli autori, tutto sommato, provano già a mettere in luce qualche evidenza, mostrando quello tedesco più dinamico rispetto a quello nemico. Questa differenza, che pare una di quelle decisive, si aggiunge a quella delle comunicazioni: i tedeschi possono contare su informazioni più precise, nel film evidenziate anche dalla spia sfuggita grazie all’intervento di Sonja. 

Perché l’impressione dell’operazione militare raccontata da Tannenberg è di una battaglia tutto sommato con qualche attinenza con quelle del XVIII secolo, quelle coi generali sulla collina a dare disposizioni alle truppe distese sul campo di battaglia. La capacità di spostarle al momento opportuno, di intervenire con tempismo, è cruciale anche più della forza numerica. La differenza con quel tipo di operazioni è che, in questo caso, il campo di battaglia è l’intera Prussia Orientale e non un appezzamento di terra, pur vasto che sia; in questo senso è indispensabile avere un servizio di comunicazione tra i reparti rapido e una rete di spionaggio efficiente. Inoltre i tedeschi disponevano anche della ferrovia per movimentare le truppe. Vantaggi che gli invasori, questo sembra evidente, non avevano in egual misura. E’ forse proprio in questo senso che il generale russo Samsonov (Sigurd Lohde), comandante della II armata, si rende conto del disastro quando si trova all’aperto e può farsi, anche simbolicamente, un quadro più attendibile della realtà. Anche in questo passaggio è da rilevare l’estremo rispetto che viene riconosciuto allo sconfitto, oltre ad una sorta di pudore nell’evitare di mostrare direttamente la scena dell’estremo atto di espiazione dell’alto ufficiale. 

Gli scontri sono violenti, soprattutto gli scoppi d’artiglieria, ma non particolarmente cruenti. Si vedono morire più che altro i russi, mentre se dovessimo dare retta al film, i tedeschi se la cavarono con poche perdite. Qui si evidenzia un’altra peculiarità di Tannenberg, film che racconta di un mito germanico e quindi probabilmente ne interpreta la visione delle cose. Per architettare la struttura narrativa del film, partendo da un testo storico che racconta di ingenti perdite tedesche, anche a fronte di una brillante vittoria militare, si potevano però liberamente impostare le coordinate della traccia di fantasia, in questo caso di von Arndt e della sua famiglia. Verrebbe naturale mostrare i tanti morti in battaglia, che sono un elemento concreto, storico, a testimonianza del sacrificio del popolo; per dare fiducia agli spettatori si potrebbe prevedere il lieto fine per i protagonisti. In Tannenberg succede praticamente l’opposto: si celebra sobriamente la vittoria militare, con le immagini dell’austero monumento edificato successivamente, ma si evita di mostrare i morti negli scontri, minimizzando le perdite. Di contro, il protagonista maschile, narrativamente messo in campo per creare empatia con lo spettatore, dopo essersi lanciato in battaglia alla guida dei suoi Ulani, viene ferito mortalmente. E, in questo senso, insuperabile la scena in cui il piccolo Fritz accorre a prendere il cagnolino scappato in cortile e l’immagine dopo è quella di un’esplosione proprio in quel luogo. Il regista non indugia, ma possono esserci pochi dubbi in merito. Il sacrificio è chiesto quindi a livello privato, mentre le istituzioni devono preservare un’aurea di invincibilità.
Tannenberg, un vero mito tedesco. 
 

  
Al termine della galleria fotografica del film, QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
DALLA RUSSIA CON FURORE  



Hertha von Walther


Kathe Haack


Appendice storica.

QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

DALLA RUSSIA CON FURORE

Per molti secoli, la Russia aveva guardato alla Francia come ad un modello di civiltà, di tecnologia, di lingua; i maggiorenti russi spesso parlavano il francese meglio della lingua natale e la visita in territorio parigino era considerato un obbligo non scritto nel cursus honorum di qualsiasi studente russo dell’alta società. Anche nei momenti di maggior attrito tra le due nazioni, come ad esempio durante le guerre napoleoniche, i russi riversavano il loro odio contro Napoleone (l’ateo nemico dell’umanità) e i suoi marescialli piuttosto che contro i francesi tutti in quanto tali. Questa ammirazione per il paese dei Lumi aveva ricevuto un suggello culturale il 29 maggio 1913 con la prima rappresentazione, al parigino Théatre des Champs Elysées de “I Riti di Primavera” , opera di Igor Stravinksij, finanziata da Sergej Djagilev e coreografata dall’allora leggendario ballerino e star dell’epoca Vaclav Nizinskij: l’irruzione russa nel teatro dell’opera parigino era la trasposizione culturale di un’alleanza politica tra Francia e Russia, che datava ormai dal 1891.
Ma il tragitto tra San Pietroburgo e Parigi è lungo e tortuoso. Mentre sognavano i campi elisi e l’arco di trionfo, così lontani e quasi leggendari, i russi giovani e meno giovani avevano un’altra realtà più vicina, più a portata di mano; una città in rapida espansione e che continuava a fornire all’impero zarista, uomini, mezzi, tecnologie, investimenti, idee: questa città è, naturalmente, Berlino.
Prima della unificazione tedesca Berlino, capitale della Prussia orientale, aveva fornito assieme ad altre parti della Germania, un numero incredibile di uomini all’impero zarista; gli imperatori russi, infatti, si erano dotati di una coorte pretoria e di una intera casta di funzionari di origine tedesca (sull’obbedienza cieca e un po’ ottusa dei quali ironizzeranno molti scrittori russi, tra i quali Dostoevskij). Tanto per rendere l’idea dell’osmosi tra russi e tedeschi, basti vedere il nome del comandante di una delle due armate che invaderà la Prussia orientale nel 1914: von Rennenkampf; senza che nessuno peraltro trovasse strano che un alto ufficiale dal nome di origine chiaramente tedesca venisse mandato proprio a combattere la Germania. La lealtà dei “tedeschi” al servizio zarista era assolutamente fuori discussione.

Anche dopo l’unificazione germanica, l’asse conservatore San Pietroburgo-Berlino-Vienna fu per lunghi anni una importante costante della politica internazionale europea, un incubo per tutti i movimenti liberali e progressisti del continente. La fine di Bismarck e le liti austro-russe sui Balcani determinarono un deterioramento prima e uno scioglimento poi della storica alleanza. Quella che si presentava nel 1914 era un’Europa in due blocchi e, per la prima volta dopo secoli, Berlino e San Pietroburgo si trovavano seriamente in campi opposti. Le tensioni da guerra fredda non avevano impedito ai capitalisti tedeschi di investire in Russia, né agli studenti russi di andare ad apprendere tecnologie e cultura in Germania; la testa di ponte tra i due mondi erano spesso gli ebrei, che pullulavano nella zona di frontiera (odierne Polonia e Ucraina) e che erano veicoli, oltre che di soldi e di conoscenze, spesso anche di idee radicali: per fare un esempio tra i tanti, citiamo uno dei futuri protagonisti della rivoluzione russa, ebreo di origine, Lev Trotskij, che prenderà spunto per la sua famosa teoria della rivoluzione permanente da un altro russo di origine ebrea stabilitosi fisso in Germania, Izrail Lazarevic Gel’fand detto Parvus.
In tutta questa vivace osmosi, tuttavia, gli alti ufficiali dell’esercito tedesco che erano alle prese con la prospettiva di una guerra europea possibile, se non proprio probabile, non erano interessati tanto agli scambi positivi di idee e di risorse; essi oltre i confini della Russia vedevano soprattutto una minaccia. Nello specifico, erano spaventati dai progressi che l’esercito zarista stava facendo anno dopo anno.

L’esercito russo era uscito male dalla guerra col Giappone (1904-1905): quasi sempre sconfitto, aveva infine rivelato segni di ribellione interna. Il lavoro di ricostruzione fu lento e difficile, imbrigliato nella soffocante burocrazia zarista, divisa in una miriade di gruppi di interesse pronti a ostacolare qualsiasi novità per mero interesse personale o di casta. Nell’esercito russo, non c’era una direzione centrale efficiente come lo Stato Maggiore tedesco o l’alto comando francese; al contrario, una guerra interna, endemica, tra ufficiali di carriera che uscivano dall’Accademia e i membri delle famiglie aristocratiche russe o “pretoriane” di lingua germanica che accedevano quasi automaticamente ai comandi maggiori, rovinava qualsiasi tentativo di accentramento e coordinazione. Portavoce dei primi, a partire dal 1908, fu il capo di stato maggiore generale, Vladimir Alexandrovich Sukhomlinov; egli è senza dubbio uno dei protagonisti più controversi della prima guerra mondiale. Demonizzato senza pudore dai suoi (molti) nemici che gli imputarono qualsiasi crimine a partire dal ratto delle Sabine, idolatrato da pochi fedeli, criticato dagli storici locali, rivalutato dal grande Norman Stone nel suo The Eastern Front 1914-1917 , nel quale venne dipinto come il modernizzatore dell’esercito russo e quasi un involontario antesignano della rivoluzione, chi era in realtà Sukhomlinov? I pareri dei testimoni sono stati così discordanti, le fonti dirette così poche a causa della perdita di molti documenti a seguito del crollo del regime zarista, che bisogna serenamente ammettere che una conoscenza a 360 gradi della figura di Sukhomlinov è destinata a sfuggirci. Possediamo però importanti indizi: innanzitutto Sukhomlinov era un prodotto tipico dell’ambiente dell’ultima fase dello zarismo; non era perciò estraneo a corruzione, mazzette prese e date, nepotismo, faciloneria. Tuttavia proprio il suo carattere doppio e complesso gli permise di sopravvivere in un posto dal quale molti, anche all’apparenza più competenti come il predecessore Fedor Palitsyn, erano scappati con le mani nei capelli. Non solo, ma la sua connaturata abitudine all’opportunismo gli permise di barcamenarsi tra le due correnti di cui accennavamo sopra. Attraverso una rete di protetti e raccomandati, Sukhomlinov arrivò a ottenere un certo grado di controllo sullo stato maggiore generale e sul Glavny Shtab (“stato maggiore principale”, ossia una sorta di imitazione dello stato maggiore tedesco che in realtà era preposto a poco più che semplice burocrazia), arrivando così a unire almeno in parte il settore di comando del tribolato esercito russo.
Sukhomlinov contribuì anche alla creazione di una rete di spionaggio interna al corpo ufficiali: spesso citato è il colonnello Sergej Myasoyedov, traditore in quanto spia dei tedeschi, ma protetto da Sukhomlinov in cambio di informazioni sugli ufficiali rivali di quest’ultimo nell’esercito zarista.

Con questi mezzi, moralmente discutibili, il capo di stato maggiore era riuscito comunque nell’intento di dare una impronta, per quanto ambigua, all’esercito russo. Ma quello che aveva guadagnato in accentramento, Sukhomlinov perdeva in altro; ad esempio il suo sistema di voler accontentare un po’ entrambe le conflittuali caste etniche dell’esercito russo, gli aristocratici della guardia e i pretoriani tedesco-baltici, così come anche le conflittuali caste sociali, cioè ufficiali di carriera contro ufficiali di sangue, prevedeva che al comando di una data grande unità ci fossero esponenti di un po’ tutti i gruppi. Questo cerchiobottismo, se da un lato assicurava la presenza di suoi fedelissimi in ogni settore, dall’altro era anche il metodo più sicuro per creare attriti interni alle armate, con comandanti sukhomlinoviti che guardavano con sospetto e astio i loro capi di stati maggiore appartenenti ad altre fazioni, o viceversa. Questo genere di conflittualità interna creerà problemi durante la guerra, specialmente durante la campagna della Prussia Orientale, sfociata nella duplice sconfitta di Tannenberg e dei Laghi Masuri.

Sukhomlinov non si occupò della pianificazione, delegando questa pratica ai subordinati, come in effetti era pratica russa. Il punto di discussione del piano di guerra zarista era la domanda: contro chi si sarebbe dovuto mobilitare il grosso dell’esercito? Contro l’avversario più forte, la Germania, via il dente via il dolore? O contro il nemico che offriva più chance di vittoria immediata, l’Austria, la sconfitta della quale avrebbe comunque comportato grosse difficoltà per i tedeschi?
Un primo piano di guerra per il possibile conflitto contro la Triplice (leggi Austria e Germania) fu avanzato da Yuri Nikoforovic Danilov: egli si aspettava un attacco generale all’impero russo e identificava il pericolo maggiore in una invasione tedesca mirante a occupare la capitale russa; la sua proposta era perciò di mobilitare la maggior parte dell’esercito (53 divisioni) contro i tedeschi, mentre solo 19 divisioni avrebbero dovuto tenere a bada gli austriaci. La sua idea -corretta- era che la Germania fosse il nemico da battere prima, gli altri sarebbero crollati di conseguenza; dove eccedeva, Danilov, era nel pessimismo: egli infatti pensava che oltre alle potenze della Triplice contro la Russia si sarebbero levati anche Giappone, Romania, Cina, impero Ottomano, Bulgaria (un suo rivale all’interno dello stato maggiore commentò sarcastico: ha lasciato fuori solo i marziani).
L’altra proposta di piano venne da Mikhail Vasileyevich Alexeyev: egli suggerì come primo passo di fortificare Varsavia e mandare rinforzi alle fortezze sulla Vistola, che costituivano la frontiera militare tra i due imperi, in modo da assicurarsi le spalle contro un attacco tedesco; in secondo luogo, la forte concentrazione di truppe nella Polonia russa , avrebbe permesso una invasione di massa della Galizia austriaca, con la possibilità di sfociare persino in Ungheria; oppure, nel caso le cose si mettessero male con i tedeschi intorno a San Pietroburgo, la concentrazione intorno a Varsavia, avrebbe permesso anche di penetrare nel cuore della Germania, verso Berlino (la stessa intuizione che ebbe l’Armata Rossa nel 1945).

La macchina delle rivalità e dei voti di scambio interni all’ufficialità russa, si rimise in moto con la conseguenza di bloccare la scelta definitiva di uno dei due piani. Per venirne fuori, si optò per un compromesso che accontentava un po’ tutti: si sarebbe concentrato l’esercito SIA contro l’Austria, SIA contro la Germania E NEL FRATTEMPO si sarebbe operata una concentrazione delle forze mobilitate più tardi intorno a Varsavia. Il risultato fu che non si arrivò alla decisione su nessuno dei due fronti: la campagna in Prussia orientale tedesca finì in disastro logistico prima, militare poi, anche se contribuì a aiutare un po’ i francesi; l’Austria fu battuta in Galizia ma l’avanzata si arenò sui Carpazi e non riuscì a toccare l’Ungheria; la concentrazione intorno a Varsavia era troppo scarna per essere nulla più che una riserva d’uomini per i due gruppi d’armata principali.
Tutti questi problemi strutturali e organizzativi, se pur arrivavano alle orecchie di Von Moltke e degli altri comandanti tedeschi, erano però offuscati da un altro elemento che impauriva molto gli avversari dei russi: la portata della mobilitazione zarista, davvero inedita nella storia mondiale. 4,7 milioni di uomini sarebbero stati arruolati, con 1 milione di cavalli, e spediti al fronte con 4000 treni: era il famoso “rullo compressore russo”. Cifre imponenti, che trovavano un limite solo appunto nell’esiguo numero di ferrovie e treni disponibili alla bisogna. I tedeschi temevano appunto che, nel giro di qualche anno, i progetti ferroviari russi , finanziati da gran soldoni francesi, fossero completati rendendo così la mobilitazione nemica non solo numericamente imponente, ma anche veloce. In quel caso, nulla avrebbe resistito alle orde zariste. Fu per questo motivo che l’esercito tedesco preferì accettare il confronto nel 1914: procrastinarlo, avrebbe potuto significare arrivare troppo tardi.
Nel 1914 due Paesi a lungo alleati e con molti legami reciproci come Germania e Russia scesero in campo uno contro l’altro. Nel 1919 nulla era rimasto degli antichi imperi: nelle città russe e tedesche c’era solo povertà, violenza, rivoluzione sociale, confusione, guerra civile. Come disse un autore, la gente preferiva scappare dalla brutta e mediocre realtà sognando il bizzarro l’ideale. Il bizzarro salì al potere qualche anno dopo con Stalin e Hitler.
Che fosse anche 
l’ideale rimane una questione di gusti personali.