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martedì 26 dicembre 2017

BLACK DAHLIA

73_BLACK DAHLIA (The Black Dahlia) Stati Uniti, 2006;  Regia di Brian De Palma.

“Le persone mentono”, riflette l’agente Bucky (il valido Josh Hartnett), a proposito di una deposizione fasulla che intendeva metterlo fuori strada. Un’affermazione che va tenuta a mente quando, dopo la scritta The End in coda a Black Dahlia, leggiamo che il film è ispirato al celebre fatto di cronaca della Dalia Nera, mentre la trama è imbastita sull’omonimo libro opera di James Ellroy. Perché anche i registi sono persone; non che non si debba credere alle didascalie citate, ma perché, pur se veritiere, sono fuorvianti. Perché, se è sicuramente vero che la principale ispirazione è dovuta al fatto di cronaca e lo sviluppo narrativo si basa sul lavoro di Ellroy, in realtà l’obiettivo di Brian De Palma, formidabile regista dell’opera, è focalizzato altrove (e qui sta’ la piccola bugia della didascalia), e guarda caso proprio sul luogo dove è ambientata la vicenda, ovvero il paradiso della finzione, e quindi della menzogna, Hollywood. Hollywood, la fabbrica dei sogni, di personaggi eterei, bidimensionali, vuoti: come il corpo della povera ragazza trovata morta, la Dalia Nera, svuotata dagli organi interni e dal sangue; come del resto anche il cane impagliato di Mr. Linscott. E ragazza che è anche spezzata come una marionetta e sfregiata in un orribile eterno sorriso, come il dipinto L’uomo che ride, riferimento che ritorna anche nel film che i protagonisti andranno a vedere. Un volto di un uomo immensamente triste costretto in un eterno sorriso: un’ulteriore menzogna. La storia è ambientata negli anni quaranta del XX secolo, gli anni del noir, genere a cui il film appartiene e nel contempo di cui è anche una sorta di citazione, di grande tributo; sarà l’efficace fotografia di Vilmos Zsigmond, ma sembra tutto molto fasullo, un’enorme ricostruzione
De Palma gira con tutta la maestria di cui è capace, con calma, muovendo la mdp attorno ai personaggi, accompagnato dalla trama che ha mille rimandi e mille sottotracce. Le cose si rivelano poco a poco, ma nessun colpo di scena sembra essere quello definitivo, c’è sempre qualche particolare ancora da chiarire, niente è mai come sembra. Il regista non è però tanto interessato alle precisione dei colpi di scena, perché sono talmente tanti e talmente aggrovigliati che per lo spettatore è impossibile coglierli tutti, almeno alla prima visione; ma De Palma usa questo intrico per ammaliare e stordire i sensi, aiutandosi con una regia ipnotica nel suo costante e perfetto movimento d’accompagnamento. 


Alcune sequenze sono, come al solito, strepitose, una per tutte quella aerea che precede il ritrovamento del cadavere della Dalia Nera.
L’obiettivo di De Palma, si diceva, è il Cinema: d’altra parte il protagonista e voce narrante del film cosa fa, durante quasi tutto il racconto se non guardare provini e filmini? A differenza del suo socio, il sergente Lee (Aaron Eckhart), che della coppia è il personaggio sbagliato, e infatti non sopporta la visione del filmato hard, cruciale per le indagini, e lascia la saletta di proiezione anzitempo. Il tema del doppio, classico in De Palma, è fondamentale anche in Black Dhalia: i poliziotti protagonisti sono appunto due, Bucky e Lee, ghiaccio e fuoco, come venivano soprannominati nel loro passato di pugili.

E il focoso Lee finirà proprio per bruciarsi, perché mantenere il sangue freddo nei momenti cruciali, come accade a Bucky nella penultima scena, è fondamentale per salvarsi. Ma le coppie nel film sono molteplici: la Dalia Nera, la ragazza trovata morta, è Elizabeth Short, che lavorava, tra strada, provini e film hard, in coppia con la bionda Lorna Mertz; ma era anche il doppio, (era somigliante e per questo da lei contattata), di Madeleine Linscott (una fulgida Hilary Swank), una giovane rampolla della Hollywood bene. Il cui padre si era arricchito edificando costruzioni a Hollywood usando legname marcio: ulteriore metafora (perfino superflua) dell’inconsistenza della città del cinema.
Ma, tornando alle coppie, Madeleine ha una sorella, Martha, con la quale costituisce quindi un’altra coppia; Martha è un abile caricaturista, disegna cioè vignette umoristiche; è un dettaglio secondario, ma ha una sua piccola valenza. Comunque possiamo vedere che di coppie nella storia ce n’è a iosa: Mr. Linscott ha una moglie, Ramona (ecco un’altra coppia) e un amico fidato Georgie (con il quale forma una coppia di amici), i quali tra loro hanno una tresca (un’altra coppia ancora), che poi è anche quella che scatena la tragedia quando Ramona scopre che il suo amante ha un appuntamento con la Dalia Nera, di cui si è invaghito (ipotesi di coppia).


Come si vede le coppie sono molte, ma nessuna di queste ha fondamenti validi: l’unica legale è tra i coniugi Linscott, ma Ramona si premunisce di dirci che il marito l’ha sposata per soldi, mentre Georgie tradisce la fiducia dell’amico e tra le sorelle non corre certo buon sangue e così via. Manca ancora un elemento all’appello, che in questo gioco delle coppie è il grimaldello, quello che le farà saltare, insomma il personaggio-chiave: una splendida Scarlett Johansson è Kay (Key = chiave) la compagna di Lee. Compagna, e non moglie, e per l’epoca, viene detto esplicitamente, questo rendeva la coppia illecita. Ma in effetti, Key forma più che altro un trio, andando a completare quella coppia fatta per contrasto (ghiaccio e fuoco) composta da Bucky e Lee.
Il mondo rappresentato in Black Dahlia è quindi un invischiante gioco basato sulle menzogne (tutti, più o meno mentono, nella storia) e su legami opportunistici. Pur se con i propri limiti, Kay è una che rompe il legame con DeWitt, il criminale che la faceva prostituire, e poi prova a rompere anche con Lee. E’ quindi un personaggio di rottura; simbolicamente poteva essere intesa come il doppio speculare (e quindi formare una coppia) di Madeleine, le due donne che nel finale si contendono Bucky. Ma a differenza di Martha (abbinata a Madeleine in quanto sorella), lei ha smesso di disegnare (studiava infatti disegno), e quindi, per una sorta di parallelismo, smette di essere il doppio di Madeleine. La rottura dei legami, degli schemi, questo è il messaggio che porta Kay, la donna che su di se porta il marchio BD, inciso dal suo protettore Bobby DeWitt.
 Un marchio che indica sia le iniziali dell’uomo ma anche l’acronimo che si usa per il Bondage & Discipline (genere che ritorna nei filmini hard della Dalia Nera), e che prevede appunto corde e legacci per tenere legati, imbrigliati, e che invece Kay riuscirà più volte a rompere nel corso della storia.
Ecco perché uno dei temi era il depistaggio, perché proprio il film che fa della propria apparente cifra stilistica la perfezione formale, il suo circumnavigare le cose, come la mdp di De Palma insegna, ci sprona invece ad andare al sodo, a rompere gli intrecci, i formalismi, i legami posticci. Si è stancato pure Bucky di sparare a destra, a manca, in alto, a un vaso, ad una statua o ad un lampadario.
E’ tempo di mirare al cuore.


Hilary Swank




Mia Kirshner



Rose McGowan




Scarlett Johansson






lunedì 25 dicembre 2017

STAR WARS: GLI ULTIMI JEDI

72_STAR WARS: GLI ULTIMI JEDI (Star Wars: The Last Jedi) Stati Uniti  2017;  Regia di Rian Johnson.

Se nell’episodio VII di Star Wars se ne erano già intuite le potenzialità (per altro seppellite da una marea di critiche da parte del pubblico), in questo nuovo capitolo della saga, Kylo Ren (Adam Driver) si prende giustamente la ribalta. E’ un nemico e un personaggio sopraffino, il cattivo della trilogia-sequel di Guerre Stellari. Non è il classico personaggio negativo che si usa vedere, ahimè, troppo spesso al cinema oggi: non è cattivo per definizione, per nascita o per dinastia. No, Kylo Ren al suo status ci arriva con un travaglio doloroso, faticoso, forse più duro di quello necessario a quegli eroi che compiono il classico percorso di formazione. Kylo Ren è il cattivo che ci ricorda quanto è sottile il confine tra una scelta giusta e una sbagliata, ma soprattutto che ci mostra come anche i cattivi abbiano dubbi, tentennamenti, insomma, siano esattamente come noi. Cosa differenza Kylo Ren dalla anch’essa valida nuova eroina di Star Wars, Rey (Daisy Ridley)? Il paragone è esplicitamente indotto nella scena del confronto/scontro tra i due, e la loro somiglianza è rimarcata insistentemente dalla lacrima sulla guancia di Rey, che va a replicare la cicatrice di Ren. Ma seppur simili, poi, per un qualche motivo uno volge al male e l’altra al bene, e cosa c’è quindi all’origine di questa differente evoluzione? Superficialmente potremmo dire la bellezza, che salta subito all’occhio, e seppur sarebbe una risposta banale (ma comunque suggerita nel film), va riconosciuto che non deve essere facile andare in giro con una faccia come quella del ragazzo. Ma forse l’essere tradito dal proprio maestro potrebbe essere una buona e più seria motivazione; o magari è solo questione di indole.

In ogni caso, lodevole la scelta di lasciare un po’ indefinita la motivazione che spinge il nostro a compiere la sua scelta. Così come è eccellente l’idea di rivelare, al contrario, l’origine umile e fuori dalle dinastie classiche della saga (i Solo o gli Skywalker) di Rey, almeno fino a future smentite. Finalmente un’eroina che non è nobile ma viene dal volgo: e già solo questa scelta democratica degli autori, rende Rey una dei personaggi più interessanti dell’intera saga; in ogni caso Daisy Ridley in questo suo secondo episodio tiene botta in modo egregio. Detto dei due validissimi protagonisti, possiamo volgere l’attenzione a Stars Wars:Gli ultimi Jedi in ottica generale: pur se forse eccessivamente lungo (critica che per definizione è illegittima, è vero, ma qui si poteva sforbiciare qualche battaglia), il film è un buono spettacolo, divertente e costruito ad arte.

Se Il risveglio della Forza era una sorta di riedizione del primo storico episodio, Gli ultimi Jedi rifà così un po’ il verso a L’Impero colpisce ancora, con Kylo Ren che, appunto, assurge, alla sua maniera, al ruolo che fu di Darth Vader. Dal punto di vista estetico il film è di livello sopraffino, sia nelle scelte che fanno ricorso alla tecnologia dei più recenti effetti speciali, sia per alcune intuizioni di pura genialità, come la minimalista sala del trono del Leader Supremo Snoke (un irriconoscibile Andy Serkis), completamente immersa in un fondale di luce rossa.

Il film è dominato da un’estrema attenzione a particolari di differente natura: certo, si cerca di accontentare sia i nuovi che soprattutto i vecchi fan, con omaggi nella trama e nella caratterizzazione dei personaggi. Ma si usa anche un eccessivo rispetto del politicamente corretto: se i riferimenti allo sfruttamento degli animali o alle lobby delle armi sono prevedibilmente di matrice Disney, più inconsueti sono quelli ai sentimenti populisti e qualunquisti incarnati nel film da DJ (Benicio del Toro).


Un altro dei punti deboli dell’operazione è il continuo ricorso alla ironia o alle soluzioni farsesche, perché rischiano di far crollare l’intera architettura della vicenda. Di base una certa instabilità nella struttura di tutti i Guerre Stellari esiste già: com’è possibile che l’Impero o il Primo Ordine fatichino a spazzare via quei quattro scalcinati ribelli? 
Già la distruzione della prima mitica Morte Nera nel film del 1977 avrebbe dovuto far sorridere, ma George Lucas fu molto bravo a convincerci prima che una Stazione Spaziale da Combattimento potesse distruggere un pianeta; e poi, pur essendo a sua volta grande come un satellite, potesse essa stessa venir distrutta da un semplice Caccia Spaziale. Potenza della forza narrativa del cinema, certo. Ma l’inghippo di base rimane comunque, ed è comune a tutti gli episodi di Star Wars: il mostrare contemporaneamente la potenza del Primo Ordine e la sua goffa incapacità di chiudere il conto, è un terreno scivoloso e se poi si propone come eroe quasi risolutivo il pur simpatico BB-8 (il piccolo droide che sembra una palla) e si eccede nelle scenette comiche (che sono certamente utili a stemperare l’adrenalina delle battaglie), il risultato finale può anche essere che la simpatia dello spettatore passi per i cattivi, che sembrano la versione spaziale di Wile E. Coyote o Dick Dastardly.
E allora, lunga vita al Primo Ordine! (lol)












Daisy Ridley







domenica 24 dicembre 2017

INDOVINA CHI VIENE A CENA?

71_INDOVINA CHI VIENE A CENA? (Guess Who's coming to Dinner) Stati Uniti  1967;  Regia di Stanley Kramer.

Il tema culinario del titolo del film offre una ghiotta, seppur semplice, chiave di lettura per quest'opera: una volta messi in pentola gli ingredienti giusti, è impossibile fare un piatto insipido. Stanley Kramer, che non a caso oltre che regista è anche produttore, sceglie il soggetto giusto con l'argomento giusto, e ci piazza un cast non tanto stellare quanto di assoluta adeguatezza. I genitori bianchi e liberal, sono due mostri sacri del cinema di alta qualità, Spencer Tracy (eccellente) e Katharine Hepburn (qui forse nella sua più fulgida interpretazione); gli sposini, sono Sideny Poiter, bello, di colore e di successo (La calda notte dell'ispettore Tibbs) e Katharine Houghton, spumeggiante nipote d'arte; la coppia  afroamericana è composta invece da due onesti attori semisconosciuti. Tutti i ruoli sono quindi bilanciati a dovere e perfettamente funzionali allo scopo. La trama potrà essere anche scontata (cosa succede in occasione di un matrimonio misto, anche e soprattutto in una casa liberal, di idee aperte e progressiste?) ma la bravura degli attori, anzi, la loro adeguatezza alla riuscita dell'opera, al ruolo da interpretare dentro di essa, produce un risultato impeccabile. Spencer Tracy, nei panni di un vecchio editore e giornalista progressista, è strepitoso; sembra quasi rimpiangere di aver scelto quelle idee liberali che ha professato e che ora gli presentano il conto. E' una parte cucita addosso per il grande vecchio attore, che se la gode tutta, ora nell'andarsene in giro per la casa con la camicia fuori posto, ora nel discutere quasi molestamente con la commessa della gelateria. 


Se Tracy si prende tutta la scena, fino al commovente e sentito pistolotto finale in stile giallo con tutti gli indiziati chiamati a raccolta, Katharine Hepburn quasi si sposta di lato. In effetti il film sarebbe imperdibile anche solo per vedere, per una volta, la Hepburn rimanere senza parole; ma, a parte questo, seppur insolitamente poco loquace, stavolta Katharine recita con gli occhi, con i movimenti del capo, illuminando la scena attraverso le lacrime trattenute a fatica. Magnifica davvero. Bravi anche gli altri attori, tutti nel ruolo giusto, compreso il caratterista Cecil Kellaway, nei panni del monsignore amico di famiglia, o Isabel Sanford, la domestica di casa. Con una messa in scena perfetta e dialoghi curatissimi e frizzanti, il film è proprio piacevole. Peccato sia l'ultimo interpretato da Spencer Tracy, scomparso pochi giorni dopo la fine delle riprese.




Katharine Houghton e Katharine Hepburn


Katharine Houghton



Katharine Hepburn