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mercoledì 22 luglio 2020

IL DIABOLICO DOTTOR MABUSE

605_IL DIABOLICO DOTTOR MABUSE (Die 1000 Augen des Dr. Mabuse). Germania, Italia, Francia 1960. Regia di Fritz Lang.

Ultima opera del maestro Fritz Lang, Il diabolico Dottor Mabuse chiude anche l’ideale trilogia dedicata al malefico genio del male. A quanto è dato sapere Lang considerava ormai superata la questione con Mabuse, come del resto poteva essere intuibile dal fatto che nel ’33 ne avesse diretto il testamento (Il testamento del Dottor Mabuse, 1933). Artur Brauner, un produttore tedesco, riuscì però a convincere il regista che, alla fine, ne face una sfida personale: in fondo Mabuse poteva essere ancora attuale, anche nel 1960. In realtà questo possiamo dirlo solo dopo aver visto Il diabolico Dottor Mabuse, film che non sarà un capolavoro ma fornisce comunque l’ennesima prova della genialità del suo autore. Certo, anche negli anni sessanta, si poteva imbastire una storia dove ci fosse un folle che avesse mire di dominio sul mondo ma che ad incarnarlo potesse essere un tipo come Mabuse sembrava difficile da credersi. Le allucinanti strategie di terrore e panico erano state perfette per rappresentare la scalata di Hitler e del nazismo e i film di Mabuse del tempo erano adeguati; angoscianti thriller se non propriamente degli horror. Quelli del dopoguerra ben inoltrato erano però anni assai differenti; per uno scienziato pazzo che riflettesse questo nuovo contesto storico si può pensare alla figura del Dr. No dei romanzi di Ian Fleming, che al cinema approderà nel 1962 nel primo film della saga dell’Agente Segreto 007. 

E Lang, con la geniale intuitività di sempre, imbastisce una vicenda comunque ad alta tensione ma che presenta alcuni punti in comune con queste storie vagamente in clima di spionaggio. Avanzati sistemi elettronici di videosorveglianza, fucili ad aria compressa che sparano sottilissimi aghi d’acciaio, appartamenti d’albergo con finti specchi per osservare di nascosto le altrui manovre, personaggi che lavorano in incognito, tutti argomenti legati al clima della Guerra Fredda e che Lang introduce come collante alla sua storia. Fatta questa operazione, il Mabuse con i suoi intrighi diventa un personaggio addirittura perfetto, per la situazione del tempo. Tuttavia Lang non misconosce certo le sue vecchie opere, tanto che l’incipit del film è in pratica una sorta di remake del citato Il testamento del Dottor Mabuse. C’è un primo assassinio, con l’auto della vittima ferma al semaforo, che riprende un passaggio narrativo del film del 1933, montato in alternanza con il rifacimento dell’inizio del racconto vero e proprio dove, anche in questo caso, il commissario non vuole rispondere al telefono a quello che è abitualmente ritenuto un millantatore. E Gert Fröbe, che interpreta Kras, il funzionario di polizia in questione, con la sua somiglianza ai due interpreti del commissario Lohmann, (il tedesco Otto Wernicke e il francese Jim Gérald), conferma i rimandi che Lang si premura di segnalarci. Che non hanno poi questa grande importanza, nello specifico, se non una assai maggiore in senso generale, a cui vanno ascritti anche i molti altri riferimenti disseminati nell’opera e che rievocano altri film della carriera del regista. 


Testimonianze di una battaglia ideologica che il grande Fritz combatté, quindi fino al suo ultimo film, e che ne ha spesso limitato la considerazione presso la critica. Tanto per capirci: la benemerita collana di saggi dedicata ai registi di cinema, Il Castoro Cinema, dedicò un volume a Lang sul numero 168, oltre vent’anni dopo la sua inaugurazione: assurdo. Soprattutto pensando che è difficile trovare un regista che abbia interpretato in modo così eccellente sia il cinema muto che quello sonoro, quello europeo e quello hollywoodiano, sfornando capolavori immortali di alto prestigio ma anche opere di godibile fruizione. Che poi, quest’ultimo aspetto, ovvero la passione per il realizzare storie belle da raccontare e da guardare, tra cui svettano i suoi formidabili noir americani, è stato forse l’elemento che ha determinato il suo essere visto soltanto come un valido regista di genere. Che era la sua grande battaglia ideologica di cui si accennava: Lang aveva interpretato al meglio la cultura europea, intrisa di simbolismo e utilizzando con sapienza anche la corrente espressionista, che stilizzava ulteriormente. Ma sin da subito non disdegnò di alimentare le sue storie con una solida base narrativa, di cui i primi film di Mabuse (che risalgono al 1922) sono uno dei tanti esempi. In ogni caso i rimandi che il geniale autore nato a Vienna inserisce nel film non appesantiscono mai la visione, perché l’autore aveva un senso dell’ironia sopraffina come si intuisce già dal citato incipit de Il diabolico Dottor Mabuse, con la figura del commissario che ha un che di bonario e con la presenza di Mistelzweig (Werner Peters), personaggio ambiguo e che usa la comicità fisica come sorta di maschera. E la doppiezza propria anche degli altri personaggi, dei loro ruoli, conferisce una piega vagamente spionistica: da Corneliuss, il cieco veggente (Wolfgang Preiss), a Travers (Peter van Eyck), al citato Mistelzweig, fino a Marion, a cui Dawn Adams regala il look degno di una dark lady

Ma i tempi sono cambiati e la donna è ben poco fatale anzi, appare in subito in crisi: si vuole infatti buttare dal cornicione dall’Hotel Luxor, epicentro dell’intrigo. La scelta della Adams appare particolarmente azzeccata: pur avendo il physique du rôle è ancora abbastanza sconosciuta da sembrare credibile come femme fatale mancata. Lang tratteggia con delicatezza l’unica figura femminile del film, una figura potenzialmente paragonabile a quelle dei suoi noir americani: ma Marion è una donna disperata, al punto di tentare il suicidio, picchiata, inseguita, perfino spiata nell’intimità in una delle scene più interessanti del film. Berg, il detective del Luxor (Andrea Checchi) osservato l’interesse di Travers per Marion, propone al ricco uomo d’affari un appartamento segreto dal quale si può osservare direttamente nella toilette della ragazza. 

Qui i due, casualmente, assistono al momento in cui Marion riceve il mazzo di rose rosse che Travers le ha fatto recapitare; vedendone la reazione emotiva, l’uomo rimane turbato da questa invasione nell’intimità della donna, al contrario di Berg, convinto piuttosto di aver fatto un favore al facoltoso cliente. Questi elementi fanno parte di un quadro complessivo che rivela come l’onnipresenza di occhi che guardino e spiino, di fatto tolga fascino alla storia: nel complesso la vicenda è meno intrigante dei noir americani tanto quanto la povera Marion non regga il paragone coi personaggi interpretati da Gloria Grahame o Joan Bennet. E se il nuovo Mabuse è un falso cieco, ovvero uno che finge di non vedere mentre ci guarda, ecco che Lang, nel 1960, aveva già capito dove si sarebbe annidato il male peggiore dei giorni nostri. Altro che legge sulla privacy.


martedì 21 luglio 2020

IL TESTAMENTO DEL DOTTOR MABUSE (EDIZIONE FRANCESE)

604_IL TESTAMENTO DEL DOTTOR MABUSE (Le Testament du Dr. Mabuse). Francia 1933. Regia di Fritz Lang.

La versione francese de Il testamento del Dottor Mabuse circola ancora troppo spesso in Italia come versione ufficiale del film di Fritz Lang. In realtà l’edizione più autentica è quella tedesca: e quando si dice edizione tedesca, si intende proprio un altro film, un’altra pellicola. Per quella francese vennero infatti rifatte moltissime scene ed è una cosa, seppur forse in modo non così sostanziale, appunto diversa. Del resto non è che, vedendo Il testamento del Dottor Mabuse tradotto dall’edizione francese, assistiamo a qualcosa di completamente opposto da quanto inteso da Lang, anche perché si tratta di una regia considerata comunque sua. In genere è però una versione più breve, di una mezz’ora, e alla quale mancano quei riferimenti più espliciti alla figura al nazismo, oltre all’unica traccia sentimentale del film, ovvero la storia d’amore tra Lilli e Kent. Nonostante queste diversità si può anche osservare il piglio pignolo di Lang che ripropone, tra le molte sequenze rifatte per l’occasione con attori francesi, precisamente le stesse scene con le stesse inquadrature della prima versione. L’impiego di attori differenti comporta, ovviamente, alcune modifiche legate alle loro capacità: e questo non è un aspetto secondario perché, fatto salvo che Rudolf Klein-Rogge (nei panni del Dottor Mabuse) e Karl Meixner (Hofmeister), tutti gli altri interpreti, tra le due versioni, sono diversi. Tra i sostituti, l’unico che riesce davvero a non sfigurare nel confronto è Jim Gérald nel ruolo del commissario Lohmann. Sia chiaro, Otto Wernicke dava l’idea di essere molto più tosto, ma la versione francese del poliziotto acquista un po’ in simpatia, una figura quasi paciosa che alleggerisce il tono complessivo della vicenda ma che non vi stona. Il resto del cast, a partire da Thomy Bourdelle (il Dottor Baum), appare invece meno incisivo nel confronto dei rispettivi personaggi del Testamento tedesco. Questa edizione francese fu realizzata per volontà del produttore Seymour Nebenzal della compagnia Nero-Film: ai tempi non c’era ancora il doppiaggio o i sottotitoli e realizzare un film in francese sembrò una buona idea per promuoverlo anche nel resto del mondo. 

Lang parlava fluentemente il francese e c’è da credere che non ebbe particolari problemi con i nuovi attori e nella realizzazione del film, seppure pare non abbia avuto il controllo sul montaggio finale di Lothar Wolff. E’ curioso notare però come anche il secondo film dedicato a Mabuse finisca per essere doppio, ovvero uno dei temi dell’opera e della poetica di Lang più in generale. Certamente è una coincidenza: se nel film del 1922 la suddivisione in due capitoli poteva essere dettata da motivi artistici (seppure l’eccessiva durata alimentava certamente anche istanze commerciali in questo senso), sono certamente squisitamente produttive le motivazioni alla base dell’esistenza di due differenti testamenti. Di cui, si è detto, per cogliere appieno il valore va fatto riferimento al primo originale tedesco. Tuttavia nel complesso anche quella francese è un’opera ugualmente di alto livello, forse solo meno estrema rispetto alla versione originale. Ma in una pellicola come Il testamento del Dottor Mabuse quella differenza è quella che passa tra un capolavoro e un ottimo film.  


lunedì 20 luglio 2020

IL TESTAMENTO DEL DOTTOR MABUSE

603_IL TESTAMENTO DEL DOTTOR MABUSE (Das Testament des Dr. Mabuse). Germania, 1933. Regia di Fritz Lang.

Con M-Il Mostro di Dusseldorf nel 1931 Fritz Lang aveva bagnato il suo esordio con il sonoro con un capolavoro. Era chiaro, a Lang probabilmente più che a molti altri, che l’avvento della traccia audio nel cinema costituiva una sorta di nuovo inizio per la settima arte. E’ forse per questo che il geniale autore riprende un protagonista da un suo precedente film muto, il Dottor Mabuse, a suo tempo al centro di un lungometraggio diviso in due parti. Con la nuova tecnica del sonoro sarà infatti possibile trattare in modo diverso gli spunti che il formidabile personaggio offriva; anche perché se Il Dottor Mabuse nel 1922 aveva dato un efficace quadro dell’epoca della decadenza tedesca sotto la Repubblica Weimar, la figura del diabolico dottore aveva sorprendentemente anticipato quella di Hitler. Lang, nel ritornare su questi aspetti, opera come sempre in modo duplice: da una parte rende più esplicito il parallelo con il nazismo, mettendo direttamente in bocca ai fantasmi di Mabuse gli slogan del regime, mentre accentua la verve narrativa in quello che diventa un vero e proprio thriller con più di uno spunto da puro horror. Ma, nonostante l’incalzante racconto sia particolarmente coinvolgente sul piano della storia fantastica, la metafora sul regime nazista rimane perfettamente leggibile tanto che Goebbels, al tempo, convocò Lang per lamentarsene e comunicargli che il film era stato sequestrato, ufficialmente perché al Ministero della Propaganda non avevano gradito il finale. Ma era chiaro che i passaggi sotto esame erano altri. Come quello in cui la trance dialettica assale il dottor Baum (Oskar Beregi) mentre discute con il commissario Lohmann (Otto Wernicke), al cospetto della salma di Mabuse (sempre Rudolf Klein-Rogge), un momento davvero impressionante. 
E quando, più tardi, lo stesso Baum approccia a quello che simbolicamente si può intendere essere il testamento del Dottor Mabuse, Lang sciorina una sequenza d’alta scuola di tecnica cinematografica attaccando contemporaneamente il regime nazista in modo esplicito. Il fantasma di Mabuse si materializza davanti al dottor Baum in una visione da incubo, gli occhi enormi, le pupille sottili, il cranio scoperchiato a lasciar vedere il formidabile cervello del folle scienziato: è qui che il criminale si impossessa del professore e la scena è resa in modo chiaro e affascinante grazie all’uso di immagini in semitrasparenza sovraimpresse. Il magistrale montaggio alimenta la suspense, alternando la figura di Baum seduto alla sua scrivania con angoscianti primi piani su teschi, spaventose statue e maschere tribali, terrificanti dipinti: decine di occhi fissano l’ignaro dottore. Il tutto mentre sembra di ascoltare le parole di un comizio del Furher sebbene Lang, che come detto aveva già compreso le sfaccettate proprietà del sonoro, opti, in questo passaggio, per la voce sussurrata di Mabuse che risulta perfino più inquietante di eventuali strali alla Hitler. In questo frangente, per alimentare la tensione, è notevole l’uso del sonoro che, per altro, ha numerosi momenti di grande riuscita nell’arco del lungometraggio.
Lang, maestro del cinema muto, non ebbe alcuna difficoltà con l’approccio alla traccia audio, e ne dà ulteriore prova con l’inizio de Il testamento del Dottor Mabuse nella quale il regista parte a cannone. La prima sequenza è magistrale in ogni senso ma quasi sembra scherzare sull’utilizzo del suono, sebbene sia anche questo di notevole efficacia. Perché se il rumore ritmico e assordante delle macchine provoca una situazione in cui i due gangster e Hofmeister (Karl Meixner) si comportano come in un film muto, la traccia audio risulta particolarmente evocativa e, unita alla sagacia tecnica del montaggio, produce un incipit fantastico. E’ però evidente che Lang voglia ritardare l’ingresso dei dialoghi, visto che questi latitano anche nelle successive scene, quando Hofmeister è riuscito ad arrivare in strada; un’attesa quasi a creare una suspense metalinguistica per un aspetto tecnico del lungometraggio che lo spettatore evidentemente si aspettava arrivasse quanto prima, essendo la novità del tempo. Ulteriore conferma arriva dal fatto che il primo suono prodotto da labbra umane è il fischiettare (che sembra richiamare M, il Mostro di Dusseldorf), poi il cantare una melodia, entrambi opera del commissario Lohman (e la figura di Wenicke nel ruolo dello stesso funzionario di polizia ci conferma il rimando al film sull’assassino delle bambine).

Quindi quello che si ode fino a quel momento è sempre musica, come nelle proiezioni dei film muti, e non parole: e questa sorta di suspense metalinguistica aumenta. Ed infine, il primo dialogo del film tra il suddetto commissario e il suo assistente Muller (Klasu Pohl), verte proprio sulla musica in questione: ironicamente, le prime parole dei protagonisti del film sono infatti riferite alla Cavalcata delle Valchirie di Wagner. Ovvero alla musica citata, quasi a ribadirne il controllo del regista, ora che la traccia audio è fisicamente legata alle immagini, sottolineando l’appartenenza al cinema sonoro del film. Questa attenzione metalinguistica di Lang non è affatto gratuita, in particolar modo in un film fortemente politicizzato come Il testamento del Dottor Mabuse; il regista, pur se non lesina l’opportunità di criticare il regime, non scorda che il suo lavoro è principalmente raccontare attraverso i film e, entusiasta di avere ora uno strumento in più, la traccia audio, sembra quasi voler condividere questa sensazione con il suo pubblico. Manco a dirlo, trattandosi di un film di Fritz Lang, risulta particolarmente efficace il tema del doppio che, in questo caso, si sviluppa anche in una direzione particolarmente audace: se il racconto concretizza che il testamento spirituale del malefico Mabuse finisca per corrompere il dottor Baum, è evidente che Hitler e il nazismo ne siano i depositari nella realtà del tempo.
E, cosa curiosa ma significativa, pare che quello che ufficialmente desse particolarmente fastidio era la pazzia finale di Mabuse; Goebbels chiese piuttosto di chiudere il film con un sacrificio, quasi una sorta di martirio per mano di una folla inferocita. Tuttavia Lang preserverà l’opera nella versione intonsa, ovvero quella originale tedesca, a cui se ne affiancherà in seguito una francese, con rifacimenti di intere scene con attori diversi. La prima è un vero capolavoro: la precisione formale di Lang nel comporre le scene è estrema, il ritmo incalzante, il quadro d’insieme è illuminante e allarmante. Il film uscì nella primavera del 1933 proprio mentre Hitler assumeva il potere in Germania: il tempismo così finemente sincronizzato è probabilmente una mera coincidenza. Perchél’avvento di Mabuse/Hitler, il genio di Lang, sempre in grande anticipo sui tempi, l’aveva previsto 11 anni prima con il film del 1922.




domenica 19 luglio 2020

IL DOTTOR MABUSE PARTE 2

602_IL DOTTOR MABUSE : INFERNO / UN DRAMMA DI UOMINI DELLA NOSTRA EPOCA (Dr.Mabuse, der Spieler. Inferno - Ein spiel von Menschen Unserer Zeit). Germania, 1922. Regia di Fritz Lang.

Se la prima parte de Il Dottor Mabuse è un capolavoro per la sublime architettura che contraddistingue il racconto, con il tema del doppio che pervade tutte le tracce narrative, il secondo capitolo passa, in un certo senso, alla riscossione di quanto seminato. Da un punto di vista stilistico, le trovate figurative possono sembrare inferiori ma nelle sferzate che la trama subisce, che i personaggi devono sopportare, Fritz Lang mostra la sua parte più intima, più viscerale. Il geniale autore non era, infatti, un fine esteta, un raffinato stilista che componeva con precisione le sue trame: Lang aveva un ferreo rigore formale, questo è indiscutibile, ma le sue storie avevano una sotterranea componente viscerale che prima o poi veniva sempre allo scoperto. In questo senso è da intendere anche il rapporto con l’espressionismo, quella corrente cinematografica prevalentemente tedesca che si contraddistinse al tempo per l’uso contrastato di luci e ombre. Uno stile che pervade anche Il Dottor Mabuse nel suo complesso ma che Fritz Lang, anticipando i temi del noir americano degli anni 40 (di cui fu un artefice massimo), piegava già senza alcun risparmio alle sue necessità narrative. In questa seconda parte del film dedicato al malefico dottore è evidente: la trama incalza, i nodi narrativi devono arrivare al pettine, e simbolismi e formalismi ci sono ma non devono ostacolare, anzi devono aiutare, lo scorrere degli avvenimenti che devono arrivare al dunque. Ne è un esempio esplicito la psichedelica scritta in sovraimpressione Melior, una sorta di maligna cometa che guida von Wenck (Bernhard Goetzke) verso il precipizio nella cava di Melior, appunto. 

Il Procuratore di Stato è infatti, in questo secondo episodio, vinto dalla forza ipnotica di Mabuse: nonostante il funzionario di polizia fosse alquanto guardingo, alla fine ha infatti ceduto al rivale, nell’occasione nelle vesti del dottor Weltmann. E’ una battaglia dura, che proverà fisicamente anche Mabuse, lo vediamo il giorno dopo prostrato sul divano a riposarsi, mentre von Welk viene salvato per un pelo dai suoi uomini prima del fatale volo con l’auto nel burrone, perché ormai si era definitivamente dato per vinto. Gli scontri psicologici a cui sono sottoposti i personaggi di questa seconda parte de Il Dottor Mabuse sono tremendi: Cara Carrozza (Aud Egede Nissen) e il conte Told (Alfred Abel) sono indotti al suicidio e anche Georg, uno degli scagnozzi di Mabuse, si impicca. 

La morte autoinflitta arriva quando il soggetto non ha più alcuna via di scampo, chiuso in prigione o nella propria abitazione, nel caso della Carozza con il lacerante dubbio che l’amato dottore abbia trovato nella contessa una nuova fiamma. Contessa Told (Gertrude Welcker) che è forse la vera eroina della storia, l’unica a resistere alle pesanti e insistenti pressioni psicologiche a cui Mabuse la sottopone; la donna, pur se provata, riuscirà a non cedere e perfino a dileguarsi nel concitato finale. Quel finale che vedrà anche Mabuse folle, stravolto, ma anche sfinito, quasi svuotato, come se la storia raccontata fosse stata un’esperienza superiore perfino ad un supercriminale come lui. Era quindi questa, la Germania degli anni 20, un inferno e viverci era un vero dramma per gli uomini dell’epoca, per usare i sottotitoli di questo seconda parte de Il Dottor Mabuse


La cura documentaristica di Lang, che riusciva con ineguagliabile maestria a coniugarla alle istanze stilistiche espressioniste, riesce ad emergere anche in una storia tutto sommato con risvolti fantastici come questa. Mabuse ha dei poteri ipnotici sovrannaturali ma, se questi sono senz’altro frutto di fantasia e servono a descriverlo come un superuomo della tradizione germanica votato al Male, al tempo erano in voga e divennero presto una concreta base per alimentare il fascino che Hitler esercitò sul popolo tedesco. L’occultismo e il più concreto gioco d’azzardo, le speculazioni economiche e l’attività dei falsari di banconote, la criminalità più rozza e i locali equivoci frequentati dalla bella gente, il mondo descritto da Lang è la moderna versione dell’inferno dantesco, e su tutto quanto si staglia la figura del Male assoluto, incarnata dal dottor Mabuse. 

La scena in cui si traveste per incitare la folla a fermare la vettura della polizia che sta trasportando Pesch, appena catturato, è un altro passaggio strettamente legato alle esigenze narrative, che rivela però, metaforicamente, il dramma che si preparava a vivere la Germania. La gente viveva in una condizione di tale frustrazione che bastava un ciarlatano qualunque per aizzarla perfino contro le forze dell’ordine: nello specifico narrativo Mabuse se ne serve per far fermare l’auto e costringere i poliziotti a mostrare ai facinorosi che quello catturato non è il paladino del popolo ingiustamente incarcerato. E’ semplicemente Pesch, uno scagnozzo al soldo del criminale più ricercato di Germania ma il mostrarlo alla folla permetterà agli uomini di Mabuse di eliminare un pericoloso testimone con un semplice colpo di arma da fuoco. Al di là dell’efficiente imbastitura della trama, rimane il concetto che la situazione generale fosse davvero esplosiva e la capacità di usare gli aspetti storici o documentaristici per orchestrare le proprie strutture narrative era prerogativa sublime già del Lang del suo primo periodo tedesco. Lang non fu mai un autore astratto, neppure nel suo periodo dove le influenze espressioniste o la tradizione simbolistica europea potrebbero sembrare più evidenti: basta guardare la passione con cui Mabuse cerca di convincere la contessa a seguirlo, per rendersene conto. Il rigore morale, che è la cifra stilistica più importante del cinema di Fritz Lang, fu esaltato proprio dallo scontro con le ardenti passioni che vivevano nei suoi personaggi. Persino in Mabuse, il Male assoluto fatto persona.   



      


sabato 18 luglio 2020

IL DOTTOR MABUSE PARTE 1

601_IL DOTTOR MABUSE : IL GRANDE GIOCATORE / UN QUADRO DELL'EPOCA (Dr.Mabuse, der Spieler. Der Grosse Spieler. Ein Bild der Zeilt). Germania, 1922. Regia di Fritz Lang.

Pur se, dopo aver visto la prima parte de Il Dottor Mabuse, si può essere sorpresi dalla genialità non solo cinematografica del grandissimo Fritz Lang, è a questo versante che dobbiamo il primo tributo d’onore. Perché Lang era certamente un autentico genio, una mente davvero superiore per acume, rigore morale, inventiva, ma era anche un uomo pratico, concreto: e, in quanto cineasta, le sue sopraffine qualità andavano quindi a sommarsi ad una solida base tecnica prettamente legata alla settima arte. Il dottor Mabuse è un film muto del 1922: eppure, a guardarlo oggi, sorprende per la facile fruibilità, per il senso del ritmo che non lascia mai scadere la narrazione. Lang è un narratore eccezionale che utilizza i mezzi del cinema con cognizione di causa e con grande rispetto per lo spettatore. Ne è un esempio concreto la scena in cui Cara Carozza (Aud Egede Niessen), la ballerina, irrompe per la seconda volta in casa di Hull (Paul Richter), l’uomo che sta circuendo per conto del diabolico dottor Mabuse. La ragazza, nell’entrare in casa, semina una serie di accessori, il fazzoletto, un guanto, qualcos’altro, poi si siede e invita l’amante ad una serata in un nuovo locale, il Petite Casino. Sembra di fretta e veloce si accommiata dall’uomo ma, mentre sta uscendo, perde quello che sembra un manicotto, uno di quei voluminosi indumenti da braccio dell’epoca e, fatto strano, sembra non accorgersene nonostante sia qualcosa di ingombrante. Ma, per la verità, sembra in preda ad una notevole eccitazione, forse per il brivido della serata mondana che le si prospetta. In ogni caso Hull raccoglie il fagotto e lo porge alla ragazza che lo bacia e lo ringrazia nel salutarlo, perdendo di nuovo l’accessorio in questione. 

Hull lo riconsegna di nuovo alla donna e, una volta chiusa la porta, ne pare divertito: eppure Cara, pur essendo un’artista, non si era mai dimostrata così distratta. E questo lo possiamo ben dire noi spettatori visto che una scena simile, Cara Carrozza che si reca da Hull, c’era già stata ad inizio film, senza nessuna semina distratta da parte della donna. Ma è ancora presto per farsi venire dubbi, sebbene questi arrivino subito dopo quando Hull, sul suo divano, trova un biglietto, evidentemente perso dalla disattenta donna. Nel biglietto si intuisce che la visita serale al Petite Casino è una trappola che Cara deve mettere in pratica ai danni di Hull. Per l’uomo è un colpo tremendo, visto l’ardore con cui viveva la passione per la ballerina. Ma lo spettatore può conservare lucidità e porsi qualche dubbio: può Cara diventare improvvisamente distratta? E può farlo proprio nel momento cruciale? E cosa servono disposizioni scritte se il dottor Mabuse l’ha istruita verbalmente? 

Forse è una doppia trappola, cioè un’apparente trappola per Hull che ne nasconde una per il procuratore di stato von Welk. Che infatti Hull avverte istantaneamente. Il tema del doppio è, come sempre in Lang, preponderante. Ma, prima di affrontarlo, occorre rimarcare come questo passaggio narrativo di estrema raffinatezza, con Cara che finge di essere occasionalmente distratta, quel giorno, in modo da poter perdere in modo credibile il messaggio fatale senza insospettire Hull, è lasciato sullo sfondo, quasi sommerso nella trama da cui emergono solo i tratti essenziali. Questo è uno dei segreti della capacità tecnica narrativa di Lang: le armoniche secondarie di storie molto strutturate, con passaggi imbastiti con cura, sono poi lasciate in secondo o terzo piano mentre lo spettatore, in modo naturale, segue lo svolgere del canovaccio principale. In questo modo la vicenda non perde ritmo ma non incappa mai in fastidiose incongruenze che distraggono e infastidiscono lo spettatore nel caso se ne accorga: in Lang, al contrario, si può avvertire una sorta di gratificazione quando si afferra un raffinato passaggio del racconto non troppo ostentato. Per far questo è naturale che occorrano personaggi ambigui, che abbiano una capacità di ingannare, di rendere credibile qualcosa ma che questa artificiosità sia, oltre ad una certa soglia di attenzione dello spettatore, decifrabile, intuibile per quello che è, una finzione nella finzione: guardate come Cara lascia cadere con artefatta nonchalance il fazzoletto nella citata scena per farvene un’idea. Del resto il personaggio di Cara Carrozza, (nome originale nell’opera anche in tedesco e che ha il suffisso car che si ripete, quasi a sottolinearne la doppiezza), è un’artista, quindi abituata alla finzione, a raddoppiare cioè il proprio ruolo tra realtà e spettacolo. 


E, come si diceva, il tema del doppio, in Lang è fondamentale, e lo è ancor più in un’opera che ci costringe a guardare alla suprema metà oscura dell’animo umano: figura incarnata nel dottor Mabuse, il supercriminale che si antepone al superuomo della cultura europea. Il lavoro del geniale autore nato a Vienna è capillare, in questo senso. Innanzitutto sin dal titolo: Mabuse ha due attività che ce lo descrivono, è un dottore e un giocatore. Poi l’opera ha un sottotitolo, che in pratica lo raddoppia; anzi, in realtà i sottotitoli sono due, raddoppiati a loro volta, Il grande giocatore e Un quadro dell’epoca, che dettano una doppia traccia, una che segue il protagonista e un’altra più d’ambientazione. Il protagonista è Mabuse, che però è un personaggio negativo, mentre a reggere le sorti dei buoni c’è von Welk (Bernhard Goetzke). 

La figura del procuratore di stato è, fisicamente, raddoppiata da Hull; sono i due personaggi maschili positivi della storia in cui si riflettono, tramite i rispettivi flirt, le figure femminili di Cara Carrozza e della contessa Dusy Told (Gertrude Welcker). Le quali hanno tutte e due una doppia relazione sentimentale: Cara è innamorata di Mabuse e Dusy, che se la intende con von Welk, è sposata col conte Told (Alfred Abel). In questo gioco di raddoppi l’unica figura che sembra estraniarsi è Mabuse, sebbene von Welk nel passaggio cruciale riesca ad elevarsi a suo degno avversario, e quindi speculare, momento che si concretizza nella scena in cui resiste al potere ipnotico del diabolico dottore. In quella circostanza Mabuse fa uso di occhiali cinesi, un oggetto duplice di suo e che raddoppia lo sguardo, a testimonianza di un lavoro sul tema in cui è immersa un’opera che non si limita ad accoppiare i personaggi in svariate e mutevoli combinazioni. Il lavoro di Lang è anche figurativo con una capacità compositiva delle immagini notevole a dimostrazione della peculiarità propria dell’autore nel saper perfettamente piazzare la macchina da presa per ottenere la migliore inquadratura possibile. Ma la genialità del regista si manifesta anche in alcune trovate, come ad esempio il Petite Casino stesso, che è un club dall’aspetto inconsueto e originale. 


Oltre a rimarcare, ça va sans dire, il gioco dei doppi: il locale può rapidamente passare, in caso di irruzione della polizia, da elegante e bizzarra bisca a night club, con tanto di ballerina a seno scoperto che si piazza al centro della scena. Divertente la doppia traccia, drammatica per l’attesa che scatti la trappola tesa ai danni di Hull, a cui si sovrappone quella ironica con Cara che si lamenta (o finge per essere credibile?) per l’entusiasmo dell’uomo nel vedere la ragazza discinta in mezzo al palco. Lo stacco successivo crea un altro evidente raddoppio: dal palco circolare del Petite Casino si passa alla seduta spiritica in cerchio dove troviamo la contessa Told e in seguito anche il dottor Mabuse. La didascalia ci informa che si tratta di un altro mondo, effettivamente con la seduta si cercherà di mettersi in contatto nell’aldilà, ma è anche un modo per sottolineare il tema del doppio che, come detto, permea tutto il racconto filmico. 

Questo aspetto non è certo gratuito, niente lo è nel cinema di Fritz Lang, ma permette all’eccezionale regista di poter incentrale il suo film sulla figura del malvagio. Cosa che, negli anni venti del XX secolo, non era poi così scontata. Nel momento in cui il tema centrale è infatti quello della doppia anima delle cose, Lang può erigere a protagonista un cattivo senza perdere per questo il senso morale ed etico del suo lavoro. Se c’è il male, visto la duplice natura delle cose, deve esserci anche il bene e, in effetti, nonostante le difficoltà, von Welk riesce a resistere al tentativo di Mabuse di soggiogarlo con lo sguardo ipnotico. Fondamentale notare come Mabuse, che nel film è sempre mostrato ammantato di grande fascino, nella scena in cui non riesce ad avere la meglio sul procuratore di stato, batta in male parata in modo poco lusinghiero. 

E’ la misera statura morale del male, sembra dirci Lang, che si alimenta coi propri successi ma non ha la tempra per resistere alla sconfitta, rivelando così, a sua volta, una natura duplice. Ma la sorpresa maggiore, di un film che ne reca in serbo così tante, è forse in avvio e riguarda la traccia ambientale a cui si riferisce il secondo sottotitolo, Un quadro dell’epoca. Le immagini mostrano, in un serrato montaggio alternato su differenti scene, una complicata rapina di una cartella ma lo scopo non è tanto impossessarsi dei documenti ivi contenuti. Mabuse architetta tutto ciò per poter fare una speculazione finanziaria in Borsa: in pratica Lang assimila una rapina (condita da un omicidio) all’attività principe del capitalismo, con una lungimiranza notevole, se consideriamo che nel 1922 mancano ancora 7 anni al fatidico 1929, quando il sistema economico mostrerà il suo lato più vulnerabile. Non ha caso questa è la prima scena e non ha caso Mabuse non si sporca le mani ma resta dietro le fila ad orchestrare l’evento, proprio come un abile finanziere. E’ il biglietto da visita del Male assoluto: nei decenni a venire, in effetti, poche cose faranno danni come il capitalismo finanziario.       


Aud Egede Niessen

 
  

Gertrude Wecker


giovedì 16 luglio 2020

SCANNERS

600_SCANNERS ; Canada, 1981. Regia di David Cronenberg.

All’alba degli anni ottanta, visto il positivo riscontro di Brood (1979), la Filmplan è ansiosa di rimettere il regista David Cronenberg al lavoro, cogliendo ancora la contingente possibilità offerta dai Tax-Shelter. In Canada, infatti, c’era ancora l’opportunità di detrarre parte degli oneri dovuti al fisco investendo nell’industria cinematografica: non poteva trattarsi, quindi, di operazioni finanziarie pianificate per tempo, ma occorreva sfruttare l’occasione buona. A Cronenberg vennero date due settimane di tempo per organizzare il suo nuovo film: senza alcuna sceneggiatura pronta. L’idea dei produttori era forse che, andando a scegliere un progetto che girava ormai da tempo, The Sensitives, che oltretutto era una sorta di remake di Stereo, l’opera prima del regista canadese, la fase di pre-produzione potesse essere in qualche modo sveltita. In realtà questo modo di lavorare, questo lasciare il campo all’improvvisazione, era del tutto estraneo ad un autore come Cronenberg, che si era al contrario dimostrato assai calcolato e ponderato nelle sue scelte registiche, anche quelle meno comprensibili dei primi film sperimentali. Lo stesso autore confessò un certo disagio nel non avere pronto il set per poter girare o nel non poter dare rassicurazioni alla protagonista, Jennifer O’Neil (è Kim, una degli scanner del film), che non voleva recitare in scene scabrose, visto lo stato d’improvvisazione della produzione. Tuttavia, come sempre, quando un artista ha la mano calda, è in grado di convertire a proprio favore anche le difficoltà ambientali o contingenti e così sarà anche per Scanners, ulteriore passo in avanti nella carriera autoriale di Cronenberg. 


Brood aveva sancito in modo esemplare la capacità del regista di gestire un film commerciale, peraltro piegandolo perfettamente ai propri stilemi; con Scanners questa abilità nel confezionare un prodotto fruibile al grande pubblico verrà ulteriormente affinata. Scanners è un film che si presenta, sin dalla sua più celebre scena, quella con il soggetto dotati di poteri telepatici a cui esplode improvvisamente la testa, come un film horror fantascientifico basato sugli eccellenti effetti speciali. Ed è vero, l’opera è godibile come un prodotto d’evasione ben costruito e assemblato, sebbene poi non lasci, e questa è la grandezza del regista, affatto tranquillo lo spettatore come era invece prassi del genere. Per la verità, con gli anni settanta si era imposta, nel cinema dell’orrore, la moda del finale aperto, dove il mostro, il male, una volta sconfitto, lasciava intendere di non essere affatto totalmente fuori gioco. Questo, se aveva comunque un senso autoriale, nell’angoscia che correva sottilmente in quegli anni, permetteva ai produttori di mettere già in cantiere un eventuale sequel nel caso gli incassi fossero buoni; cosa che verrà presto d’abitudine nel genere a quei tempi. 


Il cinema dell’orrore aveva sin dal principio avuto una funzione sociale catartica e quindi, passato lo spavento, lo spettatore poteva dormire sereno. I film dei settanta provavano quindi a mettergli un po’ di agitazione ma, una volta preso coscienza della consuetudine dei contro-finali, il loro effetto poteva infatti venire diluito quando non ridotto a mero cliché. Se era quindi la norma dell’epoca avere un finale sibillino, Cronenberg si smarca anche da questa prassi (probabilmente senza neppure prendere in considerazione la cosa, sia chiaro) visto che il finale di Scanners lascia un’inquietudine assai più profondamente indefinita e spiazzante. 

In ogni caso, allo spettatore abituale dei film horror, viene offerto con Scanners un’opera che non offre la solita prevedibile soluzione ed è quindi anche da qui che si può incominciare a capire il motivo per cui il canadese diverrà un regista di culto a suo modo popolare, mantenendo una cifra assolutamente personale e di altissimo profilo artistico. Ma per cominciare a dirigere Scanners, Cronenberg dovette improvvisare e gli effetti di questo si possono scorgere in una semplicità strutturale del narrato che, da un certo punto di vista, rende il film quasi più funzionale. Volendo vedere, ci sono dei passaggi che, per essere un film di genere, non sono forse vere e proprie incongruenze ma non hanno poi la classica spiegazione che li risolve; si prenda, ad esempio, quando Keller (Lawrence Dane) dice a Kim che gli altri scanners gli hanno rivelato che la ragazza non è una di loro. L’uomo scoprirà in seguito a sue spese come la cosa sia falsa e, da un punto di vista narrativo, in prima istanza la cosa è funzionale perché allo spettatore può perlomeno sorgere un dubbio; ma poi, quando Kim piega col pensiero il braccio di Keller, viene spontaneo chiedersi che cavolo vadano a raccontare in giro gli altri scanners. Nell’economia del film è un dettaglio insignificante, è ovvio, ma rivela come Croneneberg dica il vero, (nel libro intervista di Chris Rodley Il cinema secondo Cronenberg, Nuova Pratiche Editrice, 1994) quando lamenta la mancanza di tempo avuta per lavorare alla sceneggiatura del film. 


Di contro, come detto, il film risulta quasi più spontaneo, più agile, rispetto ad altri testi del canadese, che ormai padroneggia talmente bene la regia da imbastire comunque, anche in queste condizioni di improvvisazione, una confezione formale notevole. L’impostazione scenografica è eccellente, con un utilizzo degli ambienti che si era già visto nei primi lavori dell’autore: gli spazi chiusi sono raffigurati come una sorta di organismo vivente, i corridoi, le scalinate, gli atri, sembra di girare all’interno di un’immensa creatura, nello stesso modo in cui la macchina da presa si aggirava per l’Arca di Noè, il complesso residenziale al centro de Il demone sotto la pelle

Ma stavolta l’attenzione di Cronenberg è posta altrove; e l’obiettivo del suo esplorare ce lo mostra, assai efficacemente, l’immagine simbolo di Scanners, con la famosa testa che esplode. L’operazione del regista nato a Toronto è sempre di natura metalinguistica, come le precedenti: il dottor Ruth (Patrick McGoohan) mostra a Cameron (Sthepen Lack), il protagonista del racconto, un filmato, mentre altre volte osserviamo Keller spiare con l’utilizzo di qualche telecamera nascosta. Il cinema, il virus cronenberghiano, è sempre al centro della scena e con il suo dipanarsi si insinua per i corridoi delle aziende chimiche o farmaceutiche presenti nella storia. 

In questa occasione, in realtà, non si pone come obiettivo il corpo, di un edificio come di un uomo, ma di questi vorrebbe sondare la mente; e, infatti, protagonisti della storia sono individui dalle facoltà telepatiche. E’ però una penetrazione più ardua: la scena con Cameron legato sul letto di fronte ad una platea di volontari, di cui riesce a percepire ma non a gestire l’enorme flusso di pensieri, sembra voglia mostrare questo tipo di difficoltà. Il regista si affida alle dissolvenze incrociate, alle immagini che sfumano, per illustrare l’altro aspetto che caratterizza il pensiero, la mente umana: impenetrabile, ma al tempo stesso sfuggente, immateriale. Nonostante questa ammissione di trovarsi alle prese con qualcosa di differente e meno sondabile rispetto al corpo, almeno per gli strumenti del suo operare, quelli cinematografici, Cronenberg sembra però convinto, almeno secondo una certa chiave di interpretazione, della similitudine, della stretta attinenza, della connessione saldata, tra mente e corpo. Un corpo si può penetrare per poter accedere al suo interno e questa è una delle motivazioni alla base del suo interesse per il sesso; in questo film, che prova ad analizzare la mente, ci sono comunque un sacco di penetrazioni


Alcune virtuali, quelle telepatiche degli scanners, altre metaforiche come le iniezioni di Ephemerol, ma la più interessante è quella che riguarda Revok (Michael Ironside), il cattivo del film. L’uomo, lo scanner più potente del lotto, si è aperto un buco sulla fronte, proprio tra gli occhi: un folle tentativo di alleviare la pressione che il potere telepatico gli procurava nella testa. Una penetrazione per mettere in contatto l’interno del cranio con l’esterno, quindi, in un certo senso, un tentativo di portare alla luce la psiche. E l’idea di Revok di coprire la cicatrice con un occhio si collega all’atto di guardare, in questo caso guardare dentro le cose, come fa il cinema cronenberghiano quando diventa strumento di analisi. 

L’occhio è qualcosa che penetra così come il cinema è qualcosa che penetra: i corpi possono essere penetrati così come le menti, possono esserlo. La penetrazione è collegata alla procreazione, così come i poteri telepatici degli scanners sono conseguenza delle iniezioni di Ephemerol, e così come il cinema di Cronenberg viene creato dallo sguardo penetrante del regista. Tutto questo insistere su questo tema, nel film evidenziato anche dalle porte che si aprono e chiudono e con i personaggi che entrano negli ambienti delle scenografie, si trova in una  storia che si distingue per la sua completa mancanza di ogni riferimento sessuale esplicito. Per tagliare la testa al toro, e forse per tranquillizzare la sua attrice protagonista, il regista evita infatti di inserire nella sceneggiatura ogni aspetto non solo sessuale ma anche sentimentale, tanto che fa specie vedere due personaggi giovani e attraenti come Jennifer O’Neil e Stephen Lack ignorarsi completamente da quel punto di vista. 


Cronenberg, piuttosto, forse proprio non avendo una storia studiata e calcolata, ma dovendo sbrigarsi a trovare le idee per girare ogni giorno senza sprecare tempo, dà libero sfogo alla sua affascinante e malata fantasia. Lo studio di Pierce (Robert Silverman), lo scanner che trasforma in arte il suo disagio extrasensoriale, è un saggio dell’inventiva e della genialità del cineasta canadese. Scenograficamente è un passaggio di grandissimo fascino visivo, ma ha anche un suo efficace significato simbolico, con la testa enorme in cui Pierce penetra e abita al suo interno. L’artista è quindi colui il quale riesce a rendere concreta, al punto da poterci entrare, la mente umana; dare una forma, non solo tangibile ma addirittura penetrabile, al pensiero. 

Questo, in Cronenberg, non è il raggiungimento dello scopo ultimo della sua arte, ma il suo principio. Scanners, come detto, è infatti una sorta di remake di Stereo, suo esordio nei lungometraggi, e rappresenta quindi una specie di re-boot dell’autore canadese. Nella sua riflessione sulla natura umana, Cronenberg si muove sempre lungo le coordinate cartesiane psiche/corpo e, naturalmente, questo suo nuovo primo passo nel tentativo di conoscere sé stessi prende in esame la mente, laddove risiede appunto la coscienza di sé. Il regista riconosce la difficoltà dello strumento cinema, sebbene si tratti di uno strumento potente, in questo ambito. 

Il cinema è l’arte che meglio permette la visione, una visione di immagini in movimento e accompagnate dal suono, quasi una ricostruzione attendibile della realtà. Ma è  davvero possibile vedere quello che abbiamo nella testa? Il buco sulla fronte di Revok non sembra una soluzione, anche perché il problema della mente umana non è quello di nascondersi ma di faticare ad essere contenuta. Non serve, quindi, una perlustrazione materiale, che passi attraverso un foro, un pertugio, un modo di indagine che Cronenberg ha già efficacemente messo in scena nei suoi precedenti film. Il finale di Scanners sembra dirci che il problema non è nello strumento, nel cinema. E’ la mente umana ad essere insondabile. 

Quelli che si scoprono essere due fratelli, Cameron e Revok, sorta di due metà oscure (una meno oscura e l’altra decisamente di più; o no?) in conclusione si uniscono, si fondono, in un solo individuo. La scena della lotta decisiva tra i due è un altro passaggio topico del film, con Cameron che brucia in un fuoco che ne esalta la deriva messianica (la ricerca della verità, la castità nei confronti di Kim oltre al sacrificio finale) mentre a Revok le pupille diventano bianche, anticipando il vero significato del film. La conclusione dello scontro è la sintesi dei due personaggi in un unico individuo dall’aspetto di Revok ma che ha una voce ambigua, più simile a quella di Cameron. 

Il dettaglio principale è però lo sguardo del nuovo soggetto: dalla fronte dell’uomo è scomparso il terzo occhio mentre le normali pupille sono quelle chiare di Cameron, ma sembrano essere rimaste cieche come era diventato Revok nei momenti finali del combattimento telepatico. Da un intenso primissimo piano sugli occhi l’immagine dissolve infatti in un bianco accecante, prima di passare ai titoli di coda che scorrono come dati sullo schermo di un computer. Anche il cinema alza bandiera bianca, sembra dirci Cronenberg, di fronte all’insondabilità della mente umana. Quanto all’informatica, la mente meccanica, che si prende la briga si congedarci, aveva già subito una pesante lezione nella scena in cui Cameron fa saltare con i suoi poteri telepatici l’intero Centro Operativo. Un altro elemento che si aggiunge alla celeberrima e citata scena del film, per dirci che la mente umana ha davvero una potenza esplosiva. Come il cinema di David Cronenberg.    





 





Jennifer O’Neil