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venerdì 31 maggio 2024

EUROPA DI NOTTE

1490_EUROPA DI NOTTE . Italia, 1959; Regia di Alessandro Blasetti.

Quando si parla di Mondo movie, viene in mente subito Gualtiero Jacopetti. In effetti, il giornalista/scrittore toscano merita il titolo di padre di quel particolare genere di film che salì alla ribalta con il famigerato Mondo Cane, uscito nel 1962 e diretto non solo da Jacopetti, ma anche da Paolo Cavara e Franco Prosperi. Tuttavia, la figura di Jacopetti era talmente invadente che, almeno da questo lato dell’albero genealogico del genere, possiamo ritenerlo il riferimento principale. Perché, e questo può anche essere sorprendente, i Mondo movie hanno anche un altro genitore, che non è né Cavare e né Prosperi, che possono essere al massimo gli zii del genere cinematografico in questione. Influenti, d’accordo, perché il loro lavoro sarà, in modi e quantità diversi, continuativo per tutto il periodo cruciale che ebbero questi particolarissimi film. Ma ha dare i natali a questo singolare tipo di documentari fu, forse più di ogni altro, Alessandro Blasetti. Fu infatti su suo incarico, che Jacopetti partì alla volta dell’Europa notturna alla ricerca di situazioni intriganti da inserire nel progetto Europa di notte. E fu proprio durante questa missione che il giornalista toscano, qui nella veste di sceneggiatore e autore del testo fuori campo, che ebbe l’ispirazione per Mondo Cane. Al di là del suo rapporto con i Mondo movie, Blasetti è giustamente considerato uno dei padri del cinema italiano, nel quale annovera una serie di primati nient’affatto trascurabile. Regista di riferimento del cinema del Ventennio Fascista, precursore del cinema dei Telefoni Bianchi, con L’impiegata di papà (1934), del Fantasy italiano, con La corona di ferro (1941) e dei film a episodi, con Altri Tempi – Zibaldone n. 1 (1952). Suo è il primo film sonoro, Resurrectio (1930), perlomeno come realizzazione, e l’utilizzo del colore, con il cortometraggio La caccia alla volpe nella campagna romana (1938). 

Fu soprattutto un maestro della commedia italiana ma, giusto  per rimarcare ancora una volta il suo eclettismo, 4 passi tra le nuvole (1942), anche quando non viene inserito nella filmografia del Neorealismo, gli consente un posto tra i precursori della corrente più illustre del cinema italiano. E grazie ad Europa di notte, che fu a sua volta, una novità nel panorama cinematografico italiano, è ancora a lui che, abitualmente, si fa riferimento quando si parla dell’origine dell’anomalo fenomeno dei Mondo movie. In realtà il legame è unicamente strutturale: cioè la composizione frammentaria, e priva anche di semplici raccordi tra un segmento filmico e l’altro, Jacopetti, per il suo Mondo Cane, la prese proprio da Europa di notte. Ma, al di là di altre analogie –ad esempio, il commento ironico, del resto opera dello stesso Jacopetti– quello che è diverso lo è in modo sostanziale. La caratteristica principale dei Mondo movie fu infatti l’utilizzo strumentale delle immagini, teso non tanto a seguire uno scopo specifico o preciso, ma piuttosto a destabilizzare tutto quanto quello che veniva percepito dallo spettatore, il “mondo”, se vogliamo utilizzare un termina quanto mai appropriato. Blasetti, in ossequio alla sua capacità di adattamento, non prende certo una posizione tanto drastica. Il suo sguardo complessivo, in Europa di notte, è calibrato in modo da lanciare il sasso nascondendo la mano, come recita un modo di dire che ben spiega lo spirito del film. 

Ci sono dei frammenti stuzzicanti, del resto il titolo del film è un evidente richiamo in tal senso. Ma, insieme a spettacoli di varietà con pagliacci e prestigiatori, si possono ammirare le gambe delle ballerine dei night club e tabarin delle capitali europee, ma Blasetti non si spinge mai oltre il lecito concesso dalla censura. Per quanto, lo spettatore sia comunque istigato a dovere, andando ad esempio, a scovare un personaggio come Coccinelle, una tra le prime transessuali della storia, sapendo bene che la cosa avrebbe creato un certo riscontro senza bisogno di mostrare niente di eccessivo. In effetti, un critico severo nei confronti dei Mondo movie come Morando Morandini, così definisce Europa di notte: “È il film-inchiesta che, con ineguagliata eleganza, diede il via ad un esecrabile e sensazionalistico filone sexy che imperversò negli anni Sessanta. (…) fa spettacolo sullo spettacolo.” [Morando Morandini. Il dizionario dei film 2003, Bologna. Zanichelli Editore, 2002]. In realtà è un film sostanzialmente innocuo, che si finge stuzzicante ma è ligio a non uscire dal seminato. Quanto all’eleganza formale, certamente Blasetti sa il fatto suo, e i suoi collaboratori anche; in questo senso, va messo a referto il Nastro D’Argento 1960 vinto da Gábor Pogány per la migliore fotografia a colori. Il film ebbe un notevole successo di pubblico, la critica approvò: guardandolo oggi, onestamente, qualcosa non torna. E, paradossalmente, il merito maggiore che gli si può riconoscere, è proprio quello che, almeno secondo alcuni, è il tasto dolente dell’intera faccenda. L’ineffabile Blasetti, il regista del Ventennio Fascista e di 4 passi tra le nuvole, è riuscito anche stavolta a preparare la strada a qualcosa di nuovo. Se, al netto della pessima fama, i Mondo movie possano definirsi un evento in qualche modo positivo, è certamente tutto da stabilire; comunque sia, parte del merito –o forse bisognerebbe dire della colpa, dando retta alla critica ufficiale– è di Blasetti e del suo Europa di notte. E, in fondo, questo è un elemento più interessante che disquisire sulla qualità o sull’eleganza di un innocuo documentario sui tabarin d’epoca.

Coccinelle 




Galleria 







domenica 5 maggio 2024

IL PANE AMARO

1477_IL PANE AMARO . Italia 1968; Regia di Giuseppe Scotese.

Su una pagina del sito YouTube dedicata a Le città proibite, è pubblicata una dichiarazione di Scotese che spiega l’origine di Il pane amaro: “Due anni di lavoro, anatomia del proibito. Durante questo film (Le città proibite, NdA), mentre con l’occhio destro guardavo dentro l’oculare della macchina da presa, con l’occhio sinistro scrutavo e fissavo nella mia mente immagini di una realtà umana ancora sconcertante e a volte tragica. Sentii di dover mostrare al mondo l’amara realtà del sottosviluppo e del non sviluppo per oltre metà della popolazione del globo. Scrissi e filmai come regista il primo «mondialmente», lungometraggio, documentario sulla disumana realtà dei popoli del sottosviluppo; il film sarebbe stato il mio ritorno al cinema documento”. < pagina web curata da Adriano Sorrentino e visibile all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=cf_n_Q-68sY, visitata l’ultima volta il 23 aprile 2024>. Del resto, grosso modo le stesse parole Scotese le aveva usate nell’intervista rilasciata a Daniele Aramu e pubblicata su Nocturno Book nr.9 – Mondorama. In un certo senso, si può notare un percorso simile a quello di Gualtiero Jacopetti quando determinò la nascita dei Mondo movie italiani: al giornalista di Barga, l’idea di Mondo cane era venuta girando per il Vecchio Continente per conto di Alessandro Blasetti. Lo scopo era trovare materiale per Europa di notte, progenitore dei Mondo movie in generale e ispiratore, nello specifico, della corrente ‘sexy’ di questi particolari film. Jacopetti si accorse che, giù dai palcoscenici e fuori dai teatri e dai tabarin, si potevano trovare cose ben più interessanti e li utilizzò, in seguito, per il suo atipico documentario. La sua idea era sconvolgere, spiazzare, sorprendere: ciò che trovò di interessante, o meglio ciò che cercò, era il sensazionale, il bizzarro, quando non propriamente il lato ‘cattivo’ delle cose. La sensibilità di Scotese, mentre girava Le città proibite, fu sollecitata in modo diverso. Va detto che, al tempo, il cinema di Jacopetti, Cavara e Prosperi, aveva già visto la luce e creato il suo bel putiferio. I due percorsi sono quindi paragonabili, ma bisogna tener conto che Scotese aveva bene in mente i primi lavori di Jacopetti e company, nel momento in cui decise di girare un film come Il pane amaro. Il documentario del regista marchigiano è un’accorata disamina dei problemi sociali di quel terzo mondo che, spesso, negli shockumentary è unicamente pretesto per far sobbalzare sulla sedia gli spettatori. Il pane amaro sembra quasi essere, in sostanza, quanto si chiedeva a Jacopetti, o almeno quello che la critica chiedeva: avvicinarsi con partecipazione, rispetto e ossequio alle altrui culture. Il documentario fu frutto di un enorme lavoro di uno striminzito manipolo di addetti, tre quattro persone, regista compreso, al massimo, ottenuto peregrinando per tre anni in giro per i posti più disagiati. 

Il risultato complessivo è un testo serio e interessante che forse è fuori luogo nella categoria Mondo movie ma si può inserire per almeno due motivi. Il primo è che Scotese era un regista già avvezzo al genere, di cui era, oltretutto, tra i suoi precursori; il secondo è che Il pane amaro poteva quasi essere il contraltare di Mondo cane, una sorta di suo rovescio, e, quindi, in un certo senso, ad esso collegato. A conferma che si trattava anche di una volontà esplicita di Scotese, nel finale, il commento fa pubblica ammenda, a nome degli europei, nei confronti dell’Africa e degli africani, per i problemi legati al colonialismo. Tema che riprende, ribaltandone il punto di vista, anche quanto emerso da Africa addio, successivo pseudo-documentario di Jacopetti e Prosperi uscito un paio d’anni prima di Il pane amaro. Scotese è invece più severo  nei confronti di certe credenze e usanze religiose: ad esempio, nell’analisi alla situazione indiana, si sottolinea come, con i soldi degli armamenti, si potrebbe sconfiggere la lebbra dilagante nel paese e, smettendo o quantomeno rendendo meno integralista il culto della vacca, animale ritenuto in quei lidi sacro, si potrebbe migliorare di molto le condizioni della popolazione, forse anche sconfiggere la fame.
La critica accolse con favore, il film: “I nutriti non immaginano quanta parte del nostro pianeta è ancora occupata dalla fame, fame nel crudo senso fisiologico, fame che infligge la più solenne smentita alla nostra glorificata «civiltà del benessere». Attraverso le terrificanti immagini de Il Pane amaro, Giuseppe Scotese, apprezzato documentarista, ci dà la «geografia» di codesto spettro, una larga fascia di mondo, che, non mettendovi riparo, atteso il vertiginoso aumento della popolazione, minaccia d'estendersi all’intero. Alcuni dei paragrafi più interessanti. In un villaggio cinese i sessantenni devono lasciare il cibo ai giovani: viene il giorno che si vive ancora, ma non si mangia più. Nel deserto australiano, egoisticamente chiuso all'immigrazione, vagano uomini primitivi che campano di topi e lucertole. Sono gli accordi di una sinfonia che investe con particolare forza il continente americano, scorciato nelle sue innumerevoli «bidonville». Nel cuore del paese più ricco del mondo, a New York, i «disadattati» di Bowery accattano brodaglie in uno scenario di Bengodi; nel Messico, con l’opulenta California alle spalle, l’acqua è a prezzo; a Rio, cessata l’orgia del carnevale, riattacca una più sofferta miseria, con sottofondo «crepuscolare». E fame vuole anche dire infimo meretricio, affatto privo di quella vergogna che è retaggio dell’agiatezza; vuole dire lo scimmiesco mestiere dei Maya raccoglitori di gomma da masticare, e invenzioni mangerecce che degradano l’uomo sotto l'animale (la coltura stercoraria dei granchi in certe zone depresse del Brasile), e tubercolosi (Perù), e disoccupazione (la crisi del carbone in Pennsylvania) e siccità (il Nordeste brasiliano) e tante altre piaghe. L’iter della fame continua nell’Africa, specie nell'Africa più illusa dal progresso, tuttora improntata dal vecchio colonialismo (mancanza di carne, denutrizione cronica, rachitismo); nel Sud Africa, dove la invelenisce il più odioso pregiudizio di razza; in India, dove il problema della fame, radicato in una religione che considera sacre le vacche, si colora di fatalismo e tocca veramente l’assurdo. Mancano a questo gran ragguaglio dell’indigenza mondiale i Paesi comunisti: e la lacuna si nota. Le contraddizioni tra la realtà dei fatti e i vanti del secolo non sono cercate dal regista, scaturiscono da un contesto troppo occupato a smaltire l’abbondante materia perché si dia il facile lusso delle antitesi. Se l'aspetto più straziante di questa «inchiesta» è il patire dei bambini, anche qui Scotese non ha strafatto né nelle immagini né nel commento (sempre pertinente, documentata e nella giusta misura commosso). Il pane amaro, per civile provvedimento, non soffre di «veti», lo possono vedere tutti (ma non consiglieremmo di portarci i piccolissimi). Lo devono vedere, a toglierne un’aspra, lezione, così gli euforici del «progresso» come gli eterni scontenti di ogni età e ceto”. [l.p., Drammatica geografia della fame nel mondo, La Stampa, anno 102, nr.107, domenica 5 maggio 1968, pagina 7].

Un film tanto accorato e, tra le altre cose, anche critico nei confronti del sistema capitalistico, non poteva trovare forte consenso nella sinistra del paese: “«Il futuro ci è nemico… nei prossimi dieci anni forse assisteremo alla morte di cinquanta milioni di bambini»: così inizia il commento al documentario di Giuseppe Scotese. Il pane amaro, è stato girato durante tre lunghissimi anni che il regista ha trascorso viaggiando attraverso le capitali della miseria, una miseria che dilania i due terzi del nostro pianeta, ma che tuttavia sembra restare invisibile nelle grandi capitali della ricchezza e del consumo, dove l’«uomo a una dimensione» si accartoccia sempre più nel suo guscio. Ne Il pane amaro è il mondo della miseria e della fame che trascorre in primo piano, ripreso col ritmo lento delle carrellate che fermano per sempre sulla pellicola le immagini «continue» di un mondo terribile, di un universo mostruoso, chiuso ed eterno, immenso, sullo sfondo del quale brillano le costruzioni di ferro e di acciaio delle città del benessere, immerse nella nebbia come un miraggio irraggiungibile per gli uomini della favelas o per le piccole mani piagate dalla lebbra.
Il documentario di Scotese è un itinerario doloroso, lungo i sentieri corrosi dell’epidemia della fame, sentieri che la coscienza «civile» preferisce non praticare, optando senza esitazione per l’asfalto delle autostrade. Milioni di uomini, immersi dal mattino alla sera nella dolcezza di quelle piccole felicità quotidiane che offre l’alienazione dal mondo civile non hanno conosciuto e non conosceranno mai la «fame». Il volto oscure e indimenticabile della «miseria» assoluta che s’incontra nel Sud-Est asiatico, tra i pescatori del Mar della Cina che portano i vecchi sessantenni a morire sulla montagna per liberarsi di bocche inutili; presso gli aborigeni dell’Australia che si cibano di lucertole quando il paese è il primo esportatore di carni nel mondo (ma ecco la «carità» elargita nei campi chiusi dal filo spinato); nella bowery di New York, dove si muore agli angoli delle strade; nell’America Latina, nel Messico, nl Brasile, nello Yucatan dove  i chicleros sono sfruttati dalla case produttrici di gomma da masticare; nelle tane degli indiani del Colorado; tra i pescatori del lago Titicaca pagati con le teste e le interiora dei «loro» pesci; nelle capanne dei dieci milioni di poveri dei monti Appalachi e nel Sertao Brasiliano; a Refice, dove l’uomo fruga tra la melma dei rifiuti e degli escrementi alla ricerca dei granchi commestibili; nell’Africa che giunge al traguardo del 2000 dopo secoli di colonialismo, e dove l’apartheid contro dodici milioni di negri non è che un «espediente economico»; in India, dove la carestia perenne ma non solo quella, ha trasformato il paese in un inferno, e dove la lebbra che dilaga sarebbe curabile ed estinguibile se soltanto si rinunciasse, con un volo «di fantasia», alla costruzione di qualche decina di carri armati.

Ma questo film sarebbe del tutto inutile –sottolinea il commento– se non contribuisse a fermare la morte per inedia di ottocento bambini che muoiono nell’arco di tempo di un’ora e mezzo di proiezione.
Il film di Scotese è la testimonianza appassionate, non pietosa, della mostruosità umana, del disumano che alberga nel cuore dell’uomo civile che vive in un mondo assurdo certo modificabile ma a patto che questa rivoluzione degli affamati, superando i miti nazionalistici per non essere velleitaria, unisca tutti i «sopravvissuti» del mondo nel loro grido acutissimo lanciato contro le pareti levigate delle fortezze del capitalismo la cui violenza rende infiniti i volti dell’integrazione. Il pane amaro –un documentario a colori sconvolgente soprattutto per la potenza e l’espressività delle immagini, per un montaggio a contrasto accorto e sottile, e per un commento (di L. Doddoli e G. Scotese) limpido, quasi poetico, a volte disperato ma non metafisico, anzi spesso decisamente ironico e demistificatorio– termina con l’agonia di un bimbo, divorato dalle piaghe e dalla fame sulla stuoia di una capanna desolata; il rovescio reale della favola evangelica”. [Vice, Prime – Il pane amaro, L’Unità, mercoledì 15 maggio 1968, pagina 9].
Il commento del quotidiano comunista era al limite dell’entusiasmo, per quello che è, indubbiamente, un film meritevole. Eppure, come titolo, Il pane amaro, e volendo vedere anche il nome dello stesso regista, Giuseppe Maria Scotese, non sono ricordati con la dovuta considerazione. Imprescindibile, in questo senso, l’opera di Daniele Aramu, a cui si deve, tra le altre cose, il già citato articolo Apocalisse domani, pubblicato sul Nocturno Book n.9 – Mondorama e dedicato appunto al regista marchigiano con tanto di intervista. Per quel che riguarda la considerazione attuale, Il Farinotti 2017, Dizionario di tutti film, cita Il pane amaro senza dilungarsi in alcun commento, e gli affibbia tre stellette, che equivalgono al giudizio «film più che discreto, di buon successo popolare». [
Pino e Rossella Farinotti, Il Farinotti 2017, Dizionario di tutti film, alla voce Le vergogne del mondo - Il pane amaro]. Scotese fu molto orgoglioso di Il pane amaro, arrivando a definirlo “il film più importante della mia vita di uomo di cinema” [Daniele Aramu, Apocalisse domani, Nocturno Book n.9 – Mondorama, Nocturno Edizioni, Milano pagina 28], ma, nel complesso, la pellicola ottenne un riscontro di pubblico inferiore agli altri Mondo movie di successo. Il regista, per la verità, nella citata intervista pubblicata su Mondorama, parlò di “enorme successo” [ibidem, pagina 31], ma, sempre sullo stesso speciale di Nocturno, troviamo una dichiarazione di senso opposto di Guido Guerrasio, che sostenne che Il pane amaro avesse fatto perdere un sacco di soldi. [Daniele Aramu, Io, Moravia, e le tribù italiane, Nocturno Book n.9 – Mondorama, Nocturno Edizioni, Milano pagina 35
].
Quello che più conta, ormai, è che Il pane amaro sia un film da riscoprire e far conoscere, per il suo valore di denuncia sociale più che il suo interesse artistico. Nonostante siano passati più di cinquant’anni, si è mantenuto, malauguratamente, fin troppo attuale.



martedì 5 marzo 2024

MONDO CANE

1448_MONDO CANE. Italia, 1962; Regia di Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi.

Il folgorante esordio in regia di Gualtiero Jacopetti, affiancato da Franco Prosperi e Paolo Cavara, fu un successo clamoroso, totalmente inatteso, in tutto il mondo. Può sembrare strano, oggi, ma al tempo della sua uscita Mondo Cane ebbe, nel complesso, un positivo riscontro anche dalla critica, almeno stando alle parole dello stesso Jacopetti [intervista trasmessa da Rai Cinema World e visibile su YouTube]. In base a quanto dichiarato dal giornalista/regista, perfino Dino Buzzati, punta di diamante del Corriere della Sera, espresse un giudizio positivo e sono comunque un dato di fatto la considerazione che il film ottenne nei vari festival cinematografici. Candidato in concorso a Cannes per la Palma d’oro, fu in lizza anche agli Academy Awards, ai Grammy Awards e ai Laurel Awards, in questi casi per l’eccezionale musica di Riz Ortolani, Nino Oliviero e Norman Newell. A Taormina, ai David di Donatello, Mondo Cane si prese la soddisfazione di vincere il premio alla Miglior Produzione. Tuttavia la critica fu molto severa con il film, e, negli anni, si inasprirà ancor più. Restando a Morando Morandini, e al suo già citato Il Dizionario dei film 2003, Mondo Cane è “immorale, perché falsifica la realtà, la corregge a scopi spettacolari, (…) film ignobile, di grande successo”. Qui, per la verità, sorge un dubbio: se ci atteniamo a quanto dichiarato da Jacopetti, ad esempio nell’intervista già presa in esame e reperibile su YouTube, il materiale che compone il film è tutto genuino; semmai ci sono degli aggiustamenti in sede di montaggio. Per quanto non si debba mettere in discussione la veridicità delle parole di nessuno, si può anche comprendere che qualche passaggio del film sia stato preparato ad arte per l’occasione. Tuttavia, nel suo complesso, l’opera sembra davvero essere composta da scene che, per la maggior parte, siano reali. Alcune sequenze sarebbero, oltretutto, difficili da realizzare da uno studio di produzione cinematografica, e possiamo immaginare che credito, in termini di budget, possano aver avuto tre esordienti in regia. Eppure i critici sembrano sicuri: Mondo Cane falsifica la realtà, tanto che diverrà il riferimento per un genere di film nuovi, i citati mondo movie, che vengono abitualmente definiti pseudo-documentari. Il problema è che, pur partendo dal vitale presupposto che non bisogna mai prendere per oro colato quello che vediamo sullo schermo –perfino in un documentario, figuriamoci in un’opera che la critica presenta come pseudo-documentario– guardando la pellicola oggi, l’affermazione di Jacopetti, “Mondo Cane è tutto genuino” [cit. Gualtiero Jacopetti, nell’intervista reperibile al link riportato in precedenza] sembra più attendibile della valutazione di Morandini. Intendiamoci: non è che la breve recensione del critico sia del tutto inesatta, Mondo Cane fa del sensazionalismo la sua cifra stilistica, questo è evidente. “La scoperta dell’insolito e la rappresentazione della crudeltà non possono prescindere dal rispetto per l’uomo” scrive ancora il Morandini ed è forse qui che, il critico, cerca di mettere a fuoco il problema. Ma se il film, nella sostanza, è attendibile, come sostiene Jacopetti, allora non è un problema del film ma delle realtà che il film descrive. Se, viceversa, il film racconta un mucchio di fandonie, che gli autori sono stati bravissimi ad assemblare dando l’idea di realismo, allora si tratta di un banale film di finzione. 

Ci sono decine, anzi, centinaia, di esempi di film che sostengono di essere tratti da episodi veri e che, al contrario, sono del tutto fittizi. E poi c’è perfino Orson Welles che, nel suo adattamento radiofonico The War of the Worlds, spaventò mezza America, che credette davvero che stessero arrivando gli extraterrestri; ma nessuno si sogna, per questo, di stroncare il geniale autore statunitense. Allora, cos’è che non va, in Mondo Cane? L’utilizzo strumentale delle immagini? Il commento –del mitico Stefano Sibaldi, uno dei maestri del doppiaggio italiano– a tratti quasi beffardo, e, forse, per questo, interpretabile come poco rispettoso? Curioso che, nel caso, sostanzialmente nessuno se ne accorse al momento dell’uscita nelle sale. Se diamo retta ai censori, a suo tempo, Mondo Cane non ebbe infatti tutte queste noie. Stando a Jacopetti, i problemi principali furono di natura politica e legati alla scena in cui veniva inaugurata una statua dedicata all’attore Rodolfo Valentino in quel di Castellaneta, paese natale del celebre interprete. Alla cerimonia furono chiamati a presenziare Sua Eccellenza l’Onorevole Alberto Folchi e il Sottosegretario allo Spettacolo Gabriele Semeraro; ironia della sorte, Folchi era appunto il Ministro del Turismo dello Spettacolo, proprio l’organo che si occupava della censura, e Jacopetti e company dovettero fare un passo indietro e accontentarsi del sottosegretario. Pare, infatti, che con l’aiuto di una musica al ritmo di tango, l’eloquio del politico risultasse leggermente umoristico e la cosa non fu particolarmente gradita ai revisori del ministero. In realtà, stando ai documenti della Censura [reperibili sul sito Cinecensura.com] la Cineriz, la casa di produzione, dovette fare anche altri interventi. Venne tolta la scena con protagonista una prostituta, furono tagliate le parti più efferate dove venivano uccisi alcuni maiali a colpi di bastone, vennero alleggerite le immagini più sanguinanti dei “Vattienti”, di Nocera Terinese, in provincia di Catanzaro, oltre alla citata eliminazione di ogni riferimento all’onorevole Folchi. 

Tuttavia, a parte la scena della prostituta –che, peraltro, pare non fosse niente di particolare, mostrava mutande e giarrettiere– l’attenuazione delle citate scene non rende quei segmenti narrativi poi molto meno significativi. E, comunque, ci sono altri spezzoni, che sono ugualmente “forti”: la decapitazione dei tori nel Nepal e, per restare in tema bovino, la Festa del Colete Encarnato a Vila Franca de Xira, in Portogallo. In questa singolare corrida i tori vengono affrontati a mani nude, prima da rappresentanti dei proletari e poi dei nobili, con esiti particolarmente tragici. Anche la vendetta dei pescatori malesi contro gli squali, rei di aver ucciso un ragazzo e puniti facendogli ingoiare ricci velenosi, lascia esterrefatti per la crudeltà mostrata senza reticenza. In ogni caso, non è l’efferatezza delle immagini a condizionare negativamente il giudizio della critica italiana che ha stroncato senza appello Mondo Cane. Quello che scandalizza, nel film di Jacoppi, Prosperi e Cavara, è che gli autori utilizzino strumentalmente le immagini per mostrare come, ad ogni latitudine, il mondo sia violento e, sostanzialmente, senza speranza. Nel 1962, con l’Italia ancora nel boom economico, la cosa poteva stupire ma, a conti fatti, visto il successo e le scarse noie con la censura, evidentemente, il film poteva essere accettato come interessante punto di vista inusuale. Quando la rivoluzione sessantottina sgombererà definitivamente il campo dalla vecchia e stanca ideologia dogmatica per sostituirla con l’ottimismo ancor più dogmatico di cui era intrisa, cominciarono i problemi. Mondo Cane usa il metodo di mostrare le lacune delle società considerate meno evolute per evidenziare come, di fondo, non ci siano poi tutte queste differenze con la progredita società occidentale. Se la critica al capitalismo, era certamente condivisa dall’intellighenzia italica, questa aveva, e ha, evidentemente necessità di credere nella teoria del “buon selvaggio” per giustificare le proprie convinzioni. 

Forse, in questo modo è possibile attribuire al capitalismo tutte le colpe, confrontando le ingiustizie della moderna società con una visione edulcorata di una fantomatica età dell’oro del passato, che si deve giocoforza abbinare a tutte quelle culture che il capitalismo non ha ancora del tutto corrotto. La conseguenza di questa teoria è la legittimazione di una regolamentazione ferrea che vada a compensare, a suon di codici e leggi, ogni minima sfumatura della vita quotidiana. In sostanza, la società del 2024, dove l’onnipresente Politicamente Corretto è alla costante e frenetica ricerca di ogni possibile alterazione del livellamento, intesa sempre e comunque come ingiustizia, in ogni campo e materia, sociale, culturale, sessuale, ecc. ecc. Queste cose, oggi, si stagliano in modo certamente più limpido, anche per via del clamoroso fallimento di teorie come la globalizzazione, che sono state il frutto di questo modo omologato di pensare. Ai tempi della Contestazione Sessantina, il futuro era ancora da scrivere e l’idea che il comunismo –magari in una versione illuminata, d’accordo– fosse l’inevitabile Destino a cui sarebbe andata incontro l’Umanità, una volta superato il periodo barbaro del Capitalismo, era ancora assolutamente saldo. Se erano accettabili, in un certo senso, le posizioni più reazionarie, di destra o clericali, perché facilmente criticabili come semplici tentativi di difendere il privilegio, un testo come Mondo Cane dava davvero fastidio. Si poteva definire di destra –o fascista, com’era ed è, in uso dire in Italia qualunque cosa non rientri nel concetto accettato come progressista– il lungometraggio? Difficile, perché lo scopo di Jacopetti, Prosperi e Cavara è proprio quello di mostrare come, nonostante le apparenze, non ci sia sostanziale differenza tra il mondo cosiddetto civilizzato e le altre culture più primitive o naturali, che dir si vogliano. 

Certamente Mondo Cane non era nemmeno di sinistra, proprio per il suo essere senza speranza o, almeno, non mostrare un avvenire splendente giusto dietro l’angolo, come invece si auspicavano i comunisti et similia. Il documentario –o lo pseudo-documentario, se diamo retta ai suoi detrattori– non ha, per la verità, una connotazione politica così scontata, ma fu probabilmente osteggiato per questo motivo, per il suo essere scomodo per l’élite culturale del Belpaese. Mondo Cane critica la moderna società e il capitalismo, ma senza dare la sponda alle idee rivoluzionarie, per cui era indispensabile l’apologia delle culture alternative. E questo può anche essere un limite, del lungometraggio, sia chiaro; ma un limite onesto. Non c’è motivo di essere ottimisti, sembrano dire gli autori, e quindi non lo furono. Sono passati sessant’anni e si può anche dire, per altro, che non è che avessero tutti i torti, in questo senso. Tuttavia Mondo Cane è, al netto della questione politica che gli costò la pessima fama che l’accompagna, tecnicamente un capolavoro. Innanzitutto si basa su un’idea geniale: perché inventarsi storie di finzione, quando nel mondo esistono innumerevoli spunti reali –se prendiamo per buone le parole di Jacopetti– che possono reggere già da soli un lungometraggio? A questo punto, la maestria degli autori subentra alla genialità, perché poi è il superbo montaggio a trasformare nell’eccellente film i vari segmenti raccolti in giro per il mondo. Il montaggio, ovvero l’anima stessa del cinema, è, in Mondo Cane, l’arma vincente, unitamente alla musica. Certo, anche la fotografia, di Antonio Climati e Benito Frattari, o gli ironici testi recitati da Sibaldi, sono di ottimo livello, ma insieme al lavoro in sala taglio, è la colonna sonora di Riz Ortolani e Nino Oliviero a fare davvero la differenza. 

Celeberrima la traccia più nota, divenuta famosa con il titolo Ti guarderò nel cuore: nella colonna sonora è in realtà intitolata Models in blue/Modelle in blu, facendo riferimento ad uno dei segmenti narrativi di cui è composto il film. In seguito, visto il dilagante successo, la versione inglese intitolata More, con il testo composto da Norman Newell, dopo essere divenuta uno standard in uso ai jazzisti, venne incisa perfino da Frank Sinatra. Tuttavia, il brano forse migliore che si può ascoltare nel film, che accompagna ed esalta il passaggio più importante e riuscito del lungometraggio, non è clamorosamente inserito nella Colonna Sonora Ufficiale. Siamo verso la fine di Mondo Cane, gli autori hanno già fatto capire i loro intenti, anche se hanno in canna un paio di momenti mica da ridere, quello dei tori decapitati e la loro successiva “vendetta” portoghese, ma non solo. In ogni caso, Jacopetti e compagni decidono di inserire un segmento leggero, che non è certo l’unico, sia chiaro: siamo alle Hawaii, dove i vecchi americani, ad occhio tutti rigorosamente WASP (White Anglo-Saxon Protestant), si concedono una vacanza. Qui scopriamo le assai presunte proprietà terapeutiche della Hula, la danza polinesiana in voga nell’arcipelago, di cui vediamo un rapido saggio della danzatrice più brava, capace, stando al narratore fuori campo, di guarire anche dalla poliomielite a furia di ballare. Per quanto sia evidente che il ballo e il movimento siano salubri, nel suo tono enfatico il passaggio è bonariamente ironico, ed è abbastanza chiaro. L’inquadratura si sposta quindi sul pubblico di vegliardi americani, che applaude convinto l’esibizione delle danzatrici; poi, arriva il loro turno. La voce di Sibaldi si fa particolarmente melliflua e, al tempo stesso, graffiante. “Hanno applaudito, si sono divertiti e commossi, proprio come era scritto nel programma”. E già arriva la prima zampata, quasi che, per l’americano, l’uomo moderno per definizione, la commozione sia un sentimento pianificabile.

 “E ora che il programma prevede una lezione di Hula, vanno ad imparare la Hula, docili e tranquilli”, continua Sibaldi, e quel “docili e tranquilli”, siamo negli anni Sessanta, associato a degli statunitensi, è quantomeno ambiguo. Mentre la musica melodica della Hula si fa via via più intensa, gli anziani in vacanza, uomini e donne, si alzano uno dopo l’altro dalla tribunetta per partecipare alla danza. Sibaldi riprende il commento convinto: “crede nella Hula, in sé stessa, nella propria e nell’altrui felicità, questa candida generazione che ha lavorato sodo in gioventù e si permette un po’ di massacrante riposo soltanto al primo insorgere dei reumatismi”. L’ironia del commento sembra alleggerirsi, divagando sulle faticosità delle vacanze o sull’ottimismo tipicamente yankee, ma Jacopetti e compagni, in realtà, stanno preparando il terreno. “Crede ancora in questo ex paradiso tropicale che essa stessa ha distrutto” boom! qui gli autori arrivano dritti al punto, accusando ancora gli States della loro politica, dopo che, in precedenza, erano stati mostrati anche gli effetti degli esperimenti radioattivi nelle isole dell’Oceano Pacifico. Ma qui la critica è più feroce ed efficace, perché non è associata a qualche organismo politico o militare, ma a degli, all’apparenza, innocui anziani. “E dove oggi l’unica, vera, genuina, danza indigena, alla quale si può ancora assistere, è questa” e su queste parole, gli arzilli vecchietti cominciano ad ancheggiare seguendo pedestremente, o provandoci, i movimenti dell’attempata maestra hawaiana. Il finale del commento per questo segmento narrativo è solo fintamente indulgente: “l’unica, vera, genuina, danza indigena” sottintende che le manifestazioni degli isolani siano ormai mercificate e unicamente turistiche nel senso negativo del termine. Di contro, i maldestri e sgraziati movimenti degli anziani americani hanno davvero qualcosa di autentico: la loro goffaggine nel ballare, nel “sentire” la musica, in buona sostanza, l’incapacità di capirla. Un’incapacità che, come risultato, permette loro di ritenersi superficialmente ma sinceramente soddisfatti e appagati del loro rozzo e posticcio scimmiottamento privo di qualsivoglia vera e autentica emozione. Una contraddizione emblematica. Ad aiutare magistralmente il concretizzarsi di questa feroce disamina, la musica strepitosa di Ortolani e Oliviero trasforma la soave musica hawaiana in una sorta di marcia sinfonica che, nella sua maestosità, celebra la razza dominante del pianeta, gli anziani americani. “Ma non sono che vecchietti che ballano fuori tempo!” verrebbe da obiettare. È invece qui, è in questo passaggio, che Mondo Cane rivela tutta la sua grandezza: si vedano i recenti presidenti USA, e le loro politiche, per cogliere la lungimiranza di Jacopetti, Prosperi e Cavara. 




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