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venerdì 9 agosto 2019

L'IMPERATRICE CATERINA

392_L'IMPERATRICE CATERINA (Scarlett Empress), Stati Uniti 1934Regia di Josef Von Sternberg.

Se, nei sette film girati insieme, nell’apparenza cinematografica, la figura di Marlene Dietrich era servita al regista Josef Von Sternberg per una sorta di celebrazione della divinità femminile, accanto a questo innegabile e devoto approccio, il regista nato a Vienna se ne era servito con uno scopo assai più approfondito. Nelle mani di Von Sternberg, la Dietrich era una chiave per accedere alla più profonda natura umana, quella legata al desiderio, quella che era in sostanza il motore di ogni attività dell’uomo. Questo aspetto era alla base del primo film girato insieme, il magnifico L’angelo azzurro, dove una sconosciuta attrice tedesca, incarnando perfettamente il desiderio umano più intimo, era divenuta Marlene Dietrich, la diva. Un desiderio che pulsava nel profondo, talmente atavico da essere forse antecedente al ‘dimorfismo culturale’ che, nella società umana, aveva enfatizzato quello sessuale. Le derive velatamente androgine della per altro bellissima attrice erano perfette per stimolare un’attrazione sessualmente indefinita: la cristallizzazione dell’essenza stessa del desiderio. In L’imperatrice Caterina Von Sternberg ci porta all’origine di questo processo. La vicenda, che ha basi storiche legate alle gesta di Caterina la Grande di Russia, è ambientata nel ‘700: Sofia Federica (Marlene Dietrich) è una principessina tedesca, educata in modo assai rigido nel rispetto del suo ruolo femminile. La Dietrich ha 33 anni e, per interpretare una ragazzina diligente che si prodiga in continui inchini e baciamani a tutti i presenti a corte, deve fare appello alla propria ancora immacolata bellezza. 
Ma non sarebbe comunque abbastanza credibile se l’attrice, coadiuvata dalla messa in scena del regista, non virasse in leggero tono di farsa il suo continuo saltellare da una parte all’altra del palazzo di corte. Von Sternberg ottiene qui un effetto doppio: riesce a spacciare un’attrice sulla trentina per una ragazzina, mentre enfatizza gli aspetti assurdi e innaturali dell’educazione femminile dell’epoca, per altro cruciali per definire le coordinate nel merito ancora vigenti. A questo punto Sofia Federica viene mandata in Russia, in sposa all’erede al trono Pietro III; qui, ad attenderla, troverà più che altro la madre di questi, l’imperatrice Elisabetta (Louise Dresser). L’impatto è duro: le viene cambiato il nome in Caterina, e si trova in una società molto più grezza, arretrata, rispetto alla sua Germania. In Russia, nel XVIII secolo, il compito della donna è essenzialmente quello di procreare, nello specifico della questione che stiamo seguendo, dando un erede maschio all’impero russo. 


Quella che Von Sternberg realizza è una sorta di reazione chimica: una raffinata e diligente principessa, educata secondo le moderne regole del 1700, viene messa in un contesto estremamente brutale ed arretrato. Il risultato è che Caterina, spogliata delle infrastrutture culturali della sua educazione, ricorre alle sue naturali doti che fanno spudoratamente leva sul desiderio sessuale che induce in quanto femmina di splendido aspetto. La femminilità è quindi una forma di potere per Caterina ma, a questo punto, il potere che appunto ne ricava le permette una risolutezza nelle decisioni da prendere che le conferiscono al contempo la solita (per la Dietrich) matrice androgina. 


Ma è una risolutezza che deriva dalla consapevolezza del proprio fascino; quindi, quelle che sono abitualmente riconosciute come connotazioni tipicamente maschili e femminili sono strettamente interconnesse. La scena nel finale in cui cavalca in uniforme bianca, bellissima e sensuale ma spavaldamente vestita come un soldato tra i soldati, è emblematica in tal senso. Von Sternberg immerge questo suo particolare approfondimento in una messa in scena grottesca, simbolica, carica di elementi decorativi; le sue tipiche dissolvenze sono utilizzate sia per sfumare i contorni del racconto, ma anche per indurre suggestioni oniriche e ipnotiche. 
La narrazione visiva sembra far quasi ricorso agli stilemi del cinema muto, tant’è che c’è un largo uso di didascalie che scandiscono il racconto. In tale flusso quasi astratto di immagini, la Dietrich si destreggia bene, dopo la prima fase da ingenua fanciulla si mostra via via sempre più sicura del fatto suo, e la sua presenza scenica è naturalmente in sintonia con il tenore enfatizzato ed estremo della resa visiva. Von Sternberg, infatti, non si pone alcun limite, L’imperatrice Caterina è, dei suoi film interpretati dalla Dietrich, certamente il più delirante nei suoi eccessi grotteschi: le inquietante statue disseminate per tutte le scenografie, i dipinti, le icone, ma anche alcuni personaggi, come il granduca Pietro III (Sam Jaffe), vero e proprio freak, a cui fa da contrasto la sciatta, banale e rozza imperatrice Elisabetta. 


Per l’atmosfera che regna sulle immagini, sembra davvero di essere in un laboratorio a metà tra quelli degli scienziati pazzi dei film dell’orrore e quelli degli antichi alchimisti. Il distillato che alla fine Josef Von Sternberg ne ricava è il desiderio al netto di genere sessuale, cultura, condizione sociale, periodo storico.
Il desiderio allo stato puro: Marlene Dietrich.    

    

Marlene Dietrich









mercoledì 7 agosto 2019

ANASTASIA

391_ANASTASIA , Stati Uniti 1956Regia di Anatole Litvak.

Il tema dell’ambiguità è al centro della vicenda raccontata in Anastasia, la storia assai nota della principessa russa smemorata. Gli artisti coinvolti, direttamente o indirettamente, nella realizzazione del film del 1956, dagli autori della pièce teatrale alla base del soggetto, Marcelle Maurette e Guy Bolton, allo sceneggiatore Arthur Laurents, fino naturalmente al bravissimo regista Anatole Litvak, fanno un lavoro egregio trasformando una questione dai vaghi contorni storici in un testo strutturato in modo molto interessante. Ma è giusto dare spazio innanzitutto al lato spettacolare dell’opera, su cui la produzione non ha lesinato spese, regalandoci un autentico kolossal storico. La vicenda è ambientata a Parigi nel 1928: alcuni esuli russi, tra cui il generale Bounine (Yul Brinner, perfetto nella parte) cercano disperatamente la principessa Anastasia, erede dei Romanov, la dinastia reale russa. Girava voce, al tempo, che la principessa fosse l’unica sopravvissuta all’eccidio della famiglia reale avvenuto durante la rivoluzione; in realtà a Bounine e ai suoi soci interessa unicamente l’eredità dei Romanov, custodita a Londra, ma per accedervi serve una discendente riconosciuta pubblicamente come tale. Entra in scena così la protagonista della nostra storia, Anna Korev (una straordinaria Ingrid Bergman, premio Oscar per questa interpretazione), una smemorata, folle, sbandata, vagamente somigliante alla descrizione della nobile rampolla, che i nostri simpatici esuli cercano di far passare per Anastasia. 


Si comincia quindi con un indottrinamento forzato per creare una credibile principessa che, pur tra le traversie che possa aver subito, convinca i nobili russi e soprattutto l’imperatrice madre Marija Fëdorovna (Helen Hayes); in fondo è passata una decina d’anni, eventuali differenze potrebbero essere anche comprensibili. E, come detto, dopo il suo pubblico e fondamentale riconoscimento, gli averi dei Romanov custoditi in Inghilterra tornerebbero a disposizione, con lauta ricompensa per Bounine e i suoi collaboratori. Anna è dapprima un’allieva difficile, poi la sua capacità di interpretare il ruolo di principessa supera ogni rosea previsione, anche perché comincia a ricordare… che sia davvero lei, Anastasia?  
Su questo dubbio poggiano i maggiori motivi che stimolano l’interesse dello spettatore, ma Litvak e i suoi collaboratori imbastiscono a supporto anche un valido intreccio melodrammatico, tra Anna/Anastasia, il principe Paul (Ivan Desny) e Bounine, che vanno a comporre il classico triangolo sentimentale. La storia prende subito, grazie anche al prezioso lavoro svolto in tema di alleggerimento umoristico dalle comparse: la baronessa Von Livenbaum (Martita Hunt), Chernov (Akim Tamiroff) e Petrovin (Sacha Pitoëff) non fanno certo sbellicare dalle risate, ma stemperano i toni, smorzandone gli eccessi melodrammatici. 
Un lavoro notevole lo fa il regista di origine ucraina con una messa in scena sontuosa che rispetta l’impostazione teatrale ma ne aumenta la grandiosità, utilizzando anche gli scenari in esterni con una capacità compositiva dell’immagine che ha pochi eguali. La matrice teatrale mantenuta vivida anche nelle riprese in esterni non è un vezzo di Litvak: sottolinea piuttosto la predestinazione della protagonista, nell’ottica che abbia sangue regale, e di tutta quanta la vicenda stessa. Una predestinazione, in entrambi i casi, poi smentita dal sorprendente e progressista, si potrebbe quasi definire democratico, finale. 
Tutta la storia, tutte le difficoltà da superare, le diffidenze e lo scetticismo da vincere, sembrano infatti una sorta di percorso che porti Anastasia verso il premio finale, il riconoscimento come erede dei Romanov. Una questione che ha un motore molto borghese, il denaro dei Romanov ambito dagli esuli, sembra così, molto romanticamente, sfociare in una storia d’amore d’altri tempi. Nostalgia dell’epoca delle grandi monarchie: nel corso del film, l’ambientazione si trasferisce, in effetti, dalla repubblicana Francia al Regno di Danimarca. 
L’imperatrice madre sembra così quasi incarnare lo spirito della vicenda, con la sua diffidenza verso quella che potrebbe essere unicamente l’ennesima impostora non di sangue blu e, successivamente, la felicità per la nipote di stirpe reale ritrovata. E il sentimento dell’anziana sovrana è talmente forte da mettere in secondo piano la citata questione economica. Ma, a sorpresa, a questo punto, quando tutta quanta la trama formalmente ben imbastita, sia dentro la storia raccontata, (dalla ricerca fino al riconoscimento di Anastasia), sia in senso cinematografico, (la messa in scena sontuosa e teatrale di Litvak), ha preparato il gran finale, la cerimonia del pubblico riconoscimento, questo viene sottratto alla storia dalla vera forza dirompente dell’opera. Ed, essendo Anastasia un melodramma, questa forza non può che essere l’amore. L’amore tra Anna/Anastasia, (una popolana o una principessa?) e Bounine (un militare). 
Un amore che, in ogni caso, è trasversale alle classi sociali, e quindi moderno, ma è talmente vero e genuino, in modo molto più certo dell’identità regale della protagonista del film, che viene accettato anche dall’imperatrice madre; una donna che, si è potuto costatare, sopra ogni cosa disprezza la falsità. E anche lei non può convenire che il finale mancato, la fuga d’amore nascosta ai suoi e ai nostri occhi, è la chiusura perfetta per una storia e per un film che è stato una rappresentazione superficiale, formalmente impeccabile, ma priva di contenuti. 
Un po’ come la presunzione divina delle teorie monarchiche; tanta forma, poca sostanza. Litvak riesce, quindi, a rispettare i canoni di una storia con queste coordinate, compensando la vacuità della questione con la confezione formale della messa in scena e le interpretazioni degli attori (Bergman in testa), mentre colma lo spazio vuoto intrinseco con la storia d’amore tra Bounine e Anastasia. Una storia d’amore invisibile, nel film: in origine tra i due, non c’è questo gran feeling, poi cominciano volontariamente ad evitarsi. La chiusura con il finale mancato, che viene giustamente meno proprio per contrasto al tenore della storia, è il perfetto epilogo per una vicenda basata sull’ambiguità dell’apparenza. Cinematograficamente ben illustrata, ben mostrata, ha per argomento un tentativo di ingannare le apparenze, in un mondo, quello dell’aristocrazia, fondato su teorie, le dinastie, il sangue blu, concrete quanto l’apparenza stessa.
Cose a cui l’amore, quello vero, è del tutto indifferente. Come del resto si rimane alla domanda che rimane un po’ sospesa: ma in fin dei conti, la protagonista è Anna o Anastasia?
Mah, l’importante è che sia Ingrid Bergman. 



Ingrid Bergman





lunedì 5 agosto 2019

KATIA, REGINA SENZA CORONA

390_KATIA, REGINA SENZA CORONA (Katia). Francia, 1959Regia di Robert Siodmak.

Remake di un omonimo melodramma di Maurice Tourneur, Katia, regina senza corona non riesce a risollevare il declino della carriera registica di Robert Siodmak. Beninteso, nel complesso il film è accettabile, una storia romantico sentimentale in cui veniamo immersi nelle beghe di corte dei Romanov, la dinastia regale russa. Seconda meta del XIX secolo, è il tempo dello Zar Alessandro II (Curd Jürgens), un sovrano illuminato che si scontra con le resistenze della nobiltà che preferirebbe mantenere intatti tutti i propri privilegi. La Zarina Marija Aleksandrovna (Monique Mélinand) è gravemente malata e il marito finirà per essere affascinato dalla giovanissima studentessa Katia Dolgurockij (una fiammeggiante Romy Schneider). Ecco, il vero e unico motivo di interesse, al di là di una evocativa ed efficace ricostruzione storico/scenografica, è la presenza della Schneider. Va riconosciuto che non è che l’attrice austriaca compia un capolavoro di recitazione, sia chiaro. Diciamo che cavalca il successo dei suoi precedenti film nel ruolo di Sissi, l’imperatrice austriaca, che le avevano dato notorietà. Considerevole il numero di pellicole in cui la Schenider, al tempo, a soli 21 anni, aveva già recitato in ruoli di giovinette di sangue reale: il ruolo di Katia nel film di Siodmak si va ad aggiungere a quello di Vittoria in L’amore di una grande regina (1954), a quello citato di Sissi, nella trilogia dedicata ad Elisabetta di Baviera (La principessa Sissi, Sissi-La giovane imperatrice e Sissi-Il destino di un’imperatrice) e, volendo, c’è anche Sissi, la favorita dello Zar, film estraneo alla citata trilogia, nel quale i distributori italiani cambiarono il nome della protagonista Fanny per sfruttare la notorietà dell’attrice nel suo ruolo più famoso. 
In fondo, quella di Siodmak non è un’operazione poi dissimile: girato con onesta professionalità, ben ambientato, ha come unico obiettivo rimettere Romy Schneider in una parte che le permetta di mostrare la verve e la vitalità che l’attrice austriaca sprizzava da tutti i pori in modo naturale. Fa un po’ effetto, per la verità, assistere ad una storia d’amore tra una ragazza tanto giovane e briosa e lo zar interpretato da Jürgens che, al di là della evidente differenza di età, appare piuttosto imbalsamato nelle sue uniformi. Insomma, anche per questo, francamente, Romy non riesce ad essere tanto convincente: più che l’uomo, alla Katia da lei interpretata, sembra interessare se non proprio la poltrona, perlomeno il mondo da favola della vita di corte. E le sue idee illuministe potrebbero anche essere una conferma in tal senso: una sorta di pegno da pagare per i privilegi a cui ambisce. Guardare Katia, regina senza corona, al di là della bellezza e del fascino di Romy, può essere invece inteso come tributo alla grandezza passata di Robert Siodmak. Ma di cui, nel film, rimane solo qualche eco.




Romy Schenider