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mercoledì 17 marzo 2021

CARTIER AFFAIR - DONNA DI CUORI

783_CARTIER AFFAIR (The Cartier Affair). Stati Uniti1984. Regia di Rod Holcomb.

Curioso TV movie che sembra un semplice pretesto per vedere sullo schermo due personaggi televisivi famosi all’epoca, Cartier Affair in definitiva se la cava proprio grazie alla nonchalance con cui i due divi interpretano i rispettivi ruoli. Joan Collins è Joan Collins, no, ops, è Cartier Rand, una star delle soap opera che potrebbe appunto essere la stessa attrice inglese. Ovviamente, il successo che la diva londinese stava al tempo ottenendo con Dinasty, deve averle reso questo ruolo particolarmente piacevole o comunque gratificante. La carriera della Collins era all’epoca più che trentennale ma, pur avendo già avuto notevoli picchi di notorietà, il vero successo le era arriso solo col ruolo di Alexis Colby nel serial televisivo. In un certo senso Cartier Affair sembra quasi una celebrazione per la grande attrice inglese, anche se, come detto, l’artista avrebbe meritato una maggior considerazione sin dai suoi esordi. Ad affiancarla in questa sorta di tributo, un attore invece in rampa di lancio: David Hasselhoff era poco più che trentenne ed era alle prese con il suo primo successo televisivo, il ruolo di protagonista in Supercar, telefilm avventuroso. Il nostro in Cartier Affair interpreta Curt Taylor, un pregiudicato appena rilasciato che, per saldare un suo debito con Drexler, il padrino della prigione in cui era rinchiuso (Telly Savallas), deve organizzare una rapina in casa di Cartier Rand. Per riuscire in ciò è fatto assumere dai complici di Drexler come segretario della diva, assicurando l’attrice (e soprattutto il suo arcigno compagno, interpretato da Charles Napier) che il giovanotto è gay. 

La trama non è certo il punto di forza del film che, piuttosto, punta sul contrasto tra le personalità molto fisiche dei due protagonisti; contrasto accentuato dalla convinzione di Cartier che il proprio segretario non sia, almeno in prima istanza, interessato sessualmente a lei. Oltre ai citati, il cast di Cartier Affair conta su Ed Lauter, volto noto della Tv americana, e Randi Brooks, attrice dalla bellezza tipica del tempo. Al di là del piacevole passatempo che offre, c’è comunque un aspetto interessante in un film che sembra la summa degli eighties, il decennio del disimpegno come filosofia di vita. Se Cartier Rand cambia il modo di intendere il proprio successo grazie alle parole sincere ma dette quasi senza riflettere di Curt (in fondo a lui interessa solo fare il colpo e non tenersi il posto da segretario), il giovanotto deciderà per una svolta molto più impegnativa (una condotta onesta tentando di sventare il furto) perché la donna si fida di lui al punto di consegnargli le chiavi dell’antifurto. Ecco, la fiducia è la molla più potente che esista per redimere all’onestà, su questo siamo d’accordo; ma che lo si debba vedere così ben rappresentato in un film smaccatamente anni 80 fa riflettere su come, forse, ad essere superficiali, eravamo più che altro noi spettatori. 






Joan Collins








Randi Brooks

martedì 16 marzo 2021

DOPOSCUOLA PROIBITO

782_DOPOSCUOLA PROIBITO (Homework). Stati Uniti1982. Regia di James Bashears.

Film di infima categoria, Doposcuola proibito, opera unica (e meno male) di James Beshears (altrimenti tecnico del suono di onesta carriera), può essere interessante come passaggio cruciale nella carriera di Joan Collins. Non certo per l’interpretazione dell’attrice inglese nel film, davvero ai minimi termini in questa circostanza, ma per la sorta di sliding doors che si verificò al tempo, con la possibilità per la diva di finire nell’oblio più assoluto non ancora scongiurata nonostante il successo del di poco precedente The Stud – Lo stallone. La data di uscita nelle sale di Doposcuola proibito non deve infatti ingannare; il film fu girato nel 1979 e portato nelle sale solo tre anni dopo, approfittando appunto della presenza di Joan Collins nel cast considerato il suo contemporaneo successo nel serial Dinasty. Fu un’operazione poco pulita, visto che venne aggiunta almeno una scena di nudo usando una controfigura per rendere più piccante il ruolo di Diane (il personaggio della Collins); la cosa non sfuggì all’attrice inglese che, insieme ad altri del cast, intentò una causa contro la produzione. Tuttavia è un dato di fatto che, scene illecite a parte, il ruolo della Collins è davvero deprimente almeno quanto è sconclusionato il film. Viene da chiedersi come fosse possibile che la carriera della diva inglese fosse arrivata così in basso, alla fine degli anni settanta; certo, già L’impero delle Termiti Giganti (1977, di Bert I. Gordon) non è che fosse un capolavoro sotto il profilo stilistico, ma questo Doposcuola proibito è inaccettabile per un’attrice del rango di Joan. Che poi, non è nemmeno tanto l’apporto che l’attrice fornisce alla pellicola a lasciare sgomenti, quanto il fatto stesso che sia coinvolta in un lavoro tanto dilettantesco. Il regista, se così di può chiamare, assembla il suo film mettendo insieme una serie di situazioni senza troppa logica. 

Tommy, un ragazzo che ha problemi con il sesso, studia poco e pensa a fare la rockstar, mentre Sheila (Erin Donovan), la sua fidanzata, è totalmente intenta a migliorare le sue prestazioni di nuotatrice. Diane, il personaggio della Collins, è la madre della ragazza e dopo aver incitato la figlia ad una maggior cooperazione con Tommy, decide di provvedere in prima persona. Se detta così può anche essere una trama interessante per una commediola giovanilista ambientata in un college americano, è la totale mancanza di costruzione della storia a far naufragare un progetto che comunque palesava già delle falle notevoli. Ad esempio: a che pro assistiamo alle scene di Sheila in piscina? E che dire dei riferimenti alla Gonorrea? (Per la verità il filmino didattico sulle malattie veneree, per quanto strampalato, è di gran lunga la parte più interessante del film). Nel cast c’è anche la biondina Shell Kepler (è Lisa) che, nonostante non sia mai stata questa grande star, appare comunque sprecata. Figuriamoci Joan Collins; ma, evidentemente, nemmeno il successo di The Stud – Lo stallone, come detto di poco precedente a Doposcuola proibito, sembrava poter arrestare un certo declino della grande attrice, finita a recitare in un film che, dopo essere stato ultimato, i produttori non ebbero nemmeno il coraggio di fare uscire nelle sale. Sarà Dinasty a rilanciare definitivamente la Collins e, indirettamente, anche a far dare alla luce (dei proiettori) Doposcuola proibito. In modo del tutto immeritato.  


Joan Collins



Shell Kepler


lunedì 15 marzo 2021

THE BITCH

781_THE BITCH . Regno Unito1979. Regia di Gerry O'Hara.

Il grande successo di The Stud – Lo Stallone venne replicato l’anno successivo dal seguito, The Bitch, che ne riprende molti elementi sebbene con un risultato artistico più discontinuo. Ancora una volta alla base c’è un soggetto di Jackie Collins, scrittrice di romanzi piccanti, e al centro della scena sua sorella Joan, che riprende il personaggio di Fontaine visto all’opera in The Stud – Lo Stallone. Il fatto che alla sceneggiatura ci abbia lavorato il solo regista Gerry O’Hara forse è la causa di una certa povertà d’imbastitura di una storia che è infatti insufficiente da questo punto di vista. Troppi i punti morti, troppo insistiti i passaggi musicali dedicati alla discomusic del tempo, tanto da sembrare tentativi di dare un po’ di corpo al film. Oltretutto la colonna sonora, pur avendo avuto anch’essa grande successo in Gran Bretagna, non è a livello di quella di The Stud – Lo Stallone e questo è davvero un guaio, per la valutazione del film, visto lo spazio che è concesso alla musica su semplici immagini di persone che si divertono in pista da ballo. Certo, molto spesso si tratta di belle donne in abiti discinti sebbene va detto, per completezza d’informazione, che ci sono anche uomini e, ulteriore definizione messa bene in evidenza, non si tratta solo di soggetti etero ma ci sono anche gay e lesbiche. Ma si tratta di puri elementi decorativi che, messi in questi termini, poco influiscono sul risultato. Su questi aspetti The Bitch è un film deludente: la storia, che vede a fianco della Collins Michael Coby nei panni di Nico Cantafora, un imbroglione che cerca di barcamenarsi vivendo nel gran mondo senza appartenervi, potrebbe reggere al massimo un telefilm. A bilanciare questa tendenza generale al ribasso ci pensa naturalmente Joan Collins. 

La diva inglese, per la verità, sembra andare anche lei un po’ di conserva, limitandosi al cliché della donna senza scrupoli che tanto bene le riesce; tuttavia ci sono alcuni momenti molto interessanti, con l’apice nella celeberrima scena del Chauffeur Cap, assolutamente memorabile. Oltre ad essere un passaggio fortemente erotico, e a proposito della carica sensuale di Joan non ci possono essere dubbi, la scena ha una valenza sotto diversi punti vista. Intanto cristallizza, in pochi attimi, l’emancipazione femminile in ambito sessuale, con Fontaine che conduce apertamente il gioco. Un tema sempre sviluppato nei suoi film dalla Collins, di cui spesso era criticata la sfacciataggine, ma che era sostanzialmente una presa di possesso del gioco sessuale; la contemporanea ostentazione della propria fisicità serviva a preservarne la femminilità, una volta lasciato il ruolo completamente passivo della tradizione. Fontaine, come molti altri personaggi interpretati da Joan, voleva la sua autonomia e voleva anche rimanere femmina, voleva fare sesso e voleva provare piacere e divertirsi. Questo tentativo non era così semplice essendo la donna, per tradizione, il soggetto passivo sia del desiderio che dell’attività sessuale. Certamente c’erano altri temi, nella vita, ma questi aspetti erano forse quelli più condizionanti in senso generale; in ogni caso, la mise con cui la Collins si presenta nella scena cardine, pelliccia, corsetto, accessori vari e cappello del suo autista Ricky (Peter Wright), condensa in una sola immagine la volontà di cambiare le carte in tavola. 

E’ infatti lei a condurre, a guidare il gioco; un ribaltamento dei ruoli, che lavora in varie direzioni. Il cappello, elemento davvero indovinato, funziona anche in ambito sociale: sulla testa di Ricky lo relega al ruolo di chauffeur, su quella deliziosa di Fontaine ha un aspetto più marziale e ne certifica l’autorità. La differenza è colta dallo stesso Ricky, mentre la donna, stuzzicando l’imbarazzato del sottoposto, riporta in auge quell’accezione del termine Mistress che, unitamente al suo folgorante look, rievoca i tempi del fenomeno fetish degli anni 50 e 60. Questo approccio giocoso al tema del sesso (che è la matrice della cultura fetish), in un film in cui non si fa altro che giocare (a backgammon, ai dadi, alle scommesse), e il suo svincolarlo alle pretestuose pretese impegnate del passato, è certamente condivisibile. Meglio giocare al dottore che utilizzare il sesso come strumento di rivendicazione sociale, che va piuttosto ricercata negli ambiti adeguati. In questo senso si può anche leggere un altro passaggio interessante del film; Arnold (Kenneth Haigh), l’uomo che le cura gli affari, propone a Fontaine di sposarlo; lui saprebbe renderla una donna onesta. Al che lei quasi si scandalizza, sottolineando come diventare la moglie di qualcuno non ha niente a che vedere con l’onestà. 


Il che è vero; come è anche vero che, in seguito agli anni della contestazione, si aveva preso l’abitudine di inserire in modo un po’ superficiale il tema morale o etico anche in ambiti non del tutto inerenti, come appunto l’amore o il sesso, e addirittura anche l’amicizia. Il risultato di ciò fu proprio che, quando i tempi cambiarono, ci fu un completo rifiuto di questi aspetti, utilizzati per troppo tempo in modo strumentale, al punto che finirono accantonati quasi ufficialmente per almeno un decennio (gli ottanta) e oltre. Non che la Fontaine di The Bitch sia una persona rigorosa dal punto di vista morale, questo no (ad esempio non si chiede da dove arrivino i soldi che spende). Però nei rapporti personali mostrati è improntata ad una sostanziale correttezza; anche lo sgarro a Nico, nel finale, matura quando vede il compagno divertirsi con altre donne nell’orgia in piscina. Se vogliamo la trama pone una critica ad una certa superficialità derivante dal guardare solo i propri affari, senza approfondire. Il colpo gobbo conclusivo Fontaine lo ottiene scendendo a patti con la Mafia; un errore che si accorgerà esserle fatale già prima dei titoli di coda. Insomma, sono tanti gli elementi interessanti, sebbene gettati senza un adeguato sviluppo narrativo, questo è vero. Ma quando vediamo le immagini di The Stud – Lo Stallone sull’aereo che riporta Fontaine e Nico in Inghilterra, viene il dubbio che The Bitch possa addirittura ambire ad essere consapevolmente un’opera metalinguistica. Ma è certamente un azzardo anche solo pensarlo; quando mai può esserlo un filmaccio che ha l’unica ambizione di fare quattrini e fonda le sue uniche ambizioni sulle curve della protagonista? Spiazzante, arriva poco dopo una risposta di Joan Collins, che conferma la caparbia intenzione di ribaltare i ruoli della tradizione, chissà, forse anche su questo terreno.
A Nico, il macho del film, la diva replica infatti: “I am your man.” 


Joan Collins












domenica 14 marzo 2021

SUNBURN - BRUCIATA DAL SOLE

780_SUNBURN - BRUCIATA DAL SOLE (Sunburn). Stati Uniti, Regno Unito1979. Regia di Richard C. Sarafian.

Divertente commedia parodistica, Sunburn – Bruciata dal sole sembra quasi un film, in un certo senso, metalinguistico, ovvero che riflette su sé stesso o qualcosa di strettamente inerente, più che proporre una semplice finzione di realtà, come è di norma il cinema. In effetti, il fatto stesso di essere una parodia ci mette su quella strada, visto che il riferimento è il cinema d’avventura gialla (e non la realtà) che la storia del film di Richard C. Serafian prende bonariamente in giro. Il clima narrativo è infatti quello: il fatto che il protagonista maschile sia interpretato da Charles Grodin (è l’investigatore assicurativo Jake Dekkar), relativamente famoso per qualche ruolo semiserio, è un chiaro indizio; la scena inziale con la macchia di liquore sui calzoni con cui si presenta sul luogo delle indagini, quasi se la sia appena fatta sotto, ne è la conferma definitiva. Il tono quindi è leggero, ma l’azione non manca e le scene adrenaliniche sono anche funzionali, visto che Serafian, in regia, sa grosso modo il fatto suo. Tutto ciò però è marginale, in Sunburn – Bruciata dal sole, perché, come si può intuire bene dal titolo italiano, la vera protagonista del film è la partner di Dekkar, Ellie Morgan, interpretata da una favolosa e splendida Farrah Fawcett. La Fawcett tiene in modo naturale il centro della ribalta, che sia per l’illuminante sorriso, per gli occhi, per i famosissimi capelli (la cui acconciatura aveva persino un nome, the Farrah, richiestissima dalle donne di mezzo mondo) o anche per tutto quanto il resto: le bastò una sola stagione di Charlie’s Angels per rimanere nei cuori dei telespettatori dell’intero pianeta, lasciando sostanzialmente nell’oblio le altre interpreti degli angeli che pure erano bellezze mozzafiato. 

La decisione di abbandonare la serie fu uno choc per tutti, soprattutto per la produzione del telefilm che intentò una causa costosissima contro l’attrice e pare si adoperò per ostacolarne, in seguito, la carriera. Chissà se tutto questo ha a che vedere con l’attività, tutto sommato scarsa, che una star del calibro di Farrah avrà ad Hollywood fino alla prematura morte, occorsa nel 2009. Certo, a pensar male, si può dar ragione a chi, nel 2010, polemizzò con l’Academy Award per averne ignorato la scomparsa, nel tradizionale necrologio dedicato agli attori morti nell’anno precedente. Tutto ciò però centra poco con Sunburn – Bruciata dal sole film del 1979, opera nel complesso modesta che arrivava sorprendentemente nel momento topico della carriera dell’attrice americana. E verrebbe naturale chiedersi come sia possibile che la ragazza dei sogni di ogni terrestre finisca per lavorare in tre anni in un paio di modeste produzioni (oltre al film di Sarafian, Farrah interpretò un'altra commedia gialla, Chi ha ucciso mio marito? per un’altra delusione al botteghino), invece di sfruttare il momento magico. 

E allora, anche visto che nel film il riferimento all’ustione solare è davvero striminzito, viene il sospetto che la definizione sunburn utilizzata come titolo, sia da intendere in senso metalinguistico per sottolineare come la bellezza folgorante di Farrah si sia rivelata un’arma a doppio taglio e scottante, per la carriera della brava attrice. Perché sullo schermo la Fawcett si disimpegna egregiamente, aiutata certo dal disarmante sorriso e da tutto quanto il personale, permettendo alla pellicola di cavarsela pur nella generale povertà di idee concretamente narrative. Una mano gliela dà anche Joan Collins, chiamata ad interpretare Nera, una versione fortemente parodistica della mangiatrice di uomini vista all’opera in The Stud – Lo Stallone (1978, di Quentin Masters). Con Joan sulla scena l’impressione di essere di fronte ad un testo metalinguistico è ulteriormente rafforzata perché la diva era ormai un’icona che trascendeva il singolo film. Basta vedere la Collins, e all’attrice basta uno sguardo che confermi l’impressione, e sostanzialmente si è capito chi sia Nera, il suo personaggio. 


A quel punto Joan può pensare a divertirsi stuzzicando il protagonista, quando non a centrifugarlo con la proverbiale intraprendenza sessuale, oppure a piazzare una serie di battute, guarda caso, di matrice metalinguistica. Ad esempio quando il suo personaggio fa la svampita e non ricorda chi fosse Lee Van Cleef, (con il quale l’attrice aveva lavorato in Bravados, 1958, di Henry King) o scambia, in modo del tutto non plausibile, un semplice passamontagna nero per il costume da Uomo Ragno. La stessa Fawcett, per bocca del suo personaggio, non è affatto convinta che la rivale la racconti giusta. Sì, perché per quanto sia difficile da credere persino in una parodia, alla fine il buon Charles Grodin viene conteso dalle due splendide donne del racconto. La Collins gestisce la cosa alzando i giri della sua interpretazione, non potendo competere sullo stesso terreno, con i suoi 46 anni, con i 32 della bionda americana. Il personaggio della Fawcett invece ci scherza un po’ su; in ogni caso la diva inglese aveva una tale classe da essere inattaccabile. 

Preoccupata dall’interesse mostrato da Jake per Nera, Ellie osserva come la rivale sia “vecchia”, precisando un “direi che ha almeno quarant’anni” che ha, ancora una volta, una valenza metalinguistica: vuole essere offensivo per Nera, nel contesto del racconto, ed è invece un complimento per Joan Collins che, come detto, ne aveva ben sei di più. Ma, non contenta, la ragazza rincara la dose: “e direi che prende qualche pillola per tirarsi un po’ su!”. Lapidaria la risposta di Jake: “Devono essere delle bombe” che fa rimanere Ellie imbronciata e congeda degnamente la Collins dal film, lasciato per il finale completamente a disposizione della Fawcett. La bionda americana se la cava anche nelle scene d’azione, grazie ad un fisico atleticamente di primordine, ma non esagera limitandosi ad un paio di padellate ben piazzate; divertente l’inseguimento con l’auto, una Datsun 200SX, che finisce per fare irruzione addirittura in un’arena durante la corrida. Jake, affiancato dal vecchio amico Marcus (Art Carney), ha il tempo per chiudere la vicenda con un po’ di azione, nella quale non mancano i passaggi ironici, a ricordare il tono scanzonato della pellicola. Niente di trascendentale, sia chiaro, ma va bene tutto, fintanto che c’è Farrah sul grande schermo. Peccato avercela vista così raramente.   

Joan Collins



Farrah Fawcett