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Visualizzazione post con etichetta Neo Noir. Mostra tutti i post
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sabato 25 settembre 2021

DRIVE

897_DRIVE ; Stati Uniti, 2011; Regia di Nicolas Winding Refn.

L’approccio con il film è una telefonata, seguita da un lavoro a tempo, 5 minuti. Proprio la precarietà temporale è uno dei temi portanti del film. Il protagonista, perfetto eroe di questi giorni (“vuoi fare l’eroe?” cit. Standard) non è mai impegnato per un tempo indeterminato: ti concede 5 minuti e poi torna a farsi i fatti propri. Non vuole responsabilità, sta semplicemente alle regole del gioco; lo ha imparato al lavoro, guarda caso, part time, lo stunt-man, dove gli fanno firmare la liberatoria un secondo prima della scena pericolosa. Tant’è che Hollywood è nel film uno dei pochi angoli di legalità della storia, dove invece tutti i personaggi maschili adulti hanno connotazioni negative. Lo stunt-man sembra però un lavoro adatto a Driver (chiamiamolo così, visto che il personaggio interpretato da Ryan Goslin rimane senza nome) perché mascherato evita di venire coinvolto in prima persona. Esattamente come nell’altro suo lavoro part time, quello da 5 minuti. Non sarà certo un caso che la svolta con Irene (Carey Mulligan) avviene in quello che è il vero lavoro di Driver, il meccanico; un lavoro, questo, fatto in prima persona, in cui ci si sporca le mani. Irene, (che in inglese ha il suffisso “ai”, “io” prima persona singolare) è anche l’unica persona (adulta) vera e positiva del film. Il gioco di parole coi nomi è probabilmente poco più che una simpatica battuta ma è una delle possibili chiavi di lettura dell’intero film. Non a caso il protagonista non viene mai chiamato per nome, riuscita metafora che dà l’idea della spersonalizzazione dell’individuo moderno. 

Il marito della donna, Standard (Oscar Isaac) è invece l’uomo-medio (standard appunto); in una società rappresentata nel film da Hollywood (cosa fa il cinema se non rappresentare la realtà?) scorretta in modo così grave con i suoi lavoratori, l’individuo tipo che ti può capitare in marito non può che essere un delinquente di mezza tacca. Nel film, chance oneste non ce n’é: Shannon (Bryan Cranston) gestisce l’officina ma porta ancora i segni dei traffici con la mala. Per poter appropriarsi di un proprio ruolo, il protagonista, dovrebbe correre in auto (driver, appunto); è un gran pilota, molto veloce. Ci va anche vicino, in effetti, ma i soldi per farlo, sono soldi che arrivano dalla criminalità. Impossibile uscirne puliti e dura anche cavarsela solo con le mani sporche, come già nell’incontro con Bernie Rose (Albert Brooks); infatti in tutta la parte finale, il nostro eroe se ne va in giro con il giubbotto lordo di sangue. Il tempo, che spesso è dilatato innaturalmente in molte sequenze, è uno dei modi in cui il regista riesce a mostrarci il disagio di vivere dei nostri giorni. Anche nella storia d’amore con Irene il tempo ha un ruolo decisivo, visto che è chiaro sin da subito che si tratta di una relazione a tempo determinato: non a caso la prima cosa che il protagonista nota nella casa di lei è la foto del marito col bambino. Una storia senza futuro ancora prima di cominciare. Nella sua desolazione, il film ha anche una luce di speranza; nella scelta di Driver di schierarsi e sacrificarsi per la salvezza di una donna (non sua) e di un figlio (non suo). Un gesto di amore supremo che cancella e redime il protagonista, rendendogli il ruolo di eroe dei nostri tempi. Stavolta, il tempo è battuto: Drive, ferito a morte (ferita all’addome = ferita mortale; forse non in medicina ma al cinema, sin dai tempi del western, è così per definizione) se ne va sulla sua macchina, in fin di vita. Quanto tempo gli rimane? Nell’incertezza, nella precarietà, per una volta, non ci sono limiti. Più che una speranza, forse è solo un'illusione, del resto siamo al cinema. Ma grazie comunque. 











Carey Mulligan

martedì 1 gennaio 2019

NON E' UN PAESE PER VECCHI

280_NON E' UN PAESE PER VECCHI (No country for old men)Stati Uniti, 2007;  Regia di Joel e Ethan Cohen

Alfred Hitchcock, nella celebre intervista con Francois Truffaut, aveva spiegato cos’è un MacGuffin con l’esempio del pacco: un semplice pretesto narrativo. Tarantino, in Pulp Fiction, lo aveva usato nella sua valigetta, per mettere in moto il film che aveva cambiato il corso alla Storia del cinema. Nel rispetto dell’esempio di Hitchcock, anche nel film-culto del formidabile Quentin non è dato sapere cosa ci sia nella valigetta, perché la cosa non ha alcuna importanza, quello che conta è che la storia possa avere inizio. I fratelli Cohen, in Non è un paese per vecchi, ribaltano questo concetto: nella valigetta del loro film si sa cosa ci sia, un mucchio di soldi, ed è un dettaglio importante, un dettaglio per cui rischiare anche di morire. L’importanza del film dei fratelli di Minneapolis è proprio nell’aver spostato un po’ più in là il confine di un genere, il crime-movie, che ha forse preso l’eredità del western nell’esprimere al meglio la società americana contemporanea (e, quindi, visto la sua influenza, quella mondiale). Il denaro nella valigetta non può essere un dettaglio: è il motore della vicenda proprio per la sua importanza, per l’importanza che ha, nella nostra società, avere una montagna di soldi. Non è e non può essere un dettaglio secondario: i Cohen spogliano così il cinema del suo lato romantico, ancora presente e rilevante in Pulp Fiction ma, sorpresa (!), il film funziona ancora, e funziona alla grande. 
I dialoghi, e con essi la storia, perdono significato ma reggono lo stesso, anzi, sono anche in questo caso uno dei punti di forza dell’operazione. La vicenda, da un punto di vista narrativo, è presto detta: Llewelyn Moss (Josh Brolin), durante una battuta di caccia, si imbatte in un massacro, già avvenuto, e trova una valigetta piena si soldi. La tentazione è forte e l’uomo decide di tenersi il denaro. Non sono però contenti di questo gli uomini che quel denaro dovevano recuperarlo, che scatenano sulle sue tracce alcuni criminali messicani contemporaneamente al flemmatico ma inesorabile Chigurh (Javier Bardem), un pericoloso psicopatico. A cercare di mettere un po’ d’ordine, assai controvoglia, si trova coinvolto lo sceriffo Ed Tom Bell (Tommy Lee Jones). 

A questo punto Chigurh assurge quasi a protagonista del film (in realtà Bardem vincerà l’oscar come attore non-protagonista) tanto rilevante è il suo ruolo: killer implacabile, incarnazione della morte stessa, o forse del Destino, visto la sua abitudine di giocare a testa o croce con la vita dei malcapitati che trova sul suo cammino. Ma forse è proprio lui, il MacGuffin, il dettaglio senza significato ma indispensabile per mettere in moto la vicenda. Non è importante se tu sia colpevole o innocente: del resto Llewelyn ha unicamente la colpa di impossessarsi di un mucchio di denaro sporco, ma finisce per essere coinvolto, per essere scoperto, soltanto perché, in coscienza, non si perdona di non aver dato l’acqua al bandito moribondo. 
In fondo, è cacciatore ma anche preda, è un personaggio opportunista, ma non merita certamente di finire tra le mani di Chigurh. Ma, dicevamo, che tu sia colpevole o innocente, non conta: quello che fa la differenza è che, quando il Destino trova le tue tracce, che sia una serie di gocce di sangue, un segnale radio o una strisciata nella polvere di un condotto dell’aria, non importa, niente lo potrà fermare. E questo ancora in quell’oggi che, nel film, il southwest americano degli anni ’80 vuol rappresentare: ad ascoltare le parole del vecchio sceriffo Ed Tom, i tempi andati del far west, violenti e selvaggi, sembrano quasi un’età dell’oro. La frase del titolo riprende il primo verso di Salpando verso Bisanzio di William Butler Yeats, ma com’è che diceva uno dei nostri poeti? si sta come d’autunno, sugli alberi le foglie: e, in questo caso, tutta la differenza del mondo la fa se la foglia cade dritta o a rovescio.



Kelly Macdonald




sabato 1 dicembre 2018

TERMINAL

249_TERMINAL  Stati Uniti, Regno Unito, Irlanda, Hong Kong, Ungheria 2018;  Regia di Vaughn Stein

In The Wolf of Wall Street poteva essere stata unicamente l’ennesima attrice bellissima di cui si sarebbero presto perse le tracce; invece con Tonya, Margot Robbie suggellava alla grande il crescendo della sua carriera, dopo altri ruoli interessanti. Quindi, quando la si vede splendente nel manifesto di Terminal, film di cui si va presto a prevedere il carattere eccentrico, viene spontaneo pensare alla definitiva consacrazione dell’attrice. Tant’è che la Robbie figura pure tra i produttori del film, quindi una certa idea se la deve essere fatta pure lei. Ed è forse per questo che si rimane un po’ sgomenti, a fronte di una prestazione interpretativa della bella Margot che troppo spesso sfiora (volendo essere gentili) il grottesco, presumibilmente involontario. Certo, il pastrocchio pur ben confezionato, ben illuminato e ben inscenato, imbastito dal regista Vaughn Stein non aiuta, ma l’attrice è il baricentro portante del film e la sua performance contribuisce a mandarlo a fondo. Non che il film sia completamente da buttare: c’è una bella atmosfera e le scenografie sono accattivanti, ma più adeguate al set di un programma televisivo che di un film vero e proprio. Inoltre, tutto il registro interpretativo degli attori è forzato e poco naturale, il che dopo un po’ viene a noia; con il risultato che complessivamente l’opera suona troppo posticcia. I riferimenti ad Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll sono fin troppo evidenti e anche dichiarati, ma giustificano solo alcune delle stranezze del film, che sono anche quelle più tollerabili; ma le conversazioni monotone, i battibecchi tra i due killer e soprattutto i dialoghi che vedono protagonista proprio la Robbie, non convincono e sono del tutto gratuiti. 
Per Terminal non è che sia un grande rammarico: di film alla moda del momento, zeppi di ingredienti dai sapori all’apparenza forti ma in realtà insipidi, ce ne sono a dozzine; uno di più non è una tragedia. Peccato invece per la Robbie, perché questa sua interpretazione esaspera alcuni atteggiamenti già visibili in Tonya; ma, in quel caso, l’impressione era stata molto positiva e legittimata dal contesto. Ora questa brutta prova rischia di mettere in cattiva luce anche quella prestazione, lasciando intendere che l’attrice sia buona solo per fare la caricatura di sé stessa.
Occhio, quindi, cara Margot; e torna in fretta al di qua dello specchio.   

      
Margot Robbie












lunedì 29 gennaio 2018

COLLATERAL

93_COLLATERAL   Stati Uniti, 2004;  Regia di Michael Mann.

Un uomo scende dalla metropolitana e si toglie la giacca per coprire le spalle della donna che cammina accanto a lui.
In questa semplice scena, la scena finale, c'è tutto il senso dello straordinario film di Michael Mann, Collateral. Prendiamoci cura. Mettiamo qualcuno al centro al nostro del nostro operare, del nostro fare.
Perché non basta essere qualcuno che fa, anche se è vero che è meglio fare che parlare, su questo si può essere d'accordo con Vincent, il personaggio interpretato da quello che è forse il miglior Tom Cruise mai visto sullo schermo.
Max, (l'ottimo, a sua volta, Jamie Fox) è "uno che fa invece di parlare. E' forte"; per usare appunto le parole di Vincent. Ma non basta; perché nella giungla moderna, fare, lavorare, muoversi, darsi da fare, avere progetti, non basta.
Anzi, ad essere efficienti, ad essere troppo efficienti, si rischia di fare un patto col diavolo, come quello che Max stipula con Vincent: soldi in cambio di lavoro, nient'altro, lasciando perdere gli effetti collaterali.
E proprio da questo rischio ci mette in guardia il film di Mann, opera davvero strepitosa di un autore che è ormai uno dei punti di riferimento del cinema odierno. E tra gli effetti collaterali di cui occorre preoccuparsi c'è anche la nostra umanità. Quell'umanità che nel film è mostrata con tutti i colori della caotica Los Angeles, delle luci al neon, dei taxi rossi e gialli; e non a caso Max, il protagonista, è un uomo di colore; e la sua salvezza è una donna, Annie (una deliziosa Jada Pinkett Smith), anch'essa di colore.


Uomini, donne, ma in realtà nient'altro che prede, per i predatori che nella giungla moderna sono in caccia. Quella caccia mostrata nella parte finale del film, con sequenze mozzafiato sottolineate dal rullare della colonna sonora. Efficienti e spietati, i predatori sono come lupi, grigi come li ha resi l'assenza di umanità, che nel film, lo abbiamo capito, è resa invece dal colore.

Vincent, capelli e pizzetto grigio, abito grigio, non è però un cattivo come siamo abituati a vedere: a un certo punto Max gli domanda "Allora tu cosa sei?" "Indifferente", è la risposta. Indifferente ma molto, molto efficiente. Non si pone dubbi o domande, come al contrario fa Annie; non è un uomo da farsi problemi. In un altro passaggio, tra i tanti e splendidi dialoghi, a domanda precisa e diretta "(Lei) come si chiama?" risponde "Nessun problema". Ha un compito, e intende farlo: "Max, questo è il mio lavoro!" avverte prima dello scontro finale. Non è quindi nemmeno scorretto; è un burocrate dell'efficienza.
E' questa la deriva pericolosa: passare dal girare in tondo senza meta, (come fa Max, che sono 12 anni che si dedica ad un lavoro provvisorio e non ha mai il coraggio di arrivare al dunque), a smettere di avere sogni o anche solo qualcuno per cui preoccuparsi ma badare solo al proprio dovere, con efficienza, precisione, puntualità.

Max ha ancora un sogno, ma forse è solo un pretesto per sfuggire la realtà. Certo, il suo taxi è colorato, lui stesso è un uomo di colore; ma è anche preciso e puntuale, e il suo taxi pulito ed efficiente. Non sono certo difetti, questi, ma sulla capote della sua macchina la scritta pubblicitaria "Silver" lo indica come predestinato all'incontro col lupo argenteo Vincent. Il suo destino è forse già deciso? Il suo percorso sembra davvero segnato: cinque precise tappe nella sera raccontata dal film, da seguire senza fare obiezioni, con scrupolosa diligenza professionale. A concrettizare, capitalizzare, il continuo girovagare infruttuoso dei precedenti dodici anni di servizio. E Max vacilla e, in fede al patto stipulato con Vincent, diventa lupo a sua volta, si cala nei panni della controparte. Poi reagisce: la salvezza passa prima da un deragliamento, una rottura della routine efficiente e senza fine. Max manda il taxi ruote all'aria ma salvarsi non basta. La vera salvezza non è ancora raggiunta. L'unica salvezza davvero valida si ottiene rivolgendo altrove i nostri sforzi, salvando qualcun altro. In questo caso, dal momento che Mann è un autore classico, c'è una "damigella in pericolo" da cavare dai guai.
Avere qualcuno di cui aver cura. Avere un effetto collaterale di cui preoccuparsi.






Jada Pinkett Smith