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domenica 21 aprile 2019

ROMA VIOLENTA

336_ROMA VIOLENTA .Italia, 1975. Regia di Franco Martinelli (Marino Girolami)

Primo episodio della cosiddetta ‘trilogia del commissario’, Roma violenta è un poliziottesco diretto da Marino Girolami sotto lo pseudonimo di Franco Martinelli. Il commissario in questione è Betti, interpretato con una certa efficienza da Maurizio Merli: si tratta del classico sbirro del cinema poliziesco all’italiana, che va per le spicce con metodi spesso brutali. In effetti la sua figura, emblematica del filone cinematografico, è sempre stata etichettata come fascista; il che, da un certo punto di vista, è difficilmente contestabile. Il pestaggio nell’autobus, a danno di un presunto rapinatore omicida, è inaccettabile perché il commissario non può ancora essere certo della colpevolezza del criminale (peraltro vera). Se si prende l’opera come realistica, questi passaggi possono sicuramente infastidire quando nemmeno essere tollerabili, a seconda della sensibilità di chi vede la pellicola. Bisogna però mettere sul tavolo tutti gli elementi, prima di trarre le conclusioni: e va detto che nel finale, Biondi, (l’infiltrato ben interpretato da Ray Lovelock), che è finito sulla sedia rotelle per colpa di alcuni rapinatori e quindi sarebbe, in un certo senso, legittimato a nutrire sentimenti di vendetta, sconsiglia Betti di proseguire coi suoi metodi da giustizia privata. E’ evidente che queste parole, anche per via della condizione di Biondi (come detto, in precedenza già reso disabile dai criminali, in quel momento ulteriormente pestato a sangue), assumano perciò un significato pesante, importante, che può essere inteso come il messaggio definitivo dell’opera di Girolami. 
Quanto alla violenza diffusa nella storia, eccessiva, d’accordo, ma può essere fatto un parallelo con il far west o l’epoca dei gangster: gli anni di piombo si meritarono il nome (per altro divenuto d’uso corrente solo dal 1981, grazie all’omonimo film di Margarethe von Trotta) in modo più che giustificato, e l’enfatizzazione della violenza nei poliziotteschi può essere analoga a quanto già fatto dal cinema coi precedenti turbolenti periodi citati. Forse, le critiche mosse dal poliziesco all’italiana al sistema, al suo garantismo ad oltranza, non erano del tutto campate in aria; e in questo film Girolami si ferma allo scoglio burocratico di un’interpretazione forse eccessivamente ligia al codice da parte dei magistrati, senza addentrarsi in altri aspetti. 

Perché quando si vede comparire Richard Conte (nei panni dell’avvocato Sartori) al comando di un’associazione privata per la sicurezza, si pensa subito a Milano trema: la polizia vuole giustizia (1973, regia di Sergio Martino) e alle organizzazioni eversive: ma questo tasto è lasciato perdere da Girolami, che si concentra solo sulla legittimità dell’uso della violenza per combattere altra violenza. Naturalmente come di prassi gli inseguimenti mozzafiato, il più rilevante qui è tra una splendida Alfa Romeo Giulia Super 1600 e una BMW 2000, mentre, sempre rispettando gli stilemi abituali, piuttosto povero il comparto femminile del cast. Insomma, un film che fila come un inseguimento, con i suoi eccessi a fare il paio con quale lungaggine di troppo, ma tutto sommato l’adrenalina richiesta dallo spettatore abituale di queste pellicole è garantita. Per gli approfondimenti, rivolgersi altrove; ma le coordinate di base dell’opera, hanno una loro attendibilità e meritano rispetto.   




venerdì 19 aprile 2019

COLLEGE COACH

335_COLLEGE COACH Stati Uniti, 1933. Regia di William A. Wellman.

William A. Wellman è un regista dalla formidabile capacità creativa, capace di inventarsi film in ogni contesto e da ogni pretesto. Stavolta ambienta la sua storia nel mondo del football universitario americano, dando l’ennesima prova di estrema capacità realistica e di notevole onestà intellettuale. A prima vista si potrebbe pensare che il regista americano trovi sempre il modo di infilare nei suoi film gli argomenti legati al mondo dei gangster, ma non è certo un vezzo di comodo dell’autore se negli anni ’30 certe attitudini erano molto diffuse. Anche perché, se è vero che a posteriori un coach con cappello, impermeabile e sigaro sembri un po’ fuori luogo, lo stesso non si può dire per i trucchi escogitati dai college per poter schierare nelle squadre studentesche giocatori professionisti, o di  certe libertà nella gestione dei bilanci degli stessi istituti da parte dei propri dirigenti. Insomma, il solito Wellman che mette in scena tutto con grande perizia tecnica, tiene un ritmo godibilissimo, e in questo caso sfrutta, senza fallire il compito per niente scontato, la competizione sportiva per alimentare l’attesa del finale. Ma forse la capacità migliore del grande cineasta nato a Brookline è sempre quella di mostrare la corruzione nel sistema americano senza scadere nel qualunquismo ma anzi, approfittando della presenza del marcio, per esaltare poi la controparte sana della società. Che dire, che è un uomo di qualità lo dice anche il nome.





Ann Dvorak








mercoledì 17 aprile 2019

AGENZIA RICCARDO FINZI... PRATICAMENTE DETECTIVE

334_AGENZIA RICCARDO FINZI... PRATICAMENTE DETECTIVE .Italia, 1979. Regia di Bruno Corbucci.

Esempio atipico per il cinema italiano, Agenzia Riccardo Finzi… praticamente detective è un film buono che avrebbe potuto anche essere ottimo, se non fosse per qualche sciatteria di troppo, imputabile probabilmente a Bruno Corbucci, regista di mestiere ma troppo andante. Perché alla base del film c’è l’interessante romanzo Agenzia Investigativa Riccardo Finzi di Luciano Secchi, che altri non è che lo sceneggiatore di fumetti Max Bunker (Alan Ford, Kriminal, Satanik); e, per una volta, pare che lo stesso Secchi sia stato coinvolto nel trattamento della sceneggiatura, opera di Corbucci e Mario Amendola. In questo modo si è evitato di stravolgere troppo il soggetto all’origine, il che non è di per se un male, ma spesso queste operazioni sono talmente superficiali che finiscono per perdere di vista quei motivi che rendevano il testo d’ispirazione interessante. Non è questo il caso, perché Agenzia Riccardo Finzi… praticamente detective interessante lo è comunque per come prova ad imbastire, in una Milano di fine anni settanta, una trama gialla con tutti i crismi, pur se con un tenore tipicamente da commedia. Luciano Secchi, con lo pseudonimo di Max Bunker, aveva già indovinato qualcosa di simile con il suo Alan Ford, dove lo scalcinato Gruppo T.N.T. era una sorta di agenzia di spionaggio le cui storie erano raccontate in un tono sarcastico ed umoristico. Nel film avviene un’operazione tutto sommato simile, in cui Milano in luogo di New York, giustifica una linea narrativa in tono ancora minore, con la pur intrigante trama gialla alla Ellery Queen (citato da un poster in camera di Riccardo) al posto delle spesso mirabolanti imprese di Alan Ford e company. 

La vena nonsense di Secchi è però perfettamente ambientata nel capoluogo meneghino e, nel film, si avvale di un autentico asso nella manica: Renato Pozzetto nei panni del protagonista. Il Riccardo Finzi cinematografico si plasma così sulle caratteristiche del comico lombardo, che non si snatura praticamente neanche un po’, recitando in sostanza nell’unico modo che conosce. Ma la cosa è comunque funzionale, e fin qui il film va alla grande; bene anche parte del cast, perlomeno Enzo Cannavale nei panni di Ciammarica, che sembra un vero personaggio dei fumetti di Max Bunker, come pure il commissario Salimbeni, interpretato da Elio Zamuto, che cita continuamente proverbi e modi di dire.

Se la cava anche Silvano Tranquilli, mentre il comparto femminile si distingue per la notevole presenza scenica, sebbene non supportata dalla vena recitativa: Olga Karlatos, Lory Del Santo e Simona Mariani sono certamente bellissime, ma loro avvenenza non basta a salvare la loro prestazione. Se a questa debacle (le ragazze sono comunque spesso al centro della scena) uniamo la regia claudicante di Corbucci e le musichette un filino troppo insulse dei fratelli De Angelis, il risultato finale è molto inferiore alle potenzialità. In ogni caso, nonostante il rammarico rimanga comunque forte, il lungometraggio è certamente apprezzabile, soprattutto rispetto al cinema leggero di casa nostra del periodo.  



Olga Karlatos





Simona Mariani


Lory Del Santo


   


lunedì 15 aprile 2019

SATANIK

333_SATANIK .Italia, Spagna, 1990. Regia di Piero Vivarelli.

 Negli anni ’60 in Italia, sulla scia del fortunato Diabolik, vennero alla luce numerosi fumetti cosiddetti ‘neri’: Kriminal e Satanik erano forse gli esempi più interessanti, anche per la cifra artistica degli autori, Max Bunker e Magnus (al secolo Luciano Secchi e Roberto Raviola). Pubblicati dall’Editoriale Corno, questi due personaggi votati al male, superarono per qualità delle loro migliori storie persino il capostipite degli eroi negativi in calzamaglia, il citato Diabolik. E Satanik, che era un personaggio femminile, era forse quello più interessante, più disturbante, perché introduceva l’elemento sessuale, e le devianze connesse, in ogni tavola. Qui la violenza, imperante in ogni momento di queste storie, aveva sempre una connotazione legata al sesso: era quindi un’ulteriore aggravante alle critiche imputabili a questi fumetti, che vennero spesso messi sotto accusa, addirittura in tribunale, per il loro presunto apporto diseducativo. Senza entrale nel dettaglio della polemica, (qui fuori contesto perché il film in oggetto è sostanzialmente innocuo da questo punto di vista), certamente la matrice provocatoria di questi personaggi era uno dei loro punti di forza, di cui gli stessi autori non si vergognavano di certo, soprattutto in relazione alla società bigotta e ipocrita del tempo. Purtroppo, tutto questo aspetto, fondamentale per capire l’importanza di una figura come Satanik, come si accennava viene sciupato e pesantemente annacquato nell’opera di Piero Vivarelli. Il film racconta, a grandi linee, il pretesto narrativo per cui la povera Marnie Bannister (qui oltre che brutta è anche invecchiata, differentemente dal fumetto) può diventare la bellissima Satanik, l’eroina del crimine. Lo scopo del Satanik di Vivarelli è quindi mostrare la splendida Magda Konopka, nei succinti panni della protagonista, e poco altro. La sceneggiatura è giusto una bozza e molti passaggi recitativi sono infantili, da recita scolastica. E per la regia, basti ricordare le parole di Pupi Avati (aiuto regista) che, nel guardare Vivarelli al lavoro su questo Satanik, raccontava di come imparò il modo in cui non si dirige un film.


Magda Konopka













    




sabato 13 aprile 2019

DICK TRACY

332_DICK TRACY .Stati Uniti, 1990. Regia di Warren Beatty.

Dick Tracy, interpretato e diretto da Warren Baetty, è un film tratto dal famoso fumetto omonimo di Chester Gould: questo è un elemento di sicuro merito, sia infatti lode ai comics, e il fatto di rispolverare un eroe tanto datato (il cui esordio su carta risale agli anni ’30) è un’altra menzione d’onore. Sotto questo aspetto va quindi riconosciuto coraggio a Beatty e ai produttori di Dick Tracy: poi, nella realizzazione della pellicola, non tutto fila liscio, ma era in effetti un’operazione difficile, perché il rischio di aggiornare l’eroe era anche quello di snaturarlo. Beatty sceglie quindi la via dell’omaggio rispettoso, e se la gioca sul divertimento quasi carnevalesco del cast nell’interpretare personaggi caratterizzati in modo tanto eccessivo, com’era (e com’è) spesso d’uso nei comics. Per fare questo, il film sceglie un’impostazione debitrice ai recenti Batman di Tim Burton e Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Robert Zemeckis: mancano i personaggi animati presenti nel secondo, ma tutta la fotografia, le scenografie, i fondali, i costumi e il trucco degli attori sono tesi a ricreare nella realtà (cinematografica) il mondo artificiale dei fumetti. L’uso di colori primari per vestiti e accessori è certamente l’effetto più vistoso e appariscente, ed è un aspetto curioso perché per un film su Dick Tracy si poteva anche optare per un bel bianco e nero d’atmosfera molto adatto al genere poliziesco delle storie. Questione di scelte, e Beatty opta per un film coloratissimo con il quale cerca di mettere le cose subito in chiaro: l’opera è un esplicito tributo ad una vecchia gloria dei comics, e come tale va intesa. La sfilza di attori di grande prestigio coinvolta, è impressionante: Al Pacino, Dustin Hoffman, Charles Durning, Paul Sorvino, James Caan, e altri ancora; il punto è che, a parte il primo che è il cattivo principale, sono tutti personaggi di contorno.

Perché i protagonisti, funzionano assai meno: così così Warren Beatty, che ci lascia un Dick Tracy un po’ insipido; ma peggio di lui fanno il moccioso Charlie Korsmo (il ragazzo o Dick Tracy Jr.) e la smunta Glenne Headly (Tess Cuorsincero). Ma la vera scommessa persa di Dick Tracy è quella che doveva essere la sua carta vincente: Madonna. Miss Madonna Luise Veronica Ciccone non è assolutamente credibile nei panni di Mozzafiato Mahoney: nonostante i vestiti, il trucco, le pose, Madonna non ha charme classico, non ha stile, almeno non quello. La Ciccone funziona come icona pop per il suo essere volgare in modo così sfacciato da assumere, in un certo ambito, un suo particolare fascino, certamente più contemporaneo e, nel suo contesto, anche abitualmente più apprezzato. 

Ma nonostante gli sforzi profusi, non ha assolutamente il physique du role per interpretare la femme fatale, anzi, la situazione pone in risalto i suoi evidenti limiti fisici. E, scommessa ulteriormente persa da Beatty, in Dick Tracy Madonna è un mezzo fiasco (spiace per i fan) anche come cantante, non avendo nel repertorio la capacità di essere incisiva nel tipo di canzoni chiamata ad interpretare. (A voler essere cattivi si potrebbe dire che le sia venuta meglio la parte di Blank, l’alter ego della Mahoney che, per perseguire il suo piano criminale, si spaccia per personaggio maschile dal volto senza lineamenti.)
Insomma, una debacle che rischia di far affondare tutta la produzione.
Cioè, soprattutto dopo Jessica Rabbit, bisogna andarci cauti a giocare alla dark lady.   


Glenne Headly


Madonna


giovedì 11 aprile 2019

STELLA DI FUOCO

331_STELLA DI FUOCO (Flaming Star).Stati Uniti, 1960. Regia di Don Siegel.

I titoli di testa di Stella di Fuoco, scorrono sulle note di Flaming Star, una sontuosa ballata cantata nientemeno che da Elvis Presley. Del resto Elvis è anche il protagonista del film di Don Siegel. Stiamo parlando ovviamente di un western, ma la presenza del Re del Rock’n Roll non è cosa da passare inosservata: si tratterà di un film con forte influenza musicale, è facile supporre. In effetti, pochi minuti di pellicola ed ecco Elvis imbracciare la chitarra per intonare l’allegra A cane and a high starched collar. Del resto, il leggendario colonnello Parker, onnipresente manager del cantante, era convinto che in ogni film del suo protetto ci dovessero essere almeno una decina di pezzi musicali. Pare che Siegel, per questo Flaming Star fosse riuscito a contenere la deriva musicale inserendo solo quattro canzoni; in questo senso le due che aprivano il film costituivano già metà di quanto previsto. In realtà vennero girate due versioni del lungometraggio, una con le sole due canzoni citate e un’altra con le quattro previste; da parte sua Elvis era d’accordo con il regista di evitare di alleggerire troppo con gli intermezzi musicali il tono drammatico e particolarmente pessimista del film. Inoltre, ad una proiezione di prova, il pubblico scoppiò a ridere quando Elvis intonò Summer Kisses, winter tears nel campo dei pellerossa kiowa, e fu quindi chiaro che se le due canzoni iniziali non guastavano affatto, il resto della cupa storia mal si sposava con ulteriori esibizioni canore. 

Perché, in effetti, Stella di fuoco è un bel film, pregno, forse anche eccessivamente cupo ma, a conti fatti, giustificato in questo dal punto di vista del protagonista, che per una volta, anche in ambito hollywoodiano, è almeno in parte di sangue pellerossa. Certo, le ragioni degli indiani sono state molto spesso ribadite dai western classici sin dagli anni ‘50 e ci sono già stati da quei tempi alcuni casi di protagonisti indiani in questi film: ma questo è Elvis Presley. E va subito detto che, in questo ruolo drammatico e molto intenso, Elvis sorprende un po’ tutti, in prima istanza proprio se stesso. 

Il passaggio più drammatico comincia con Pacer (il personaggio da lui interpretato) che vuole addirittura uccidere il dottore del paese, reo di aver ritardato il suo intervento causando la morte di sua madre (nel film la mitica e ancora bellissima Dolores del Rìo). Pacer è un meticcio e la morte della madre kiowa è la goccia che fa traboccare il vaso dell’intolleranza subita in tutti quegli anni: ancora più convincente della reazione rabbiosa è, da parte di Elvis, l’immediatamente successiva confessione accusatoria a Rosa (Barbara Eden), la fidanzata del fratello Clint (Steve Forrest), che da sempre lo ha discriminato. Incerto di fronte alla difficoltà recitativa di questo passo della sceneggiatura, il celebre cantante aveva dato in pegno la sua fiammante Rolls Royce a Siegel, fintanto che non fosse stato in grado di recitarlo compiutamente, dal moto furioso alla dichiarazione mista di umiliazione, risentimento e amore deluso. Lo stesso regista fu ben lieto di restituire in tempi brevi l’auto ad Elvis a fronte della prestazione attoriale pienamente soddisfacente di questi.


Nel complesso il film è quindi molto valido e forse nella considerazione generale successiva ha, per assurdo, pesato un po’ la presenza di Elvis come protagonista: il rischio di consideralo il tipico prodotto musicale confezionato per sfruttare la notorietà del Re del Rock’n Roll è evidente. E’ un peccato, perché Elvis è un bravo attore e, pettinatura anni ’50 a parte, è anche credibile come meticcio; in generale è  tutto il cast ad essere all’altezza (oltre ai citati manca da segnalare almeno il solido John McIntire). La storia è molto buona e certamente non può essere considerata tirata via in nessun passaggio: Clair Huffaker scrisse il soggetto velocemente in pochi giorni ma, in seguito, con Nunnally Johnson ci lavorò sopra sei mesi per cavarne una sceneggiatura soddisfacente. Ovviamente Don Siegel è una garanzia in regia e se c’è da fargli un appunto, è aver fatto ricorso un po’ troppo spesso alla fotografia oscurata per simulare le scene in penombra, ma è una cosa da poco. Incuriosisce, piuttosto, il fatto che venga risolta la questione ‘privata’ della famiglia di Pacer mentre venga lasciata in sospeso la ribellione dei kiowas. Tuttavia, è lecito pensare che non ci siano troppe speranze di successo per le ragioni degli indiani, non solo perché questo è Storia ma anche perché, nello specifico del film, la vicenda simbolicamente in primo piano si conclude per loro con una negazione di ogni futuro, sia nella figura della madre che in quella di Pacer stesso che, come meticcio, portava intrinsecamente con sé la speranza di una pacifica convivenza tra culture diverse. Nessuno spazio, quindi, per gli indiani e ancor meno per chi, come Pacer, rappresentava in prima persona che era possibile una risposta diversa dalla sostanziale eliminazione fisica dei nativi come soluzione finale. E vedendo Stella di fuoco, si può concludere che nemmeno ci fosse stato un idolo come Elvis tra le fila degli indiani, sarebbe servito a salvarli. 




Dolores Del Rio




Barbara Eden