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mercoledì 28 settembre 2022

FURORE

1116_FURORE (The Grapes of Wrath). Stati Uniti 1940;  Regia di John Ford.

A vederlo oggi, oltre ottant’anni dopo, ci si può domandare se John Ford ci avesse davvero preso con la sua interpretazione di Furore. E’ una sorta di provocazione, sia chiaro; in ogni caso, dal punto di vista cinematografico, Furore di John Ford è un indiscusso capolavoro, senza tema di smentita. Nel suo film il regista è perfino riuscito ad adattare il romanzo di John Steinbeck senza incorrere nelle accuse di comunismo temute preventivamente dal produttore Darryl F. Zanuck, boss della 20th Century-Fox, mantenendo al contempo la potente critica sociale presente nel testo. Ford aveva uno stile classico e un sobrio lirismo che meglio non avrebbero potuto descrivere l’odissea degli Oakies, gli emigranti dell’Oklahoma, protagonisti del racconto. Il dubbio, se si confronta la prospettiva futura ipotizzata da Ford con l’odierna realtà, è che quello che è definito uno dei testi su una delle pagine più tristi dell’America, nelle mani capaci del regista, pur se rispettato nello spirito sia divenuto addirittura troppo ottimista. Il titolo originale, The Grapes of Wrath, ovvero l’uva dell’ira – con quel riferimento alla successiva vendemmia da grappoli tanto aspri – lasciava intendere che nella storia fosse presente una forma di rivalsa, una ribellione conseguente all’oppressione subita dai contadini del racconto, che motivava i timori di Zanuck. Ford mette però in scena un film dove la rabbia, che pur non può che accumularsi, non tracima mai sebbene il protagonista principale, Henry Fonda nei panni di Tom Joad, sia un personaggio da prendersi con le molle. Introdotto nella storia come ex detenuto per omicidio, nel corso del racconto non si rivelerà affatto un facinoroso – e nemmeno un agitatore a titolo gratuito – ma piuttosto un individuo che, all’occorrenza, non giri la testa dall’altra parte. 

Ma questo, in una situazione come quella degli anni Trenta negli Stati Uniti, faceva di lui quantomeno un piantagrane. I Joad, di cui Tom era uno dei figli, erano mezzadri dell’Oklahoma travolti dalla Grande Depressione a cui si era sommata la più contingente Dust Bowl (letteralmente, conca di polvere). I terreni agricoli, resi aridi da anni di coltivazione intensiva e scriteriata, non producevano più nulla e i proprietari terrieri misero alla porta gli agricoltori. Gli Oakies, come vennero chiamati gli emigranti provenienti un po’ da tutti gli stati delle Grandi Pianure, si spostarono ad ovest, in cerca di lavoro o comunque di un modo per sopravvivere. Nel 1940, anno di uscita del film, Ford era il più grande narratore in circolazione di un’altra emigrazione verso ovest, quella della conquista del west, che celebrava la nascita della nazione americana e lo faceva quasi sempre fondandola sulla famiglia e sulle piccole comunità. Il legame tra l’individuo, in genere sempre centrale nel suo cinema, e la famiglia, la comunità e la terra, anche quando era stata da poco strappata agli indiani, era fondamentale. In Furore Ford fu costretto a confrontarsi con qualcosa che successivamente alla conquista non aveva però funzionato, nella società americana. Nei Grandi Piani, un tempo fertili distese erbose solcate dai bisonti e dai cavalli dei pellerossa, la terra si era disintegrata, trasformata in polvere dalla siccità e dalla suicida politica agraria americana, e i contadini ne pagavano il conto, venendo estirpati come gli indiani prima di loro. Questa analogia non sembra essere colta, dal regista, per la verità, ma è comunque una nota curiosa impossibile da ignorare. Ma, insieme alla terra, ad andare in pezzi, e qui si entra nel vivo del racconto di Steinbeck e Ford, è anche la famiglia, da sempre pietra angolare della comunità nella poetica fordiana

Il regista è formidabile perché sulla base di un racconto asciutto nella sua tragicità– attraverso la natura intrinseca del suo lavoro – esprime in modo solenne la disperazione e la miseria dei protagonisti. Il superbo bianco e nero di Gregg Toland raggiunge lo scopo di evocare le famose immagini fotografiche di Dorothea Lange utilizzando unicamente la luce solare, filmando i campi lunghi e i primi piani della storia in orari differenti per ottenere gli effetti desiderati. Importante anche il ruolo della musica, con il tema Red River Valley, struggente e nostalgico, che aiuta a creare quell’atmosfera di perdita che è uno dei temi del racconto. Ford è rigoroso nella composizione dell’inquadratura sullo schermo riuscendo, attraverso l’uso simbolico delle immagini, a raccontare con un sordo vigore la sua storia, dandole in questo modo maggiore forza evocativa. 

Ad esempio, i rappresentanti delle società proprietarie dei terreni dei mezzadri non appaiono sulla scena a piedi ma sempre dentro automobili o a bordo di caterpillar (che passano sopra le fattorie per abbatterle!) a rappresentare la perdita di umanità di queste persone che altro non sono che piccoli ingranaggi di macchine più grandi. La stessa figura di Fonda, alta e magra, fatica spesso a stare nell’inquadratura, sottolineando la difficoltà del personaggio a rimanere dentro i limiti che la storia gli impone. Il lavoro sui protagonisti della vicenda è notevole e strettamente legato alla composizione delle immagini: l’altro personaggio che funge da coordinata basilare del racconto è Ma’ Joad (Jane Darwell, strepitosa). Lei, in quanto figura materna, è la famiglia. Ed è proprio lei, nel suo assumersi pesi insormontabili come la morte della nonna – che non comunica agli altri per evitare di avere problemi col posto di blocco – a segnare il suo disgregarsi. 

In un film di Ford è inaspettato vedere tanto pessimismo intorno a questa istituzione: Rosasharn (Dorris Bowdon), sorella di Tom, è abbandonata dal marito che si dilegua a fronte della disastrata situazione del clan famigliare. La ragazza è incinta e, a quel punto, l’arrivo di un bambino, in genere al cinema, come nella vita, accolto come una benedizione, diviene un’ulteriore fonte di preoccupazione. Le figure maschili dei Joad, a partire dal padre che è pur interpretato da un attore importante come Russell Simpson, sono marginali; tutto sommato anche i due figli più giovani, un maschio e una femmina, contribuiscono poco a vivacizzare l’armonia famigliare. Significativo che la migliore gag che li veda protagonisti avviene nel campo governativo, quando i ragazzi scoprono i sanitari per la prima volta. A proposito del suddetto campo, a cui approdano i Joad dopo un lunghissimo peregrinare, esso rappresenta l’unica risposta istituzionale positiva a quanto mostrato fino ad allora nel racconto. Per la verità la sua struttura è tanto semplice quanto poco credibile, soprattutto considerando che siamo in America: gli emigranti pagano una cifra minima per alloggiare in edifici confortevoli e poi, come detto, il campo dispone anche di servizi efficienti e igienici; perdipiù la comunità organizza settimanalmente serate danzanti. Vere e proprie feste come in uno dei tipici film di Ford. Un paradiso in terra, rispetto alle abitudini dei Joad e di tanti altri Oakies, a cui pare, in effetti, difficile da credere. 

Purtroppo l’evidente filo-comunismo che contraddistingue questo campo governativo lo rende particolarmente difficile da accettare dalle istituzioni locali che ottengono anche l’appoggio delle forze dell’ordine per ostacolarne la sussistenza. Ovviamente, il capro espiatorio della repressione sarà Tom, vera figura cristologica del racconto. Per la verità la religione è un’altra istituzione di cui Furore celebra il declino, in maniera esplicita nelle parole e simbolicamente nella figura stessa di Jim Casy (John Carradine, al solito bravissimo). L’uomo era il pastore della comunità dei Joad ma, con l’avvento della crisi, aveva perso la vocazione. Più prosaicamente possiamo dire che si stesse semplicemente, mettiamola così, aggiornando. La religione ufficiale, quella a cui faceva riferimento una comunità composta da nuclei famigliari – quella cara a Ford, insomma – non era infatti più adeguata visto le trasformazioni che l’élite economico-politica aveva imposto alla società americana. 

Nel discorso che Tom fa a sua madre, che la donna dice in un primo momento di non capire, c’è il senso politico della risposta trovata da Steinbeck e Ford alla trasformazione in atto: il nostro protagonista si erge infatti a simbolo dell’intero popolo. Non fa riferimento alla sua famiglia o al suo clan allargato ma al popolo, intendendo questo termine in ambito politico, proprio come un moderno Gesù Cristo o, meglio, un sindacalista ideale che interpreti i bisogni della sua classe sociale. La figura di Casy, col suo strampalato carisma anche figurativo – richiesto esplicitamente da Ford all’attore – rafforza il paragone tra Tom e Cristo: l’ex sacerdote è infatti un perfetto Giovanni Battista, colui che apre la via al messia, con la predicazione ma soprattutto battezzandolo – passaggio a suo tempo avvenuto tra Casy e Tom e ribadito nel film. 

Seppure l’ex pastore non ha la forza in prima persona di sopportare il ruolo salvifico, e narrativamente viene levato di mezzo al momento opportuno, è suo il compito di indicare la strada maestra al giovane Joad. Il passaggio chiave è nelle esplicite parole nelle quali Casy rinnega ogni forma di etica o morale assoluta: non ci sono azioni giuste o azioni ingiuste ma solo azioni. Un discorso rivoluzionario e certamente pericoloso – e assolutamente inaspettato scoprire che ci giunga da Ford – ma che serve per sgombrare il campo da quelle infrastrutture morali che sono usate strumentalmente per ingabbiare l’individuo e di conseguenza il popolo. Infatti, se consideriamo le cose da un punto di vista legale, le società finanziarie che sfrattano i mezzadri – che non sono proprietari della terra ma semplicemente coloro i quali la lavorano – hanno sostanzialmente ragione. La Legge è infatti dalla loro parte. 

Ma una Giustizia che permetta a società di speculatori di affamare l’intera popolazione unicamente allo scopo di arricchirsi non può essere considerata giusta. C’è qualcosa che non torna, in questa situazione, e Casy prova a darne una soluzione, svincolando la rettitudine dai consueti concetti di giusto o sbagliato. E’ chiaro che il profumo di comunismo o di qualcosa di simile continua a farsi sentire e forse a scongiurare questo serve il tentativo di dare alla figura di Casy prima e Tom poi quella di una nuova interpretazione religiosa; tuttavia, inevitabilmente, nel racconto i due assumono il ruolo di agitatori se non di potenziali leader politici. Il ricorso alla religione serve quindi a discostare un po’ il discorso per mitigare o contrastare le possibili accuse di socialismo dell’opera. Del resto tutto verrebbe da pensare tranne che John Ford sia stato un autore comunista nel senso militante del termine. Eppure, quando vediamo Ma’ Joad, suprema rappresentante di tutte le mamme fordiane e quindi di tutte le famiglie fordiane e per ulteriore estensione, di tutte delle comunità fordiane, proclamare “Siamo noi il popolo” qualche dubbio ci viene. Ma, e qui torniamo alle considerazioni iniziali sull’ingenuo ottimismo di Ford, anche questa illusione, come quella di una società bucolica basata sulla famiglia che si trova nei suoi film western, si è, ahinoi, negli anni dissolta. E da tempo. 








Jane Darwell



Dorris Bowdon 



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martedì 27 settembre 2022

IL BANCHIERE ANARCHICO

1115_IL BANCHIERE ANARCHICO . Italia 2018;  Regia di Giulio Base.

Nei titoli di coda dell’inusuale film Il banchiere anarchico di Giulio Base, troviamo quella che viene definita “bibliografia essenziale”. Ovvero: L’Unico e la sua proprietà di Max Stirner, Psicologie delle masse e analisi dell’io di Sigmund Freud, Il Capitale di Karl Marx, La morale anarchica di Petr Kropotkin, Anarchismo e coesistenza politica di Errico Malatesta, La nausea di Jean-Paul Sartre, La sincronicità di Carl G. Jung, Fascismo strisciante di Noam Chomsky, Manuale dello speculatore di borsa di Pierre-Joseph Proudhon, Stato e anarchia di Michail Bakunin, Tractatus logico-philosophicus di Lev Trockij, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza di Friedrich Engels, L’uomo in rivolta di Albert Camus, Il campionato della lotta mondiale di classe di Vladimir Majaskovskij, Povera gente di Fedor Dostoevskij, Critica alla ragion pura di Immanuel Kant, Fondamenti della filosofia dell’avvenire di Ludwig Feuerbach, La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, Che cosa significa pensare? Martin Heidegger, La guerra di guerriglia di Ernesto Che Guevara, Il crepuscolo degli idoli di Fredrich Nietzsche, Libretto rosso di Mao Tse-Tung, Fenomenologia dello spirito di Friedrich Hegel, Contro la codardia di Soren Kierkegaard, Guerra e rivoluzione di Lev Tolstoj, Rapsodie gitane di Blaise Condrars, Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini. Che poi il testo da cui è tratto il lungometraggio è un altro libro ancora, il racconto omonimo di Fernando Pessoa. In ogni caso, par di capire, per comprendere al meglio le dissertazioni tra il banchiere in questione (lo stesso regista Giulio Base) e il suo fido amico (Paolo Fosso), serve avere l’enciclopedica cultura specificata. 

Per l’uomo della strada, per la persona di media cultura, che di tutti quei libri può sperare al massimo di averne letto giusto qualcuno, non sembra però così difficile comprendere dove vogliano andare a parare Base e probabilmente anche Pessoa. L’idea che comunemente si ha è che il mondo del capitalismo sfrenato, quello finanziario di cui il banchiere è un perfetto esempio, e le filosofie anarchiche, a cui il nostro dichiara di aderire, siano in antitesi. Il lungo monologo del banchiere, inframezzato dagli interventi del suo succube amico, timidi in avvio poi via via più concitati, prova a smentire tale convinzione. Un punto di vista inaspettato visto che l’élite finanziaria, al contrario, da sempre ama definirsi conservatrice e custode dei valori tradizionali della società. 

Una prevedibile scelta di campo non certo azzardata, ma solida e affidabile; come piace alla finanza del resto. Ma qui si insinua, o prova a farlo, il banchiere anarchico: quella dichiarata dalla classe economicamente dominante sarebbe dunque un’impostazione di comodo e di facciata, ipocrita, visto che i tanti passaggi logici dell’eloquio del protagonista dimostrano piuttosto che, in realtà, il potere è anarchico tanto quanto chi lo contesta. E se a confessarlo è il super-banchiere protagonista non ci possono essere dubbi. Pare strano? Leggetevi la sconfinata bibliografia essenziale, sembra essere la provocatoria implicita replica di Giulio Base, e vedrete che non è così. In definitiva, è convincente l’opera di Giulio Base? Mica tanto, per la verità. Perché si ha come l’impressione che la sua bibliografia essenziale, per altro invidiabilissima come conoscenza – detto senza alcuna remora – permei un po’ tutto quanto il nostro mondo. E quindi tutto sommato accessibile, magari attraverso canali indiretti, diciamo così. Di conseguenza, non è poi così sconvolgente apprendere che il banchiere del racconto sia anarchico: banalizzando – colpevolmente, bisogna ammetterlo ma tant’è – pecunia non olet. Piuttosto, forse il testo lascia di stucco coloro i quali abbiano creduto che l’anarchia, il comunismo e tutte le dottrine di rivendicazione sociale in genere, fossero una sorta di garanzia morale. Ma basta ricordare l’evoluzione avuta negli anni dei più accaniti agitatori della rivoluzione sessantottina per avere semmai dubbi che sia vero il contrario.  


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lunedì 26 settembre 2022

SHANTY TRAMP

1114_SHANTY TRAMPY . Stati Uniti 1967;  Regia di Joseph G. Prieto.

Ci sono aree geografiche che hanno un valore particolare, perché essendo in qualche modo meno influenzate dalle direttive culturali e di emancipazione, ci forniscono un quadro esplicito del background che è presente anche in quelle altre zone che sembrano socialmente all’avanguardia. Considerato l’importanza degli Stati Uniti d’America a livello di influenza culturale sull’intero globo, il caro e glorioso vecchio sud degli States è forse in luogo più emblematico in tal senso. Per capirci: in una nota serie televisiva degli anni Ottanta, Hazzard, la mitica automobile dei protagonisti – una fantastica Dodge Charger del 1969 – portava sulla capotta la bandiera usata dai confederati durante la Guerra Civile americana. Al di là delle questioni specifiche storiche, gli stati del sud ebbero, in quella che da noi è conosciuta come Guerra di Secessione, responsabilità gravissime: dalle discriminazioni razziali all’impiego di bande di irregolari che sono ancora oggi tristemente note per l’efferatezza delle loro gesta. Se ne potrebbe discutere, ma per alcuni le responsabilità dei confederati sono simili a quelle dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. Paragone esagerato? Può essere, tuttavia una coalizione di stati che esplicitamente mirava a mantenere la schiavitù, qualunque potessero essere le implicazioni economiche della disputa, non è che si possa portare come baluardo per la nostalgia dei cari e vecchi tempi andati. Come invece succedeva con la Dodge Charger di Hazzard che, a rincarare la dose, si chiamava Generale Lee, dal nome del famosissimo comandante dei confederati stessi. 

In sostanza se è vero che le aree del sud degli Stati Uniti hanno mantenuto fino ad oggi certe connotazioni non proprio edificanti queste stessi elementi sono presenti, anche se in forma latente, in tutta quanta la nazione americana. Prova ne è l’odierno insorgere di movimenti come il Black Lives Matter che, al di là delle posizioni nel merito, certificano che la questione razziale non è ancora risolta. E’ curioso come sia utile questo preambolo per un film come Shanty Tramp di Joseph G. Prieto che è unicamente un esempio di sexploitation nemmeno tra i più coinvolgenti. Se lo prendiamo in sé, il film si lascia ricordare per la camminata di Emily (Eleanor Vaill) la prostituta vagabonda a cui è intitolata l’opera, e per un minimo di intreccio che può ricordare Il buio oltre la siepe. Ecco, proprio uno svelto confronto tra l’opera di Prieto e il romanzo di Harper Lee o il successivo film di Robert Mullingan permettono di comprendere perché serve una contestualizzazione dell’ambiente che li accomuna. Il buio oltre la siepe riesce ad essere, nonostante lo scabroso tema trattato – il presunto stupro di una giovane bianca da parte di un nero americano – un classico, un testo a tutto tondo, autonomo. In effetti un’analisi della situazione ambientale è superflua, visto che il soggetto, scritto o filmato che sia, riesce a tratteggiarla nel corso del proprio svolgimento. Perché Il buio oltre la siepe oltre a raccontarci delle aberrazioni della società ci fornisce anche un quadro morale per valutarle eticamente; è un classico, si è detto. A differenza di Shanty Tramp che ci sbatte in faccia una serie di comportamenti deplorevoli a fronte dei quali è difficile persino farne un elenco. 

Intanto, l’unico personaggio veramente positivo è Daniel (Lewis Galen), afroamericano che, in una sperduta località del sud est degli States, rimane invaghito di Emily. Per la verità c’è poco da rimproverare anche a sua madre, per quanto sembri la stereotipata caricatura della attempata donna grassa di colore, visto che i suoi pregiudizi nei confronti della disinibita prostituta del paese si riveleranno profetici. Per il resto, c’è da mettersi le mani nei capelli: la protagonista, Emily, si rivela spregevole, accusando il povero Daniel ingiustamente oltre ad indirizzare subito la polizia sulle sue tracce. 

Già in precedenza, peraltro, la ragazza era sembrata piuttosto squallida nel modo in cui era passata di mano una volta che il teppista di turno aveva importunato il ragazzo con cui stava ballando. Vedendo la sua dissolutezza, persino suo padre, un ubriacone perdigiorno, pensando di ravvederla, la prende a cinghiate senza pietà; e non è certo questo un comportamento che si possa valutare in qualche modo positivo. Il predicatore Fallows (Bill Rogers) e il suo tirapiedi, sono due imbroglioni e si differenziano unicamente per il fatto che il primo oltre alle truffe religiose cerca anche qualche pollastrella con cui fornicare, mentre il secondo è devoto unicamente alla raccolta delle offerte dei credenti creduloni. Ci sono ancora da citare i citati teppisti motorizzati a due ruote che arrivano bullizzando i ragazzi del posto, trovando l’accoglienza benevola delle ragazze più carine, e le forze dell’ordine locali che, per quel che si vede, non sembrano porsi troppi dubbi se il colpevole da ricercare è un uomo di colore. Ecco, per quanto possa sembrare arduo da credere, è possibile che, in una certa ottica, Shanty Tramp ci dia un quadro della realtà più aderente al vero rispetto ad un testo immensamente più valido come Il buio oltre la siepe. Viene il dubbio che il sud degli Stati Uniti, ma come si è detto nell’animo anche tutta quanta la nazione, insieme alla nostalgia per il caro e vecchio sud celebrato in prodotti come il citato Hazzard, finisca per conservare quasi gelosamente qualcosa dei tanti esempi deviati presenti in Shanty Tramp. Quanto? In certi momenti storici sembra davvero tanto.   



Eleanor Vaill





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