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sabato 21 gennaio 2023

MALEFICENT - SIGNORA DEL MALE

1205_MALEFICENT - SIGNORA DEL MALE (Maleficent - Mistress of Evil). Stati Uniti 2019; Regia di Joachim Ronning.

In genere il fatto stesso che un film abbia avuto successo è una ragione sufficiente perché abbia un sequel; in questo senso Maleficent - Signora del Male è quindi un’opera dalle solide basi motivazionali sin da subito. Ma quello di Joachim Rønning è anche un film che ha scopi più specifici perché, anche se il precedente Maleficent di Robert Stromberg aveva centrato un ottimo risultato, qualche effetto collaterale poco convincente che ne era maturato come conseguenza andava sistemato. Innanzitutto per la strega Malefica (la divina Angelina Jolie, naturalmente) andava ricercato un equilibrio migliore, visto che il suo rivelare la propria bontà d’animo rischiava di scalfirne un po’ il fascino (ma solo in linea teorica, visto la presenza scenica di Angelina). Tuttavia se prendiamo per buono il suo appellativo di strega cattiva è effettivamente vero che, dopo il colpo di scena con cui si era chiuso il film del 2014, bisognava ridare un po’ di verve saporita al personaggio per meglio bilanciarlo. L’operato di Rønning sembra andare in questa direzione ma in modo saggio: il rischio era che, riportando la strega in area, diciamo così, più negativa, l’impressione risultante fosse di un peggioramento del personaggio. Malefica, quindi, viene ripristinata subitissimo nella sua cattiveria, per poi poter stemperarla gradatamente attraverso un film che la lascia comunque sempre bella tosta e ben poco mansueta. Un altro aspetto che andava sistemato, per così dire, era il lieto fine che, per prestare onore all’originale d’animazione del 1959, il capolavoro La Bella Addormentata nel bosco, doveva prima o poi prevedere le nozze tra Aurora (Elle Fanning) e il principe Filippo (Harris Dickinson). 

Aspetto che diviene il fulcro dell’intera nuova storia e che si attiene comunque alla linea dell’opera originale, riproponendo un happy ending che più classico non si può. Ma il punto più dolente di Maleficent era il cattivo della circostanza: per un film che si incentrava sulla figura della cattiva per eccellenza della Storia del cinema, in fin dei conti quello di Stromberg ci proponeva come villain di turno una mezza calzetta come il Re Stefano. Il che era una curiosa contraddizione, insomma. Ecco quindi che per questo Maleficent - Signora del Male viene ingaggiata una rivale cattiva coi controfiocchi, nientemeno che Michelle Pfeiffer nei panni della regina Ingrid, madre del principe Filippo. L’operazione è ben calibrata: la Pfeiffer regge il confronto con la Jolie perdendolo di giustezza, visto che la protagonista della storia è ovviamente Angelina che, oltretutto, ha anche quasi una ventina d’anni in meno. Se proprio vogliamo, ad uscire con le ossa ulteriormente rotte è la povera Aurora perché Elle Fanning, pur essendo una gradevole fanciulla, per il momento non ha nulla a che spartire con divinità cinematografiche come le due star citate. Detto questo, naturalmente, alla Disney sanno perfettamente che bisogna anche riempire la pancia degli spettatori e, sul piano narrativo/spettacolare non hanno niente da imparare e così Maleficent - Signora del Male sciorina il classico campionario di azione fantasy funambolica con tanto di drago (dalle fattezze della fenice) che era un altro elemento che andava certamente rinforzato. Nel complesso, considerato che i sequel non è che siano sempre all’altezza della situazione (e quasi mai dell’originale) Maleficent - Signora del Male sbriga le sue consegne unendo l’utile al dilettevole.   


Angelina Jolie



 Michelle Pfeiffer 



Ella Fanning 


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giovedì 19 gennaio 2023

TOTÒTRUFFA 62

1204_TOTÒTRUFFA 62 Italia 1961; Regia di Camillo Mastrocinque.

Film dal titolo quanto mai emblematico, questo Totòtruffa 62 fa riferimento all’indole truffaldina che, bene o male, il grande attore napoletano ha quasi sempre portato con efficacia sullo schermo. E probabile che questo sia uno dei motivi del grande successo del comico – oltre all’indiscusso talento, sia chiaro – perché ha dato corpo ad un’attitudine assai diffusa lungo lo stivale. Nel film ci sono alcune scenette in suddetta materia davvero strepitose: la vendita della Fontana di Trevi, il raggiro al padrone di casa – con un Totò nei panni di Lola davvero superlativo – e anche le scene all’ambasciata sono gustose. Da questo punto di vista, il lungometraggio è in assoluto uno dei migliori tra quelli interpretati dal Principe della Risata. Un po’ fastidiosa la parte in cui, a colloquio con il commissario Malvasia (un convincente Ernesto Calindri) Antonio Peluffo (ovvero Totò) cerca giustificazioni strappalacrime per motivare la sua attività di truffatore. In particolare ai limiti dell’odioso la parte in cui il nostro prova, con il suo consueto momento serio e commiserevole, a dimostrare come i suoi imbrogli siano semplicemente la controparte del lavoro onesto del commissario e addirittura assimilabili ad esso per lo scopo che hanno in comune – l’istruzione dei figli. Meno male che Malvasia è tipo sbrigativo quanto il Calindri e non se la beve, sebbene l’intenzione di strappare la commiserazione da parte dell’autorità rimane, e rimane soprattutto come cifra tipica del comportamento del personaggio Totò. Personaggi che risulta assai più interessante quando mostra la sua vera indole, ovvero quella ben poco onesta; anche perché questa indole malandrina è alla base dello stesso tentativo di mettere nel sacco l’autorità provando ad impietosirla con argomenti tanto ipocriti quanto falsamente commoventi. In sostanza non se ne esce: la truffa è sempre dietro l’angolo.
Nel finale non potendo arrivare al lieto fine con mezzi leciti – e per una volta evitando quelli illeciti – Matrocinque e gli sceneggiatori Castellano e Pipolo trovano la soluzione a questa commedia all’italiana con l’eredità dello zio d’America (del sud), variante della vincita alla lotteria. Gira e rigira, lo scopo è sempre quello di evitare di lavorare e potersela spassare: questo è il vero punto di forza di questo genere di film tipicamente italiani.
La spalla di Totò in questa pellicola è Nino Taranto, sicuramente all’altezza della situazione. Di rilievo la presenza di Estella Blain nei panni della figlia del Peluffo, che mostra una presenza scenica davvero fuori dal comune. Un’attrice con il phisique du role da vera diva.   








Estella Blain








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martedì 17 gennaio 2023

RIO BRAVO

1203_RIO BRAVO (Rio Grande). Stati Uniti 1950; Regia di John Ford.

Terzo film in tre anni dedicato da John Ford alla cavalleria americana, Rio Bravo è forse quello in cui il regista esprime definitivamente e più chiaramente il suo punto di vista sul corpo militare che meglio rappresenta la Conquista del West. Se nei precedenti Il massacro di Fort Apache e I cavalieri del nord-ovest aveva lasciato intendere che la cavalleria fosse per il soldato una sorta di famiglia, qui mette in evidente competizione la basilare istituzione della società umana con il corpo militare in questione. Nello specifico la disputa si snoda attorno alla famiglia del colonnello Yorke (John Wayne), comandante di un avamposto presso il confine messicano. Tra le nuove reclute, infatti, in questa guarnigione arriva il figlio del colonnello, Jefferson (Claude Jarman Jr), seguito a ruota da sua madre Kathleen (Maureen O’hara). La famiglia Yorke si ritrova così riunita in pieno territorio ostile, dopo un lunghissimo periodo di separazione (15 anni); Ford è bravo a lasciar intendere i trascorsi senza dilungarsi in troppi dettagli. Comunque pare che, in un’azione militare della precedente guerra, quella civile, proprio il colonnello nordista Yorke fu incaricato di bruciare la sua stessa casa, o meglio, quella che era la magione di sua moglie, ricca possidente sudista. Il militare obbedirà ai suoi doveri: una scelta che pagherà amaramente in termini di armonia famigliare. La contrapposizione tra cavalleria e famiglia privata è così esplicitata nel passato dei due protagonisti, e viene riproposta ora che la donna giunge appositamente all’avamposto per chiedere al marito di congedare il figlio. 

Tra l’affetto paterno che lo spingerebbe ad accettare la proposta della moglie e il dovere militare di indurre il soldato a mantenere fede al giuramento, non c’è partita e, via via nella pellicola, anche una testarda Kathleen Yorke dovrà accettare il fatto. Che il film sia una sorta di prova di forza tra due classiche istituzioni americane come l’esercito (la cavalleria) e la famiglia, ce lo dice anche la struttura del film, che è circolare e non porta in sostanza da nessuna parte. Difficile prendere posizione, insomma, eppure i rapporti di importanza tra questi elementi vanno trovati. Il film è divertente ed appassionante, del resto è un western di John Ford e questo vale come assoluta garanzia. Come ogni classico è importantissimo il commento sonoro: ballate, marcette e canzoni sostengono la narrazione. Non manca nemmeno l’aspetto umoristico di cui si incarica prevalentemente il sergente Quincannon (uno strepitoso Victor McLaglen). 

Il racconto comincia con l’arrivo dei cavalleggeri al campo: i soldati sfilano quasi in parata, di fronte alle donne che li attendono e, pur se logori e sporchi dalla missione, appaiano eroici e marziali. Nel finale, c’è un altro ritorno simile e stavolta c’è anche la donna del colonnello Yorke in trepida attesa sia per il figlio che per il marito: assicuratasi che il figlio stia bene – precedenza alla preoccupazione materna – affiancherà il marito ferito trainato da una improvvisata barella, tenendole la mano e, al contempo, marciando con lui. Accettando, in un certo senso, la priorità dell’esercito sulla famiglia. L’esercito – d’accordo, qui c'è la cavalleria ma che dell’esercito ne è l’espressione in un ambito cruciale, ovvero durante la nascita della nazione americana – per Ford rappresenta il senso del dovere, ed è superiore ad ogni cosa. Alla famiglia ma anche alla Legge, con il colonnello Yorke che accetta quasi con piacere di violare i confini col Messico se a chiederlo è il suo generale. La cavalleria rappresenta ciò che è giusto, ciò che serve alla collettività, perché pacifica la regione e ne permette lo sviluppo: non a caso la missione che viene mostrata è il salvataggio di bambini, ovvero del futuro della società. Ford quindi non esalta tanto l’aspetto militare della cavalleria ma, confrontandola con la famiglia, vuole dire che il senso del dovere sociale è più importante della propria individualità, che per natura tenderebbe a privilegiare i propri affetti. 

Nei precedenti film, l’accostamento tra cavalleria e modello famigliare era giocato sulla similitudine: il corpo militare era mostrato come una sorta di famiglia, con la solidarietà ma anche gli scherzi, i momenti di vita quotidiana. Questo aspetto non viene perduto da Rio Bravo, come detto anche qui c’è il sergente Quincannon, sorta di vecchio zio brontolone ma dal cuore d’oro. Se in precedenza Ford aveva preso il modello famigliare come riferimento, con Rio Bravo sposta il confine un po’ più in là. La cavalleria è come la famiglia, ma più importante perché è una famiglia a livello sociale, nazionale e non individuale o parentale. Il Corpo della Cavalleria soddisfa proprio il criterio di estendere e consolidare il senso di appartenenza nazionale, necessario all’America sia come Nazione crescente e forse anche per dissipare i residui della Guerra Civile che il regista non manca mai di ricordare. Particolare è l’approccio che il regista ha per quella che da noi è conosciuta come Guerra di Secessione, perché il suo avvicinarvisi non ha quasi nulla di storico ma è marcato da una nostalgia un po’ di maniera. Si tratta forse di un approccio strumentale, ovvero Ford prende il decantato modello sudista, alla guisa di una sorta di aureo passato che gli Stati Uniti storicamente non hanno ma che serve per imbastire il suo racconto epico. Anche gli indiani sono qui utilizzati dal regista americano in questo modo, come già aveva fatto in Ombre Rosse. In queste pellicole i nativi non hanno connotazioni o motivazioni storiche ma rappresentano unicamente una forza ostile alla nascita della Nazione; sono narrativamente utilizzati meramente come ostacolo naturale per la Conquista del West, come può esserlo un fiume impetuoso da guadare o un passo innevato sulle Montagne Rocciose. In altri film Ford ha dimostrato di conoscere molto bene la questione indiana, ad esempio nel discorso di Cochise ne Il massacro di Fort Apache, che fu il primo dei tre film fordiani sulla cavalleria e perciò precedente a Rio Bravo. E’ curioso, quindi, che il regista abbia poi deciso di lasciar perdere quell’approccio storico più rispettoso del destino capitato ai pellerossa, privilegiando in alcuni dei successivi film, altri aspetti.
Ma forse questo lo può pensare un europeo; un americano come John Ford ha un’indole più pratica e, tra il parlare di un enorme ingiustizia ormai passata alla Storia e tentare di forgiare un popolo che abbia un forte senso del dovere, propende per la seconda opzione.
Avrà peraltro modo di farsi venire qualche dubbio. 









Maureen O'Hara





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