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sabato 27 gennaio 2024

LA VERA STORIA DI JESS IL BANDITO

1428_LA VERA STORIA DI JESS IL BANDITO (The true story of Jesse James). Stati Uniti 1957; Regia di Nicholas Ray. 

A quanto risulta, non solo è lecito dubitare della veridicità storica di La vera storia di Jess il bandito, di Nicholas Ray ma, quella che vediamo sullo schermo, non è nemmeno la vera resa cinematografica che avrebbe voluto il regista. Per quel che riguarda la verità storica, nonostante sia evocata dal titolo, occorre tenere presente che si tratta comunque di un’opera di finzione e non un resoconto documentaristico. Piuttosto dispiace aver visto naufragare il vero ambizioso progetto di Ray che, pare, prevedesse una complicata ma affascinante struttura narrativa con un uso inconsueto dei flashback. Secondo la volontà del regista, i salti temporali all’indietro dovevano essere inseriti senza stacchi visivamente intuibili e nemmeno posti in ordine cronologico. Sarebbe stata una ballata d’accompagnamento a scandire gli spostamenti temporali nella narrazione: il ritornello avrebbe segnato il flusso del presente, le strofe i tuffi nel passato della storia. Purtroppo la produzione tolse di mano il montaggio finale a Ray virando su scelte più tradizionali: i flashback sono riordinati cronologicamente e introdotti da alcuni fotogrammi vagamente onirici. Una soluzione banale, quest’ultima, e anche un po’ kitsch che, oltretutto, stona in un western nel complesso certamente innovativo e originale ma, al tempo stesso, ancora abbastanza tradizionale. In effetti, il riferimento alla vera storia è da prendere con le molle, visto che Ray si rifà più che altro al precedente Jess il bandito, film del 1939 di Henry King; un western addirittura antecedente all’epoca classica del genere. 

Pochi giorni dopo al film di King, uscì nelle sale americane quell’Ombre Rosse che sancì i canoni classici del western al cinema; si tratta di un battesimo simbolico, ovviamente, ma è interessante notare come i protagonisti dei due film fossero fuorilegge. Nel western, quindi, lo sguardo alternativo, quello dalla parte di banditi e ribelli e tipico di Ray, trova facilmente asilo sin dai primordi: se i fuorilegge erano certo di moda nei western precedenti al boom dei film coi cowboy, che arrivò negli anni 50, erano anche protagonisti nell’opera che è da sempre abitualmente considerata la pietra angolare del genere. Del resto, nei film sulla conquista del west, il cowboy, il pistolero, anche quando non è un fuorilegge, è un personaggio fuori dagli schemi; se non altro perché questi non c’erano: l’ovest era definito selvaggio proprio per mancanza di leggi e regole. In ogni caso Jesse James, perlomeno il Jesse James dello schermo cinematografico, si presta bene alla poetica di Nicholas Ray; con il risultato che La vera storia di Jess il bandito è un film tutto sommato non troppo diverso da altri western, almeno a prima vista. 

Tra l’altro, la matrice sudista del personaggio, che evocava le ruggini della Guerra Civile americana, lo poneva sempre in un’ottica eroica da una parte, tollerata per quieto vivere dall’altra. In realtà, anche il solo fatto di essere stati membri della banda Quantrill, poneva James e i suoi scagnozzi nella lista dei più feroci criminali. Ma questa sarebbe la vera Storia del personaggio storico; al contrario, Ray, ci parla della vera storia di un personaggio del cinema, il Jesse James dei film. Questa sottile differenza è cruciale per guardare nell’ottica giusta La vera storia di Jess il bandito. Al di là dell’aspetto tutto sommato consueto, il film di Ray presenta alcune particolarità interessanti, a partire dalla rapina andata in malora con cui comincia la pellicola. Il raccolto filmico comincia in media res, e solo grazie ai successivi flashback possiamo comprendere meglio la dinamica dell’accaduto. Questo sfasamento temporale, questo raccontare saltando i preliminari ma andando subito al sodo, (ovvero il fallimento della rapina), è possibile e agevole proprio perché quello di Ray è un remake di un film famosissimo, e quindi è nota la vicenda e anche la fine che farà James. 

In sostanza tutto quanto il film può essere inteso come un enorme flashback, in quanto lo spettatore è già facilmente a conoscenza dei fatti della storia e del suo epilogo. E’ forse questo il senso di quel The true story of Jesse James; si gioca quindi in parte con l’ingenuità degli spettatori che ancora credono nell’attendibilità storica del cinema di finzione ma, più che altro, si fa esplicito riferimento ad un'altra storia di Jesse James. Quella non vera, ovvero, quella raccontata nel citato Jess il bandito. Un modo per garantirsi, da parte di Ray, che lo spettatore possa aver già presente il plot narrativo di base, su cui introdurre alcune variazioni. Che non sono tanto vere in senso storico, quanto certamente interessanti. Ad esempio la dinamica della rapina, con alcune scene che aggiornano e migliorano quelle originali del film di King, e che verranno riprese addirittura negli anni 80 da Walter Hill in I cavalieri dalle lunghe ombre tanto sono moderne, come taglio: su tutto il fango per la strada e la violenza degli scontri. E poi, l’assenza di morale, da parte dei James. Jesse James (Robert Wagner), il protagonista del film, è davvero un rebel without a case, un ribelle senza una causa, una ragione, come recitava il titolo originale di Gioventù bruciata (dello stesso Ray, 1955). Solo che lo è in modo letterale; vero. Gli alibi che porta, infatti, sono assai scarni; in Jess il bandito anche solo l’incipit legittimava la scelta criminale dei James, con l’esproprio delle proprietà e l’uccisione della madre; e poi c’era anche il tradimento da parte delle autorità nei confronti di Jess. 

Tutto sommato Ray, su questi aspetti, opera davvero in modo più veritiero rispetto al precedente film di Henry King, ma questo non torna a vantaggio di Jesse James. I nordisti irrompono a casa James, nel primo flashback del film di Ray, ricercando Frank (Jeffrey Hunter), fratello di Jesse e aggregato alla banda Quantrill. La banda Quantrill era un gruppo di irregolari che si macchiò delle peggiori infamie; Ray non si sofferma su questo aspetto, ma non ci sono altre interpretazioni. Frank, e poi anche lo stesso Jesse, furono quindi irregolari di Quantrill e non soldati nella confederazione sudista. Ribelli, certo, e questo sarà piaciuto a Ray, ma della peggiore razza. In ogni caso, Ray è molto scrupoloso, in questo passaggio, i suoi nordisti hanno un atteggiamento pilatesco: si limitano ad interrogare Jesse, ma è il vicino di casa a prenderlo a cinghiate. Ma era già stato evidenziato dallo stesso James che non correva buon sangue tra loro; e sarà ancora il vicino a compiere la razzia con l’impiccagione di Hughie, reo di essere anch’egli uno della banda Quantrill. Non uno stinco di santo, evidentemente. Per cui, gli elementi più forti, presenti nel film, tra quelli che spingono i James sulla cattiva strada, sono legati a ruggini tra vicini, e non tanto all’intervento nordista. Tra l’altro, sempre il solito vicino accusa direttamente la madre dei James di essere una famiglia di sostenitori degli schiavisti, e la donna non ha la capacità di replicare alcunché. I presupposti che classicamente vengono ritenuti alla base della decisione dei fratelli James di divenire fuorilegge, ovvero i soprusi e le ingiustizie inflitte loro dai nordisti a guerra civile finita, Ray si limita a farli emergere dai dialoghi, non sono nemmeno cinematograficamente resi sullo schermo. Insomma, non ha alibi credibili, il suo Jesse James; lo vediamo fare la bella vita con Zee (Hope Lange), con i soldi provenienti dalle rapine, ma non palesa mai l’ombra di un rimorso, nemmeno per i tanti morti che lascia sul suo cammino. Chissà, forse Ray amava Jesse James proprio per il suo essere ribelle senza una valida motivazione; ma, a differenza di altri personaggi dei suoi film, Jesse non è un individuo sofferto, combattuto. Ed è in questo aspetto che traspare, quasi controluce, quasi sottotraccia, l’ombra di quella verità reclamata dal titolo del film: Jesse James non era un ribelle, ma un volgare criminale. 





Hope Lange




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giovedì 25 gennaio 2024

PRIMA LINEA

1427_PRIMA LINEA (Attack!). Stati Uniti 1956; Regia di Robert Aldrich.

In un film bellico ci si aspetterebbe una battaglia tra i nostri e i nemici; in fondo è quella la guerra in oggetto al lungometraggio, uno scontro armato tra due eserciti avversari. Con Prima Linea il regista Robert Aldrich scombina un po’ le carte, e presenta una storia ambientata si in Europa nel 1944, (per la precisione nella zona delle Ardenne), e quindi nel bel mezzo del fronte europeo occidentale della Seconda Guerra Mondiale, ma il conflitto tra gli americani protagonisti del film e i tedeschi, rimane un po’ sullo sfondo. La vera guerra, il vero scontro, è tutto interno alle truppe americane, ed è originato dalle logiche opportunistiche che determinano le gerarchie di comando. Il punto cruciale è che il capitano Cooney (Eddie Albert) è un codardo incompetente e raccomandato, e con la sua viltà causa la morte di una quindicina di uomini, abbandonati al fuoco nemico. Il tenente Costa (un allucinato ma eroico Jack Palance), il valoroso ufficiale che ha visto decimato i suoi uomini, se lo vorrebbe mangiare vivo, ma si limita a minacciarlo apertamente di morte. Il che è un fatto inaudito in un film di guerra degli anni 50. Il tenente Woodruff (William Smithers) è anch’esso convinto che Cooney sia inadeguato, cosa del resto palese e condivisa da tutta la truppa, ma è assai più moderato e ligio al regolamento, e si limita a cercare di fare destituire il suo superiore. Così ne parla al tenente colonnello Bartley (il sempre valido e ambiguo Lee Marvin), che però è amico dell’influente padre di Cooney, e per la sua carriera necessita che il capitano non venga screditato. Così per l’arrivismo di Bartlett e la vigliaccheria di Cooney ci vanno di mezzo i poveri militari, che vengono spediti al macello senza troppi patemi d’animo. Il film è girato con uno stile minimalista da Aldrich, che si limita ad un’opera secca e senza fronzoli, con scene di battaglia crude e realistiche, magari non eccessivamente spettacolari ma di sicura efficacia. Il regista statunitense costruisce tutta la storia per arrivare alla scena madre finale, una resa dei conti che vede Cooney affrontato da un delirante Costa in un primo momento, a cui subentra anche Woodruff, costretto, dalle circostanze, a prendere una drastica decisione. Cooney vuole vigliaccamente arrendersi, nonostante sappia che le SS non facciano prigionieri, e inoltre uno degli americani sopravvissuti è di origine ebrea, e quindi passerebbe guai poco raccomandabili in mano agli aguzzini tedeschi. Alla fine sarà proprio il moderato Woodruff a portare a termine la minaccia paventata da Costa; ma uccidere un superiore non è un fatto che può lasciar in pace la coscienza di un uomo corretto come il tenente. Gli uomini della truppa, per cercare di smorzare i sensi di colpa dell’ufficiale, arrivano a sparare al cadavere del capitano Cooney, cercando di convincere Woodruff che non può sentirsi l’unico colpevole, in quanto il superiore avrebbe anche potuto essere ancora vivo, seppure moribondo. E’ un passaggio un po’ forte, perché l’accanimento di sparare ripetutamente su un cadavere ha un che di blasfemo, di oltraggioso, anche in guerra. Poi arriva il tenente colonnello Bartley, che prova a sistemare opportunisticamente tutto, decorando con una medaglia al valore i caduti Cooney e Costa, e promuovendo sul campo Woodruff. Soluzione di cui trarrebbe i maggiori benefici: per la sua compagnia un’operazione militare conclusa con successo, due ufficiali decorati e uno promosso sul campo. Sembra un bel colpo, per la carriera militare del tenente colonnello.
Coscienza di Woodruff permettendo.
E la telefonata del tenente al generale che chiude la pellicola, ci dice che non sembra dell’idea.   
 








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martedì 23 gennaio 2024

L'ULTIMA CAROVANA

1426_L'ULTIMA CAROVANA (The Last Wagon). Stati Uniti 1956; Regia di Delmer Daves.

1873 Territorio dell’Arizona, recita la scritta in sovraimpressione all’immagine di un fiume che scorre tra le rosse montagne del sudovest degli Stati Uniti. C’è un uomo a cavallo che si appresta al guado; un carrello arretrato della macchina da presa allarga l’immagine e compare sullo schermo, più vicino a noi, un altro uomo, vestito di pelle. Anche di spalle, riconosciamo subito la chioma bionda di Richard Widmark. Il suo nome e le sue immagini sono su tutti i manifesti e locandine del film: è, infatti, l’attore principale di questo L’ultima carovana, regista Delmer Daves. Nemmeno il tempo di chiedersi cosa mai potrà fare il protagonista del nostro western, acquattato come un volgare brigante, che questi carica il fucile e spara. L’uomo nel fiume è colpito ma si regge ancora; Widmark carica e spara ancora, finendo il lavoro: è evidente in tutta certezza che l’uomo abbia sparato per uccidere a sangue freddo. A chi fosse ancora, in qualche modo, incredulo, Daves regala un primo piano sul volto dell’attore, che non lascia alcun dubbio: quello andato in scena è un brutale assassinio. Questo è il folgorante inizio, poco più di un minuto, del western L’ultima carovana di Delmer Daves, regista mai banale a cui dobbiamo alcuni notevoli esempi del genere, Vento di terre lontane, Rullo di Tamburi, L’amante indiana, solo per citare i titoli al tempo più recenti. Dopo questo spiazzante incipit, il personaggio interpretato da Widmark, Comanche Todd, ha tempo di riscattarsi, almeno alla sua maniera, e si guadagna, in ogni caso, meritatamente il ruolo principale nella storia. Fatto prigioniero da uno degli sceriffi che lo inseguiva, viene aggregato ad una carovana dove, in seguito ad un attacco degli Apache, sopravvive insieme a pochi giovani ragazzi. Una volta libero, l’uomo si prodiga per portare gli inesperti sopravvissuti in salvo, e qui comincia la sua risalita morale, visto che gli sarebbe stato più agevole pensare solo a sé stesso. 

Tra l’altro, alcuni di loro non sono affatto convinti della sua onestà, avendolo conosciuto in catene e avendone visto la spietatezza con cui elimina con un’accettata lo sceriffo che lo teneva prigioniero. La durezza di Todd si rivela però utile ai fuggitivi, allorché l’uomo convince i ragazzi a non seppellire i cadaveri dei membri della carovana: quella che sembra una barbarie di un uomo cresciuto tra i Comanche, questa l’origine del suo nome, è invece una pianificata strategia di fuga. Seppellire i morti avrebbe rivelato ad eventuali Apaches di passaggio che nella carovana c’erano stati superstiti, finendo per mettere gli indiani sulle loro tracce. Lasciare i cadaveri dov’erano, dava invece qualche chance ai fuggitivi di filarsela alla chetichella. Questo non solo è un passaggio interessante e ben costruito della trama, sia dal punto di visto avventuroso che dei rapporti interni al gruppo, ma aiuta a comprendere, se non a giustificare, il comportamento di Todd in avvio di pellicola. Il suo essere spietato, il suo uccidere senza remore, il suo lasciare i cadaveri senza sepoltura, deriva da un’educazione diversa dalla nostra, dove farsi certi scrupoli può costare molto caro. Nel finale, quando l’uomo finisce sotto processo, saranno aggiunte altre motivazioni al suo comportamento certamente censurabile: in precedenza quegli sceriffi ne avevano ucciso e brutalizzato moglie e figlio. É evidente che il fatto che un eroe di un film western si renda protagonista di simili violenze è dura da digerire, e questi ultimi potrebbero essere tentativi di indorare la pillola; ma il vero intento di Daves sembra un altro. 

Todd è un uomo bianco –di più, è un attore famoso come Richard Widmark– e quindi agevola il processo di identificazione del pubblico. Il target del cinema classico hollywoodiano era, infatti, il pubblico americano, tipicamente la maggioranza di etnia caucasica. La forza persuasiva di questo cinema fu tale da rendere i suoi modelli validi un po’ ovunque, basti pensare all’effetto colonizzante che Hollywood ebbe su un paese latino e peculiare come l’Italia, ad esempio. Non è quindi affatto difficile identificarsi con il personaggio di Richard Widmark, del resto l’abbiamo fatto tante altre volte. Ma questa volta Todd rappresenta le azioni dei pellerossa, in fondo l’uomo è un Comanche, che ai nostri occhi appaiono crudeli e ignobili. Quello che ci chiede di fare Daves è, quindi, provare a ragionare, a pensare, come un indiano: a quel punto, forse, quei comportamenti, per noi certamente riprovevoli, potranno risultarci meno estranei. Moralmente condivisibile o meno, questa presa di posizione del regista è da ammirare nell’intento di migliorare la reciproca convivenza tra popoli e culture differenti. Mettere in dubbio l’infallibilità della morale della cultura occidentale, in un western classico. Ovvero il genere che, come scopo, aveva proprio l’opposto: spacciare per buoni e giusti i nuovi padroni del mondo. Coloro i quali si erano imposti con la forza, sia in patria –la conquista del west– che in ambito internazionale –le due guerre mondiali– più che con la giustizia e il diritto. Insomma, ancora una volta Daves piega gli stilemi dei generi cinematografici per motivi più nobili, confermando la sua statura morale, superiore a quella, già notevole, cinematografica.







Felicia Farr 



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