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sabato 17 settembre 2022

NON CI RESTA CHE IL CRIMINE

1105_NON CI RESTA CHE IL CRIMINE Italia 2019;  Regia di Massimiliano Bruno.

Geniale operazione studiata per bene a tavolino, Non ci resta che il crimine di Massimiliano Bruno, in ossequio alla tendenza nostalgica che rivaluta tutto ciò che è vintage, gioca a carte scopertissime facendo di questa l’apparente motivo d’attrazione. Il film è una sorta di cocktail, ma non lo si deve intendere in modo critico: del resto una delle canzoni chiave del film, l’indimenticata orecchiabilissima Tre parole (2001, di Valeria Rossi) fondò il suo successo mettendo in fila “sole cuore e amore”. Niente di originale, insomma, piuttosto un mix efficace; come Non ci resta che il crimine del resto. Si prende Non ci resta che piangere (1984, di Roberto Benigni e Massimo Troisi) e lo si contamina con Ritorno al futuro (1985, di Robert Zemeckis). Si aggiunge Romanzo Criminale (film del 2005, regia di Michele Placido e serie Tv tra il 2008 e il 2010, regia di Stefano Sollima) o direttamente le vicende della Banda della Magliana, poi via con gli anni Ottanta e la vittoria italiana ai mondiali. Si imposta il ritmo della storia sul modello di cinema metalinguistico un filo autocompiaciuto tanto in voga nel terzo millennio, quello che vede i fratelli Coen o Quentin Tarantino come massimi esempi, per capirci. Sceneggiatura e regia devono quindi essere solide: come riferimento va bene Hollywood ma anche i nostrani poliziotteschi dei Settanta ci stanno. Per fare bingo manca ancora qualcosa, perché è una scommessa giocata per eccesso e se tutto quanto non gira per il verso giusto si rischia di far venir giù tutto il castello. E’ il momento degli interpreti. E, manco fossero dei Paolo Rossi ai tempi di Spagna 82, i protagonisti di Non ci resta che il crimine concretizzano in modo convincete tutto il lavoro della troupe. Marco Giallini va sul velluto in un ruolo (Moreno) che gli sembra cucito addosso; Alessandro Gassmann (Sebastiano), deve sudarsela un po’ ma è comunque preciso; Gianmarco Tognazzi (Giuseppe) è forse quello che si deve impegnare di più, con una trasformazione del suo personaggio mica banale da rendere credibile; ma se la cava alla grande. Benissimo anche Edoardo Leo nel ruolo di Renatino, boss della citata Banda della Magliana. Ma chi sbaraglia letteralmente il campo è Ilenia Pastorelli nella parte di Sabrina, la pupa di Renatino che si invaghisce di Sebastiano. Non si tratta di una prestazione alla Meryl Streep, sia chiaro, ma rendere indimenticabile una spogliarellista di borgata non era nemmeno semplice. Dal Grande Fratello a stella del cinema il passo non è affatto breve: ma il grande schermo difficilmente si fa ingannare, la stoffa c’è eccome. E poi, se si parla di passi, visto le gambe di Ilenia possiamo scommettere con fiducia anche senza arrivare dal futuro.            





Ilenia Pastorelli 








Galleria di manifesti 




mercoledì 15 giugno 2022

IL TRADITORE (2019)

1033_IL TRADITORE . Italia, 2019; Regia di Marco Bellocchio.

Sul momento, quando si concretizza l’ultima scena, si rimane un po’ sorpresi, poi lo stupore evapora ma ci lascia in eredità un dubbio. A farci scordare che tra le tante sottotrame che compongono Il traditore, ce n’era ancora una sospesa era stata forse la complessità del castello narrativo del capolavoro di Marco Bellocchio? Narrativamente corposo e molto ben costruito, il film che racconta la vita di Tommaso Buscetta (uno strepitoso Pierfrancesco Favino) si muove tra continui flashback interessando decine di personaggi noti e eventi di grande risonanza. Normale che, a fronte di momenti ad altissima densità drammatica, la strage di Capaci o il maxiprocesso a Cosa Nostra, una piccola trama possa venire per un attimo accantonata dalla memoria. Oppure… Oppure anche noi, come insegna Jorge Luis Borges, ci eravamo convinti che Buscetta fosse l’eroe della nostra storia? Ecco, nel caso, Marco Bellocchio, che è un autore serio, ci ricorda chi fosse Tommaso Buscetta: un tizio capace di ammazzare un altro uomo solo perché ha avuto questo incarico. Un passaggio che va tenuto bene a mente, non a caso Bellocchio ce lo fa vedere prima di chiudere il film, così nessuno se lo può scordare. Ma questo non certo per infangare la memoria di don Masino, così veniva chiamato Buscetta tra i mafiosi, visto che è lui stesso a negare di non essersi mai pentito della sua affiliazione a Cosa Nostra. Il punto è che se si affronta la Storia d’Italia con i paraocchi di questa o quella parte non si arriverà mai alla verità. E questo anche nel caso ci si schieri sulla prospettiva dello Stato anzi, a maggior ragione questo visto che in troppi casi, in Italia, le istituzioni hanno dimostrato di non essere riferimenti attendibili in senso di onestà e rettitudine. La cosa è strettamente inerente alle vicissitudini del primo traditore della mafia e, quindi, del film di Bellocchio: per le istituzioni giudiziarie italiane Buscetta diviene, durante il maxiprocesso, la fonte della verità, salvo poi perdere drasticamente credibilità quando le sue dichiarazioni vanno a coinvolgere Giulio Andreotti (Pippo Di Marca), figura tra le più importanti di sempre del panorama politico nostrano. Il che potrebbe anche essere legittimo, per carità, un testimone può dire il vero in una circostanza e mentire nell’altra ma Il traditore si sofferma sul confronto tra l’avvocato di Andreotti e Buscetta, un interrogatorio teso a screditare la figura del famoso pentito. 

Che, in un paese tradizionalista come l’Italia, non è che sia mai stata al vertice della popolarità, sia chiaro: chi tradisce è un infame a prescindere dalla parte in causa. Terribile, in un certo senso anche in quest’ottica, lo sfogo della sorella di Buscetta, appena divenuta vedova per ritorsione della mafia verso la famiglia del traditore, che lo copre di ogni insulto possibile. Una situazione, quella della donna, in parte condivisibile, per via del fresco lutto, ma in sostanza sconcertante, perché la vera causa della morte del marito è la presenza della mafia e non il tradimento del fratello. Ma va riconosciuto che è difficile barcamenarsi in un simile contesto: un po’ come di fronte alle scelte registiche che Bellocchio deve compiere. Perché la mafia, e nello specifico la guerra tra i clan di Corleone e di Palermo, è un evento di grande importanza nella Storia d’Italia, un evento che al cinema, se raccontato bene, finisce inevitabilmente per divenire un filmone. Bellocchio, in realtà, cerca di mostrare la contabilità dei morti ammazzati con uno stratagemma degno di un melò degli anni Cinquanta, senza trasformare del tutto Il traditore in un crime movie adrenalinico. Ma la drammaticità degli eventi, il carisma dei nomi in ballo – dentro la storia ma anche tra gli interpreti, in primis quello di Favino – il fascino della ricchezza e dei suoi benefici – incarnato dalla bellissima Cristina (Maria Fernanda Cândido) – in fin della fiera fanno di quella di Bellocchio un’opera che si divora esattamente come un bel film di gangster. Che poi, pensandoci, è anche giusto: in fondo il proibizionismo in America fu un periodo socialmente difficile ma questo non vietò al cinema di ricavarci film che fossero anche godibili e divertenti. 

Uno dei problemi italiani, e non solo del cinema, è che non ci si sveste mai della casacca di guelfi o ghibellini del caso, che si insiste sempre a raccontare i fatti e gli eventi in modo fazioso, di parte. E che si mascheri questo essere perennemente schierati, spesso dietro ad un approccio impegnato, diversamente diverrebbe un gioco troppo scoperto. Con questo, il rischio che Buscetta faccia la figura dell’eroe nel film di Bellocchio è concreto e non del tutto meritato. Ma è un rischio che va preso, perché qualche merito il pentito più famoso d’Italia ce l’ha avuto e gli va riconosciuto. Parlarne, raccontarne le gesta, cercando di mantenersi equilibrati nella prospettiva utilizzata, è necessario perché tutte le figure chiave di un paese hanno le loro zone d’ombra, alcune più ingombranti altre meno, ma non si può negare l’importanza di alcuni protagonisti della nostra Storia solo perché c’è il rischio di elevare al rango di eroe persone di discutibile – discutibilissima, se vogliamo essere onesti – moralità. Ecco, per una volta il nostro cinema agisce con coraggio, senza nascondere il disagio o la paura dietro quel tipico aspetto autoriale che permette di mettere in scena qualunque cosa senza che sia ben chiaro cosa. 

Il traditore è un bel film d’azione, un film di mafiosi con personaggi importanti e carismatici: Buscetta, ovvio, ma anche Toto Riina (Nicola Calì) e Pippo Calò (Fabrizio Ferracane); e ci sono anche personaggi pittoreschi, come Salvatore Contorno (Luigi Lo Cascio), mentre tra i buoni spicca la figura del giudice Giovanni Falcone (Fausto Russo Alesi) che con la sua intesa con Buscetta certifica un qualche valore positivo di questi, per le istituzioni, per lo Stato e quindi, anche solo come conseguenza, per il popolo. In questo senso quello di Bellocchio diviene un film di importanza capitale: perché, come detto, gli italiani ben difficilmente possono avere simpatia per un infame. Ma se un’intesa e una sintonia, quindi una simpatia, con il traditore in questione un eroe conclamato come Falcone – quel giudice esibito e sbandierato come simbolo di giustizia da quello stesso popolo – invece ce l’ha, allora serviva davvero un film importante, bello e popolare, per scuotere un po’ le convinzioni della gente. Buscetta è una figura chiave nella Storia d’Italia, anche se quando ha pestato i calli sbagliati si sono affrettati a denigrarne forse oltre il lecito la credibilità. Ma, a parte queste tipiche beghe d’interesse contingente, fu il cardine che permise di mettere un freno al dilagare della mafia. Non un eroe, e l’omicidio a sangue freddo che inaugurò la sua affiliazione Bellocchio ce lo piazza la fine, mica che ce lo si dimentichi. Ma fondamentale, questo sì. Come Il traditore, il film di Marco Bellocchio.  







  Maria Fernanda Cândido







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giovedì 10 dicembre 2020

THE IRISHMAN

686_THE IRISHMAN . Stati Uniti2019. Regia di Martin Scorsese. 

Il momento decisivo, quello che conta più di ogni altro negli oltre 200 minuti di The Irishman, il film di Martin Scorsese, è quello in cui il protagonista, l’irlandese del titolo, prende le difese della figlioletta maltrattata da un commerciante. Che, a dirla così, sembra quasi un’azione nobile, da parte di Frank Sheeran (un Robert De Niro monumentale, ma che ve lo dico a fare?), il nostro irishman, appunto. Ecco, il senso, e non solo di The Irishman ma di tutti i gangster movie, o forse dell’intera storia dell’America del XX secolo, è in una sorta di cortocircuito che manda in malora quanto di positivo ci poteva essere nell’intenzione di Frank quando si reca a pretendere giustizia per la piccola Peggy, tenendola per mano, a testimonianza che un qualcosa di buona fede ce la doveva pur avere. “It is what it is”, espressione usata dal boss Russel Bufalino (Joe Pesci, un po’ trattenuto e straordinario), è una buona definizione e non solo nell’accezione usata dal capo mafia: lui intende che le cose vanno così e non ci si può fare niente, ma la circolarità della frase è emblematica dell’imbuto senza via di scampo in cui si sono infilati Frank e tutti quanti, uomini del malaffare in testa ma non solo, nella società americana del dopoguerra. Un eccessivo (e stravolto) senso di protezione per i propri cari (la famiglia), un malsano senso dell’onore (verso le persone rispettabili), senza un adeguato ideale morale a controbilanciarne gli effetti, porta queste persone e la loro società verso la rovina. 

E non è un problema solo dei malavitosi perché, in modo meno violento od estremo, riguarda tutta la società americana (e non), come mostrato dalle continue connessioni tra i fatti salienti del XX secolo e l’attività mafiosa, che nel film fiume di Scorsese accompagnano gli eventi privati dei nostri protagonisti. Il fatto che sia coinvolto nelle vicende anche Jimmy Hoffa (Al Pacino, che srotola la sua teatralità sul velluto) un sindacalista, che anche negli Stati Uniti è un qualcuno che dovrebbe avere a cuore gli interessi dei lavoratori, ci dice come sia radicato questo malsano modo di vivere. D’accordo, Hoffa una vaga idea di cosa possa essere un senso etico ce l’ha, e questo basta alla povera Peggy, assetata di giustizia sin dal tragico episodio raccontato. 

Giustizia vera e non brutale vendetta, e così i modi affabili di Hoffa e i suoi eclatanti slogan di propaganda, evidentemente bastano alla povera ragazza per infatuarsi dell’uomo. Ma, per quanto il film possa essere basato su fatti reali e per quanto possa contare la vera natura di Hoffa personaggio storico, The Irishman è soprattutto un film di gangster di Martin Scorsese interpretato da De Niro, Pesci, Pacino e perfino Harvey Keitel (è Angelo Bruno). Insomma, è evidente una certa matrice metalinguistica del film, a tratti sembra quasi un’opera di Tarantino o dei fratelli Cohen, tanto sono autocompiaciuti i dialoghi, le smorfie, gli sguardi, dei fantastici interpreti. 

E la regia di Scorsese è meno contingente al fatto in sé, meno estrema, e opera quasi di riflesso, godendosi i volti e le espressioni dei suoi personaggi piuttosto che sbatterci la violenza delle loro azioni in faccia. E’ davvero una sorta di bilancio finale, questo The Irishman, in modo esplicito, per via di qualche rimando, di Mean Streets (1973), de Il colore dei Soldi (1986) e, naturalmente, di Quei bravi ragazzi (1990), ma più in generale del suo cinema e, forse, dell’America stessa. Quello che ci rimane, sembra dirci il regista italoamericano, non è la violenza, nel film mostrata in modo svelto e poco spettacolare, e nemmeno il potere, in fondo il protagonista è solo un sicario. 

E la durezza delle figlie di Frank, incapaci di perdonare il padre per la sua assenza di umanità, con Peggy che rifiuta addirittura di parlarci, è solo l’aspetto evidente, lampante, della questione. L’incapacità di Frank di provare sentimenti, di provare rimorso, anche di fronte al momento finale della sua esistenza: è questo quanto rimane. Il senso di colpa, vera leva morale delle società di origine cristiana, se sradicato dall’etica diventa inefficace o peggio uno strumento del male. Frank che, in auto, abbraccia Hoffa prima di freddarlo nella casa preparata all’esecuzione, è l’emblema dell’America e, di conseguenza, di tutta quanta la nostra società. Sappiamo di fare il male, forse ci si ricorda vagamente anche di averne rimorso ma, come si dice, it is what it is



sabato 31 agosto 2019

L'ULTIMO GANGSTER

403_L'ULTIMO GANGSTER (The Last Gangster); Stati Uniti, 1937Regia di Edward Ludwig.

Edward G. Robinson torna nei panni del gangster, un ruolo che lo aveva resto famoso con Piccolo Cesare, uno dei capostipiti del genere dedicato ai criminali americani dei roaring twenties. Tanto per restare in tema, in questa pellicola, il formidabile attore si ispira ad un altro grande imperatore della Storia, Napoleone. Curiosità a parte, il film è ben girato, con attori calati a dovere nelle rispettive parti, a cominciare da Robinson, naturalmente, che recita alla sua maniera, costantemente sopra le righe eppure riuscendo credibilissimo. Il gangster in questione è Joe Krozac e ha le tipiche caratteristiche che Robinson sciorina con naturalezza in questi casi; c’è anche il giovanissimo James Stewart, perfetto nella parte del buon americano, il giornalista Paul North. Godibili anche i caratteristi Lionel Stander (è Curly, l’uomo di fiducia di Krozac) e John Carradine, compagno di cella del gangster in quel di Alcatraz. Il film è, in sostanza, tutto in funzione della scena finale; un passaggio ad alto contenuto drammatico e comunque sorprendente, dove Joe Krozac, l’ultimo gangster del titolo, riscatta la sua vita con un estremo sacrificio. Quello di Ludwig è un film dal valore simbolico, nell’eroica ma perdente figura del gangster, a cui si contrappone la famiglia che sopravvive alla vicenda. Di cui è interessante osservare come risulta composta: Paul North, il tipico bravo americano, si sostituisce a Krozac, prendendo per sé la moglie che il gangster aveva importato dall’Europa, e che quindi era ignara delle sue gesta criminali. Il piccolo di casa, Paul Jr, è in realtà figlio di Krozac e non è un particolare secondario nell’ottica simbolica della questione: nelle sue vene scorre sangue gangster. Per il momento, il futuro della Nazione è al sicuro sotto i buoni insegnamenti della stampa e dei bravi padri americani come North: ma, in caso di necessità, l’America potrà sempre contare sulla sua radice più violenta, il sangue che scorre nelle vene del figlio. E’ quindi giusto, in questo senso, tributare l’onore di una celebrazione epica, funzione propria dei gangster movie; così come è giusto che Krozac muoia. Ma lo fa stringendo nel pugno la medaglia di Lincoln, il premio per risultato raggiunto più ambito dai boy scout. Medaglia di Boy Scout e cuore da gangster: il sogno americano, per una volta, mostra il suo volto più autentico. Quello ipocrita.  










Rose Stradner