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domenica 27 dicembre 2020

INTO THE DARK: POOKA!

703_INTO THE DARK: POOKA! (Into the Dark: Pooka!). Stati Uniti; 2018. Regia di Nacho Vigalondo. 

Il film televisivo che costituisce il terzo episodio della serie Into the Dark venne trasmesso a dicembre 2018 e, proseguendo la caratteristica della produzione, aveva per tema un argomento inerente al mese di messa in onda. In questo caso, abbastanza prevedibilmente, le festività natalizie. La Blumhouse Television, produttrice dell’opera, è giustamente rinomata e anche Pooka!, come i precedenti episodi, da un punto di vista formale è ineccepibile. L’intro prima dei titoli, con una scena che, in modo evidente, si riferisce al momento clou del racconto, destinato a tornare successivamente e a rivelarsi solo nel finale, è molto evocativa, quasi ipnotica. Poi la storia si dipana in modo abbastanza lineare, con il protagonista, Wilson (Nyasha Hatendi), attore teatrale che, come impiego, non trova di meglio che indossare un costume, quello di Pooka, appunto, legato alla campagna pubblicitaria del pupazzo in questione. Non è un gran che, in effetti, come lavoro, e desta qualche perplessità l’interesse con cui l’uomo vi si dedica; certo, forse influisce il fatto che, proprio grazie all’indossare il costume del bambolotto del momento, può fare una sorpresa al figlioletto di Melanie (Latarsha Rose), la ragazza di cui si è innamorato. Tuttavia qualcosa non gira per il verso giusto; sarà forse l’inquietante vicina di casa, Red (Dale Dickey), ma un’atmosfera malsana pervade tutta quanta la vicenda. E qui, per qualche momento, sorge un dubbio: che sia un film fatto unicamente di mestiere, visto che Nacho Vigalondo sa il fatto suo e la produzione ha già dimostrato di essere all’altezza? 

Mentre la trama incalza, e la storia arriva al suo acme, lo spettatore più smaliziato può cominciare a credere che Pooka! sia il solito e prevedibile horror che si muove sui codici prestabiliti del genere. Certo, Vigalondo è talentuoso e calibra la sua messa in scena senza eccedere in virtuosismi sterili, però la sostanza non sembra essere troppo originale (basti citare Clown, 2014, di John Watts). Ma poi, anche per questi ipotetici scettici spettatori, in conclusione arriva un notevole colpo di scena a rivitalizzare l’attenzione: altro che prodotto serializzato, Pooka! è un signor film. Il finale è un vero passaggio da maestro e rivaluta ulteriormente il già pregevole, almeno dal punto di vista formale, lavoro visto fin lì. Pooka! si smarca, a questo punto dai debiti verso i film di possessione da costumi, vestiti o cose del genere; ovviamente si possono trovare, alla luce della svolta finale, altri riferimenti ma, in questo caso, la gestione della cosa ha un’autorevolezza tale da giustificarsi da sé. L’influsso malefico del pupazzo è solo un escamotage psicologico di Wilson che cerca in questo modo di alleggerire la propria sciagurata colpevolezza. Ma nemmeno accampare alibi come una maledizione può liberarci dal loop in cui ci condannano le nostre responsabilità.
Bel regalo, per Natale.  
  






Latarsha Rose



sabato 26 dicembre 2020

IL CIELO PUO' ATTENDERE

702_IL CIELO PUO' ATTENDERE (Heaven can wait). Stati Uniti; 1943. Regia di Ernst Lubitsch.

Stando a quanto diceva George Cukor, “Mr. Lubitsch ha il potere di rigirare qualsiasi scena desideri ogniqualvolta, a sua propria discrezione e senza interferenze da parte di nessuno; potere, questo, che non ha nessun altro regista di mia conoscenza impiegato alla Paramount.” Parole che sembrano celare malamente una certa invidia, forse legata anche ai trascorsi tra i due autori ai tempi di Un’ora d’amore (1932), ma che tratteggiano in modo adeguato l’autonomia lavorativa di cui godeva Lubitsch. I tempi della Paramount, nel 1943 in cui uscì Il cielo può attendere, erano finiti, per il regista nato a Berlino, e il film fu prodotto dalla Twentieth Century Fox; secondo lo stesso Lubitsch, allo studio non erano convintissimi delle sue scelte registiche, a proposito dell’opera ma, in fin della fiera, il formidabile autore riuscì a portare sullo schermo quello che aveva in mente a dispetto delle convinzioni e dei tentativi di interferenza esterni. E già questo è un aspetto considerevole, della cifra autoriale di Lubitsch: la capacità insuperata di riuscire ad arrivare al proprio obiettivo. Quando guardiamo un film di Ernst Lubitsch, sappiamo che l’autore non si prende alcun alibi; e questo è un atto di coraggio non da poco per un regista che amava lasciare sempre qualcosa di indefinito e indefinibile, nelle sue opere. Se l’esempio più evidente di questa capacità ne è proprio l’essenza, il celeberrimo e inimitabile Lubitsch Touch, (legato ad una magica formula ormai scomparsa col suo creatore, parole di Billy Wilder, forse il più autorevole erede di Lubitsch), ne Il cielo può attendere pare fosse il significato del film stesso. 

Alla Twentieth Century Fox infatti si chiedevano, e chiedevano al regista, che senso potesse avere una storia di un tizio che pensava solo a fare la bella vita e, sostanzialmente, non combinava niente di nobile o memorabile. Il punto era che il messaggio, il fatidico senso che spesso è ricercato nei film come un sigillo da esibire, era stato eliminato da Lubitsch in un’azione di spoliazione che aveva portato Il cielo può attendere ad essere privo dei soliti codici e formule prestabiliti dall’industria cinematografica. In fondo anche l’azione eroica dei protagonisti dei film di avventure è un cliché narrativo, un qualcosa per appassionare lo spettatore, anche se è, effettivamente, una nobilitazione in chiave educativa del media cinema. Il cielo può attendere, quasi che Lubitsch a soli 51 anni si rendesse conto di essere vicino al capolinea (morirà a 55), non ostenta però pretese o ambizioni didattiche e semmai è una sorta di bilancio, un’analisi sulle convinzioni dell’epoca nella società americana. 


Questo controverso rapporto con l’America era comune a molti registi di origine europea che erano là emigrati nel XX secolo; sul momento gli Stati Uniti erano in genere sembrati un paese moderno, vitale, progressista ma, alla lunga, qualche magagna era venuta fuori. Lubitsch non è particolarmente duro con le critiche, non gli sarebbe naturale, ma non per questo è meno graffiante. La borghesia aristocratica americana è dipinta senza sconti e presa in giro da più di un punto di vista. I Van Cleve, famiglia bene newyorchese al centro della scena, in generale non brilla certo per acume e gli unici a salvarsi sono i due scapestrati di casa: il giovane Enrico (Don Ameche) e suo nonno Hugo (Charles Coburn). Oltre allo sfarzo ricercato che circonda ogni dettaglio di casa Van Cleve, che fa di tutto per ricordare un’aristocratica residenza europea dei secoli andati, mamma Bertha (Spring Byington) assume una cameriera francese (Signe Hasso) per essere all’ultima moda. 

Un dettaglio, uno dei tocchi di Lubisch, per dirci che la classe egemone americana guardava il Vecchio Mondo per sentirsi aggiornata. Ma cosa ci si poteva aspettare da una donna, Bertha, che quando appare sullo schermo sembra l’immagine riflessa di sua madre (Clara Blandick), un’altra veloce pennellata del maestro per suggerire che non si tratta di persone che stiano in qualche modo evolvendosi. Ben più acida, ma nel proseguo tutto sommato stemperata con grandissima maestria, la rappresentazione dell’altra famiglia protagonista sullo schermo, gli Strabel. Allevatori di vacche del west, gli Strabel simboleggiano la vera anima americana, la famiglia di coloni, e sono semplicemente più pacchiani e rozzi dei loro connazionali newyorchesi. 

Eugene Pallette è straordinario nei panni del vecchio Strabel e Majorie Main non è da meno nel ruolo della sua bigotta e rinsecchita moglie: con l’ennesimo tocco, Lubitsch ci propone, come figlia di una simile coppia, composta da due persone fisicamente sgradevoli in modo opposto, la sublime Gene Tierney, ovvero Martha, futura moglie di Enrico. Gene quando appare nell’elegante vestito lilla riesce ad essere la quintessenza della bellezza e, inoltre, il suo stato civile finale e completo, Martha Strabel Van Cleve, è un vero moto di ottimismo. La protagonista del film riesce a convertire in bellezza le brutture di casa, eredità di mamma e papà Strabel, ma sarà in grado anche di redimere, semplicemente con il suo irresistibile fascino, anche le intemperanze morali di Enrico. Lubitsch, in questo senso, prova anche a depistare la questione dall’aspetto estetico (probabilmente, senza troppa convinzione, per la verità): la Tierney è favolosa nelle scene iniziali e poi, quando viene mostrata invecchiata, ha un’assurda acconciatura che, sebbene non riesca a scalfirne minimamente la bellezza, certamente non aiuta ad esaltarla, forse appunto volendo sottolineare che l’amore di Enrico per la donna non è solo legato al suo aspetto estremamente gradevole. 


Un po’ come se Lubitsch volesse far passare il concetto che Martha non è più nel fiore degli anni ma non se la sentisse di rischiare di imbruttire al trucco la Tierney. Tutto questo è però visto in flashback, perché l’incipit del film vede Enrico presentarsi al cospetto di Sua Eccellenza (Laird Cregar) una volta che il nostro protagonista è trapassato. L’impostazione che Lubitsch dà a questo fantastico e bizzarro inizio di storia non è certo credibile, l’Inferno che ci viene presentato ha un che di sobrio kitsch che, volendo, è un’ulteriore dimostrazione della raffinata capacità dell’autore di trovare sempre la combinazione giusta per l’occasione. Tuttavia l’idea del flashback è doppiamente funzionale: in primo luogo perché esplicita l’idea di una sorta di bilancio, con la vita di Enrico (e la filosofia di vita di Lubitsch) ad essere messa sotto esame da Lucifero in persona, ma soprattutto perché predispone a dovere la storia per esprimere al meglio la cifra stilistica dell’autore. Non solo il film è svuotato dai classici codici narrativi (in primis, la mancanza di azioni eroiche) ma i momenti cruciali sono tenuti fuori campo e, già a partire dall’idea di flashback, fuori tempo. La scena magistrale, in questo senso, è la morte del protagonista. 


Ormai vedovo, Enrico è allettato gravemente malato e si è assopito quando viene svegliato da una infermiera non proprio avvenente. Nell’aprire gli occhi, per Enrico, lo scorno è doppio: stava sognando di essere all’ultimo viaggio ma incontro, immersa in un mare di whiskey, gli si presentava una bionda deliziosa con cui l’uomo poteva ballare un valzer della Vedova Allegra finale. Piccola parentesi: in fondo, nonostante le arie da divertito dongiovanni, Enrico, con un semplice ballo, non tradirà Martha nemmeno da vedovo e nemmeno in sogno. Ora l’infermiera bruttina se ne va, fermandosi davanti allo specchio del corridoio per verificare se davvero è tanto poco attraente; certo lo è meno, e di molto, della sua giovane sostituta che deve occuparsi del turno di notte al letto dell’anziano malato. La bellissima bionda entra nella camera di Enrico, la macchina da presa rimane fuori dalla porta, che si chiude. 

Si comincia a sentire il Valzer della Vedova Allegra, prima debolmente ma poi sempre più forte: la macchina da presa, quasi con riserbo, arretra, poi scende al piano di sotto; dissolvenza. E’ l’ultimo viaggio di Enrico Van Cleef, quello con la bionda e il valzer. Ecco, quello che succede lo dobbiamo intuire, anche se Lubitsch ci offre tutte le possibilità, in questo caso in modo quasi didattico, in tema prettamente cinematografico, quasi a smentire la sua pretesa leggerezza e mancanza di scopi concreti. Se in questo passaggio (del resto rilevante nell’economia della storia visto che è quello in cui spira il protagonista e chiude quindi il flashback) è evidente lo stile dell’autore, lo stesso metodo è al centro del discorso su cui la vicenda gira senza mai andare a bersaglio. 

Lubitsch ricercava proprio nella complicità dello spettatore quella magia che in molti si sono chiesti da dove venisse attinta e l’idea di far lavorare l’immaginazione di chi guardava i suoi film era alla base di non mettere in scena direttamente il fulcro dell’azione. Così quello che viene contestato a Enrico, essere un dongiovanni seduttore, non è mai di fatto provato dalle immagini: nemmeno nel passaggio in cui Martha scopre uno scontrino galeotto del gioielliere. Infatti la prova che suo marito faceva regali all’amante è innanzitutto sminuita dalla differenza dei due articoli che lo scontrino riporta, quello economico per la presunta amante e quello assai costoso per l’adorata moglie e poi, su saggio consiglio di nonno Hugo, la questione non è approfondita. Insomma, Lubitsch non tenta di negare una certa leggerezza di Enrico, la stessa con cui cerca di spacciare i suoi film, ma al tempo stesso ne rivendica una sorta di innocenza (certificata, nel film, da Sua Eccellenza in persona). Una leggerezza, quella che può avere un semplice tocco, che è il modo più sereno per affrontare la vita. E, quindi, anche la morte. 











Signe Hasso


Gene Tierney








venerdì 25 dicembre 2020

LA DONNA DEL RITRATTO

701_LA DONNA DEL RITRATTO (The Woman in the Window). Stati Uniti; 1944. Regia di Fritz Lang. 

Peter Bodganovic, nella sua intervista a Fritz Lang (racchiusa nell’imprescindibile Il Cinema secondo Fritz Lang, Pratiche Editrice), a proposito de La Donna del Ritratto formula un’unica domanda: “perché decide di far sì che tutta la storia finisse per essere frutto di un sogno? Non si concludeva diversamente il romanzo?”. La risposta di Lang fa riferimento a motivi logico narrativi, in fondo si trattava di una vicenda piuttosto strana, con due personaggi sostanzialmente innocenti che venivano coinvolti in un gioco più grande di loro. Il geniale regista rammenta di una furibonda lite con Nunnally Johnson, sceneggiatore e produttore del film, che non voleva venisse stravolto quanto aveva previsto sul copione. Ma non ti puoi mettere a discutere con un autore serio e responsabile come Lang, pensando di spuntarla, se quello che proponi “non ha nessuna ragione plausibile”, per usare le parole dello stesso regista. La trama, infatti, non è indimenticabile ma Lang, che era un assoluto genio, converte questa povertà narrativa nella possibilità di farne una storia figurativa: La Donna del Ritratto è un film composto da una serie di scene, sequenze, inquadrature, di assoluta perfezione. L’escamotage del sogno che giustifichi le stramberie narrate è impiegato dall’autore con la consapevolezza che si tratti di uno strumento “talmente vecchio che non bisognerebbe usarlo più”, ma viene il sospetto che Lang vi ricorra anche per un motivo diverso da quello ufficiale, ovvero ammantare di onirica ironia tutta quanta la lugubre vicenda. 

Il metodo di lavoro dell’autore nato a Vienna sul testo è, come al solito, di grande precisione ed efficacia: la storia è una sorta di giallo in cui i pochi eventi che accadono sono spesso anticipati dalle parole dei protagonisti, in una continua concatenazione di rimandi. Il professore di criminologia Richard Wanley (un Edward G. Robinson misurato e straordinario) che apre il lungometraggio parlando, in una lezione, dell’omicidio per legittima difesa, situazione in cui si vedrà poi precipitato, è solo il primo di numerosissimi esempi. Il passaggio cruciale del film è scherzosamente previsto in un dialogo tra vecchi amici, lo stesso Wanley, il procuratore Lalor (Raymond Massey) e il dottor Barkstane (Edmund Breon): i tre si recano al club e conversano sull’eventualità che, proprio al professore, possa capitare di incontrare la ragazza che ha posato come modella per il quadro posto in una vetrina lì vicino e che darà il via a tutta la vicenda. 

La scena del quadro in vetrina, con l’apparizione di Alice Reed (una deliziosissima Joan Bennett in uno dei ruoli più significativi in carriera), riflessa sul vetro, riesce a combinare in modo assolutamente perfetto, e degno della precisione stilistica di Lang, il rigore formale del racconto con un’atmosfera onirica che raggiunge qui uno dei suoi momenti più evidenti sebbene, di fatto, non lasci mai veramente la pellicola. La messa in scena del grande maestro di origine austriaca è infatti calibrata in modo sopraffino tra un fedele realismo fotografico e la diffusa impressione di trovarsi in situazioni palesemente ricostruite, in particolar modo nelle scene in esterni cittadine. Naturalmente l’idea che il tutto possa essere un sogno è scongiurata dalla sapiente capacità narrativa di Lang che, quando afferra il racconto, non concede spazi di distrazione allo spettatore; oltretutto, l’impressione onirica più accentuata delle prime fasi del racconto è giustificata narrativamente dal fatto che al club il professore avesse alzato un po’ il gomito. Ma le dissolvenze incrociate tra le scene, le performance attoriali di Robinson, abilissimo nel suo accettare in modo incerto le proposte di Alice, con la Bennet anch’essa superlativa nello stemperare la vena piccante in un atteggiamento sornione e divertito, la città deserta, magicamente illustrata dalla fotografia in bianco e nero di Milton R. Krasner, tutto sembra davvero concorrere a raccontarci una serata da sogno. 


Del resto quando mai può capitare che una ragazza del calibro di Joan Bennet possa invitare a bere qualcosa, e poi addirittura nel suo appartamento, un uomo come Robinson? In un sogno, certo; ma che la storia trasforma presto in un incubo e che Lang è ancora una volta magistrale nel mettere in scena. Ora la vena onirica ha preso una piega sinistra e le ripetizioni narrate dei fatti, che continuano imperterrite, non sono più solo anticipatorie ma anche rivolte al passato, come nella scena del sopralluogo con il procuratore Lalor che si fa accompagnare sul luogo del ritrovamento del cadavere dal povero professore. I tasselli vanno implacabilmente al loro posto, dalla ferita sulla mano alla presenza delle ortiche, oltre a tutto il resto che sembra inchiodare Wanley alle proprie responsabilità. 

Figurativamente, questo gioco ad incastri è messo in scena in modo ossessivo da Lang, con una infinita serie di cornici, specchi, fotografie, camini, infissi, doppie porte ravvicinate: quello raccontato è un mondo chiuso dai quattro lati, dal quale non sembra possibile fuggire. Il lavoro dell’autore fu capillare, in questo senso; si tratta probabilmente di un caso ma persino la fotobusta dell’edizione italiana del film, che uscì anche in un’insolita dimensione quadrata (in luogo della più classica rettangolare), sembra rimarcare che non c’è nemmeno l’illusione, figurativamente offerta dal lato più lungo, di poter scappare. Anche gli specchi, e le immagini che vi si rimpallano, in particolare quella di Alice, diafana dark lady dal cuore fin troppo tenero (essendo la proiezione di un’anima buona come Wanley), ma anche quella di Tim (Dan Dureya), contribuiscono a creare un’impressione di impossibilità di fuga. Oltre a questo lavoro, la figura di Alice si raddoppia in quella del quadro, ma ne rimane anche imprigionata; dal canto loro anche Tim, e perfino la vittima, con le loro doppie personalità, danno un efficace contributo alla chiusura su sé stessa della storia. 


Lang disse che lo stratagemma dei personaggi del sogno, che sono gli stessi della vita reale, l’avesse già usato al tempo in cui lavorò a Il Cabinetto del Dottor Caligari (1920, Robert Wiene). Sul momento, a suo dire, non se ne ricordava, e gli sembrò, piuttosto, un modo efficace per far accettare l'altro escamotage narrativo, quello del sogno, diversamente troppo risaputo. Sia come sia, anche l’idea di attingere dalla stessa realtà narrativa la soluzione di una debolezza tecnica (l’escamotage obsoleto) contribuisce all’impressione generale di impossibilità di uscire dal circolo, dalla cornice dentro la quale si è chiusi. Del resto nel finale si ripete la scena che ha dato via all’intrigo, a certificare una struttura che ritorna sempre al punto di partenza, senza sbocchi. Insomma, il quadro di una storia che, per quanto sdrammatizzata dall’ironico finale, lascia una fortissima sensazione di mancanza di via di uscita. Tanto che, per risolverla, bisogna ricorrere ad un trucco narrativo abusato come quello onirico, verrebbe da dire. Ma, in realtà, il fatto che si tratti del frutto del sonno di un uomo, negli Stati Uniti degli anni quaranta, insinua un altro dubbio. Ovvero che quella mostrata ne La Donna del Ritratto sia semmai la vera natura del Sogno Americano. Una vana illusione che, oltretutto, può mutare rapidamente in modo sinistro, ma che non è comunque sufficiente a scardinare i confini della realtà quotidiana. Joan Bennet è quel sogno e per l’uomo qualunque rimane tale; e, nel caso, c’è da stare pure attenti a sognarla. 







Joan Bennett