Translate

sabato 22 maggio 2021

LA DOMINATRICE

819_LA DOMINATRICE (Annie Oakley)Stati Uniti, 1935; Regia di George Stevens.

Film di matrice biografica dedicato all’infallibile tiratrice Annie Oakley, La dominatrice viene a volte considerato la prima incursione nel western sia del regista George Stevens che della protagonista, Barbara Stanwyck. In realtà il film non è prettamente un western ma una storia d’epoca ambientata perlopiù nel circo di Buffalo Bill (interpretato da Moroni Olsen), il famoso Wild West Show. I legami col Far West passano appunto attraverso lo spettacolo circense e solo successivamente nella storia raccontata che è tutto sommato abbastanza fedele alla vita di Annie, il personaggio della Stanwyck. Siamo in Ohio, sul finire del XIX secolo, e la ragazza in questione si guadagna la vita cacciando quaglie per i ristoranti. Le sue piccole prede sono sempre colpite con precisione alla testa e così arriva un invito per una gara di tiro per sfidare Toby Walker (Preston Foster), il più grande tiratore del mondo. Ovviamente gli organizzatori ignorano che dietro il prodigioso cacciatore di quaglie ci sia una giovanissima fanciulla e questo deve essere uno degli elementi che può aver stuzzicato l’interesse di George Stevens, già avvezzo agli equivoci e ai toni leggeri fin dalle sue collaborazioni ai film con Stanlio e Ollio. Il clima da commedia leggera dura però poco perché da una parte il soggetto decide di seguire, come detto grosso modo fedelmente, la vita di Annie, dall’altro la Stanwyck, forse anche perché al suo primo ruolo da freelance, sembra particolarmente trattenuta. Negli anni 30, una donna in grado di battere gli uomini su uno dei loro terreni preferiti come la competizione con le armi da fuoco, al netto delle caratteristiche reali della vita del personaggio in questione, avrebbe dovuto e potuto ispirare qualcosa di più stuzzicante dell’ordinaria storia che si snocciola nel film. In effetti deve essere questo il ragionamento alla base dei distributori italiani che si lanciarono in un particolarmente fuorviante titolo come La dominatrice in luogo del più opportuno Annie Oakley originale. Per una volta il cambio tanto radicale, per quanto comunque condannabile per almeno due motivi, ha però una qualche giustificazione. In effetti è difficile immaginare che qualche abitante della penisola si rechi a vedere un film dedicato a questa Annie Oakley, personaggio forse famoso in America ma tutt’oggi praticamente sconosciuto in Europa. 

La dominatrice, se era diverso dall’originale (prima scorrettezza dei distributori italiani) e oltretutto completamente poco inerente alla storia narrata nel film (e ben più grave seconda scorrettezza), perlomeno dava l’idea di una donna in grado di superare gli uomini, un tema un po’ pepato che era sempre spendibile presso il grande pubblico. Ma poi, nel film di Stevens, la Annie Oakley interpretata dalla Stanwyck è una persona davvero ammodo, modesta e molto comprensiva anche nei confronti del presunto rivale nello spettacolo, il citato Toby Walker; con il quale, piuttosto, imbastisce una storia sentimentale. Nel cast c’è anche Melvyn Douglas nella parte di Jeff, agente teatrale che ingaggia la Oakley e che contende, vanamente, il cuore della protagonista a Walker. 

Stevens ha una mano solida in regia, lo spettacolo circense di Buffalo Bill aiuta nei momenti di stanca e, soprattutto, ad un certo punto entra in scena nientemeno che Toro Seduto (Capo Thunderbid), protagonista di alcune scene gustose che rianimano il clima da commedia. E’ a lui che spetta il compito di riunire la coppia di protagonisti per il lieto fine e, per chiamare Annie, il capo indiano entra con un carro mettendosi alla guida della cavalleria americana proprio nel momento cruciale dello spettacolo del Wild West Show, sotto lo sguardo sbigottito di Buffalo Bill. Ma la scena più gustosa, che rende davvero memorabile questo La dominatrice, è quella in cui Toro Seduto, ornato con il cimiero di penne d’aquila lungo fino ai piedi, in pratica il suo costume di scena, scorazza di soppiatto per la città di New York. Ha appena individuato dove si è rintanato Walker e, dopo aver segnato col tomahawk una colonna nei pressi del luogo, torna di filata al tendone per chiamare Annie. Ad un angolo della via sopraggiunge, nell’altra direzione, un elegante signore un po’ brillo che, nello scontro con il massiccio indiano finisce al tappeto perdendo cappello e parrucchino. La scena si presenta così: New York, esterno notte, Toro seduto, vestito come nei suoi giorni gloriosi chino su un uomo esanime, con un ascia in una mano mentre con l’altra impugna lo scalpo, ops, il parrucchino del tizio! Il capo indiano sembra un po’ perplesso ma probabilmente soltanto per capire come riposizionarlo sulla testa del malcapitato. A quel punto arriva il conducente della carrozza che, al vedere la scena, strabuzza gli occhi quasi quanto James Finlayson, l’omino coi baffi dei film di Stanlio e Ollio. Ecco, la bonaria presa in giro di un mito come Toro Seduto, che per altro nel racconto è tratteggiato in modo molto positivo, è una delle cose migliori del film e contribuisce in modo concredo a renderlo davvero interessante.   
 



Barbara Stanwyck



giovedì 20 maggio 2021

IL POLIZIOTTO E' MARCIO

818_IL POLIZIOTTO E' MARCIO Italia, Francia, 1974; Regia di Fernando Di Leo.

Contributo esplicito al genere poliziottesco, il film Il poliziotto è marcio di Fernando Di Leo, nonostante la confezione stringata, conferma il talento del regista pugliese. Di Leo, a cui si deve l’eccellente trilogia del milieu, è un nome di spicco nel cinema italiano e del cinema italiano di genere nello specifico ma, pur meritando un posto d’onore anche nel filone del poliziesco all’italiana, non aveva, fino a Il poliziotto è marcio, affrontato in modo così stretto l’argomento. E il film con Luc Merenda sembra quasi una dimostrazione tesa a chiarire che il poliziottesco l’autore lo conosca, sebbene non sia propriamente nelle sue corde. C’è il commissario tutto d’un, pezzo, anche se poi, sin dal nome Malacarne o dal titolo del film, è chiaro che sia lui l’elemento corrotto; la mano di Di Leo non manca mai di farsi sentire. Ma si diceva del testo piuttosto conforme alle aspettative, almeno nei topoi narrativi: ci sono un paio di spettacolari inseguimenti in macchina, vero cliché del genere poliziottesco. Il primo è una battaglia a sportellate tra una Fiat 124 e un Alfa Romeo Giulia della polizia, sulle sponde del naviglio, in pieno centro cittadino. L’altro è anche più interessante per la costruzione che c’è intorno. Intanto comincia in piazza Duomo, cuore di Milano, dove Malacarne è appostato sulla sua Fiat 125 ma è costretto a lasciarla perché bloccata dalle auto parcheggiate. Qui c’è forse una finezza narrativa di Di Leo, sempre bravo in fase di sceneggiatura: abbiamo detto di come il commissario sia corrotto e nel film assistiamo ad una sua reprimenda verso il suo aiutante, l’agente Garrito (Rosario Borrelli), suo complice ma poco prudente nello spendere i soldi sporchi

La Ferrari con cui è stato visto girare rischiava infatti di dare nell’occhio e tradire i loschi traffici dei due. Tornando alla scena dell’inseguimento, Malacarne lascia così la sua Fiat 125 in piazza Duomo, e salta sulla prima auto parcheggiata con le chiavi nel cruscotto: una più moderna e costosa Fiat 132. Qui può scatenarsi in un confronto quasi alla pari con un’auto americana, probabilmente una Plymouth, sulla quale fugge il sicario che ha appena freddato i due trafficanti portoghesi. Questa esecuzione è altrettanto simbolica: i due, appena rilasciati perché Malacarne asseconda i voleri della malavita, vengono uccisi sul sagrato del Duomo, nel cuore della metropoli. Bontà sua, se non del regista, almeno il destino provvede e la cattedrale, al tempo completamente impacchettata dai lavori di restauro, non assiste al crimine: viene spontanea però la conclusione che la città sia davvero irriconoscibile, visivamente per l’occultamento del suo principale simbolo, concretamente per l’arroganza del crimine che si spinge quasi fin dentro i luoghi di culto. 

Questi elementi sono presenti nel film, che è una sorta di condensato degli stilemi narrativi del genere e, se è forse vero che sono poco sviluppati, risultano comunque funzionali al decòr complessivo: si pensi alle freddure taglienti, tipicamente meneghine, o al protagonista che ripete sempre la stessa battuta, ‘poi ti dico’, alla vita notturna con gli immancabili soggetti ambigui, o al cavaliere Esposito (Vittorio Caprioli), il personaggio napoletano col gatto, razzista verso i milanesi, che sembra un protagonista della commedia all’italiana. Quello del razzismo è poi un altro tema di cui Di Leo dà una vaga spruzzata: a parte quello ironico del cavaliere Esposito, c’è qualche battuta più raffinata, in chiave sociale, quando si usa il termine ‘terrone’ in modo dispregiativo. Simile, sempre in contesto sociale, è anche il riferimento alla reintroduzione del fermo di polizia: sono argomenti che il regista non affronta, almeno non in questo film, ma che ci tiene a richiamare per comunicare un’ambientazione più fedele a quella che era la realtà del tempo, riuscendo quindi in pieno nel suo scopo. 


Naturalmente, oltre a costellare la sua storia di questi elementi tipici, Di Leo non dimentica la trama principale, che ha due snodi fondamentali: il più toccante, è quando il padre del commissario Malacarne, che è maresciallo dei carabinieri, scopre che il figlio, fino ad allora osannato poliziotto tutto d’un pezzo, è marcio. Come al solito molto bravo Salvo Randone nel mostrare il dolore misto allo sdegno dell’anziano sottoufficiale dell’arma. L’altro punto focale è ovviamente il finale, che moltiplica il tema del tradimento: il poliziotto marcio, che tradisce la Legge, è tradito a sua volta dal suo braccio destro, ovviamente poliziotto anche lui; nello specifico l’agente Garrito che, con un colpo alla nuca, liquida Malacarne. Un passaggio che eleva esponenzialmente il pessimismo di altri episodi simili, come ad esempio nel precursore La polizia ringrazia di Steno, dove il tradimento era semplice, l’eroe pulito di turno era infatti tradito dalla sua spalla. Va detto che, se non altro, ne Il poliziotto è marcio le istituzioni, rappresentate in primo luogo dal questore, non sembrano avere inclinazioni eversive, semmai soltanto, per così dire, un po’ reazionarie (la soddisfazione per il fermo di polizia è vista in quell’ottica). L’irruzione di Di Leo nel filone dei film incentrati sulle forze dell’ordine è così assai pesante, ma in linea con quella che era stata la visione del regista della ‘presunta’ controparte, ovvero la malavita, analizzata ben più a fondo con la celebrata trilogia del milieu.
Il poliziotto è marcio ne condensa l’efficacia in 91 adrenalinici minuti.  






Delia Boccardo


martedì 18 maggio 2021

GLI INDOMABILI DELL'ARIZONA

817_GLI INDOMABILI DELL'ARIZONA (The Rounders)Stati Uniti, 1965; Regia di Burt Kennedy.

In genere, in un’opera, la coerenza interna è una qualità. In questo caso, a proposito di Gli indomabili dell’Arizona, dobbiamo fare un’eccezione e ringraziare Burt Kennedy, il regista, di attenuare via via, e di molto, certe caratteristiche con cui il film si era presentato. L’attacco di Gli indomabili dell’Arizona lascia infatti un poco atterriti: per la verità, una volta saputo della presenza di Glenn Ford ed Henry Fonda, si è perfino rassicurati dalla fotografia calda di Paul Vogel e dalle note della musica sui titoli di testa che sembrano preannunciarci un tentativo di andare sul classico. E poi, tutto sommato, il nome di Burt Kennedy in sceneggiatura oltre che in regia, è una buona garanzia: un autore convenzionale, d’accordo, ma affidabile. Ma, a questo punto, un roano, uno dei cavalli sullo schermo, si mette a parlarci in catanese. Si, ovvio, questo è un colpo ancora più basso, rispetto alla versione originale, che ci riservano i distributori italiani del film, scegliendo un gergo dialettale molto peculiare tra quelli della nostra penisola per interpretare i pensieri del bizzoso cavallo. Mentre l’equino in questione non tace un attimo, l’attenzione finalmente si sposta sui due prim’attori: ma, quando questi cominciano a dialogare, la scarsa residua fiducia che si può ancora avere nella riuscita dell’opera finisce sotto i tacchi. Marion, (Henry Fonda) è un vecchio cowboy che prova a fare lo spiritoso sparando balle improponibili mentre il suo degno compare Ben (Glenn Ford) infila uno strafalcione dietro l’altro. Il film è del 1965 e il western classico è ormai superato e Kennedy prova così ad esplorare nuove strade, la commedia demenziale, in questo specifico caso. 

Come si diceva il regista, pur se un nome minore ad Hollywood, è una buona garanzia, almeno a livello teorico, anche solo per aver sceneggiato molti film di Budd Boetticher; ne Gli indomabili dell’Arizona cura anche la scrittura e, in effetti, dopo il traumatizzante inizio, la storia prende una scorrevolezza almeno sufficiente. Questo perché, e qui è la mancanza di coerenza di cui si diceva (e, appunto come si diceva, in questo caso benemerita), gli interventi del cavallo pensante si diradano e anche gli strampalati dialoghi tra i due vecchi cowboy smettono di essere esageratamente surreali. Insomma Fonda e Ford sono troppo poco credibili, nei ruoli che riserva loro lo stravagante copione ma, quando questi aspetti si attenuano, il mestiere ovviamente lo conoscono e il film lo portano comunque avanti senza eccessivi sforzi. Con questo non si può certo dire che il film sia riuscito, nonostante il tentativo di rianimarlo con una corposa presenza femminile. Si va dalla deliziosa Joan Freeman, alla stravagante Kathlen Freeman (sorelle solo nella finzione cinematografica) per finire con le due autostoppiste Sue Ane Langdon e Hope Holiday, le cui grazie posteriori adornano alcuni manifesti del film. Scelta discutibile? Mai come il cavallo che pensa in catanese.    











Joan Freeman


Sue Ane Langdon



Hope Holliday


Kathleen Freeman

domenica 16 maggio 2021

IL MULINO DEL PO (1963)

816_IL MULINO DEL PO . Italia, 1963; Regia di Sandro Bolchi.

Tratto dal primo volume dell’omonima opera letteraria di Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po è uno sceneggiato Rai che Sandro Bolchi diresse nel 1963. Il romanzo si costituisce di tre parti e, come soggetto per la serie televisiva, Bolchi e lo stesso Bacchelli si basarono sul primo tomo, Dio ti salvi. Vista la complessità delle vicende è una scelta comprensibile anche perché il ritmo narrativo del racconto filmico, pur considerando che si era nel 1963, è particolarmente lento. Ma potrebbe essere una scelta: Bolchi non sembra avere particolare fretta anche perché le questioni che il soggetto mette sul tavolo sono piuttosto spinose e hanno bisogno di fermentare con pazienza. In questo senso il racconto è ben orchestrato: l’intreccio degli eventi serve sostanzialmente per dar modo al carico morale che grava sulle spalle del protagonista di maturare. Il punto cruciale, perlomeno quello su cui si fonda tutta quanta la questione, è che tal Lazzaro Scacerni (un Raf Vallone aitante anche se non più giovanissimo) soldato napoleonico in Russia, eredita da un suo ufficiale un tesoro frutto di un saccheggio sacrilego. Dalla cui vendita ricaverà i soldi necessari per costruirsi il San Michele, un mulino fluviale: il mulino del Po, appunto. Ma la maledizione del tesoro, fatto di ori e preziosi trafugati da una chiesa, comincerà a tormentarlo: in realtà si tratta solo della sua coscienza che comincerà a roderlo tanto più forte man mano che le cose gli gireranno bene. Se da squattrinato la questione gli era sembrata semplicemente lo sfruttare l’occasione della vita, una volta mugnaio benestante e sposato con la giovanissima e dolce Dosolina (Giulia Lazzarini), l’origine illecita delle sue fortune comincerà a renderlo inquieto. Inoltre, l’ambiguo e temibile Raguseo (Tino Carraro), il ricettatore a cui aveva venduto il tesoro, non aveva gradito l’aver comprato merce rubata in una chiesa o forse non tollerava il prestigio che Lazzaro stava prendendo nella sua area di competenza. Perché un po’ (troppo) opportunisticamente, il mugnaio evitava di impicciarsi negli affari altrui dando asilo ai contrabbandieri che usavano il suo mulino per stivare la merce che facevano illecitamente varcare sul grande fiume. 

L’amicizia tra Lazzaro e Fratognone (un superbo Gastone Moschin), capoccia dei briganti contrabbandieri, rappresentava probabilmente un altro nervo scoperto per il Raguseo che aveva al contrario bisogno la generale sottomissione. Insomma, nonostante il suo intento a farsi soltanto i propri affari, o forse proprio per questo, Lazzaro cominciava ad essere scomodo. Queste vicende, popolate da ceffi ben poco amichevoli come il Beffa (Renzo Montagnari), relitto umano raccolto dal mugnaio del San Michele ma pronto a tradirlo per invidia mettendosi al soldo del Raguseo, riescono a farsi avvincenti nonostante il ritmo narrativo non decolli quasi mai. Peraltro, alcuni frangenti concitati dello sceneggiato, come la tortura inflitta a Fratognone, hanno una buona resa scenica. Insomma, tutto sommato la generale lentezza del racconto fa coerentemente il paio con lo scorrere placido del Po, e trovano corrispondenza anche le eccezioni (le sporadiche virate narrative tra cui appunto quella legata alla grande piena del fiume). In sostanza il ritmo ponderato del racconto non è affatto un limite: piuttosto, è la recitazione fortemente teatrale, di Vallone in primis, a risultare un po’ datata, sebbene il cast sia uno dei punti di forza della produzione e, oltre agli interpreti citati, va segnalata almeno la presenza di una ancora vivace Elsa Merlini nei panni di Venusta. 

La scenografia, pur evidenziando i limiti di una produzione televisiva dell’epoca, ha una sua forma evocativa che funziona ancora, anche grazie ad alcune scene in esterni girate a Crespino, in provincia di Rovigo, cosa allora inusuale per gli sceneggiati Rai. Tuttavia l’aspetto più interessante de Il mulino del Po è costituito dai citati dilemmi morali di Lazzaro e va detto che, in questo, Vallone risulta particolarmente efficace. In primo luogo c’è la faccenda dei proventi della vendita del tesoro rubato: va quindi restituito il maltolto, per sedare la propria coscienza? Lazzaro tergiversa ma non si decide. 

Poi subentra anche la questione personale col Beffa e col Raguseo: il carattere impetuoso del mugnaio lo tradisce almeno un paio di volte, tanto da arrivare a pensare di essersi macchiato, concretamente o solo nelle intenzioni, della colpa più grave, l’omicidio. Ma il Beffa, gettato da Lazzaro nel Po in piena, se l’è cavata e a far la festa al Raguseo sarà la lama di Fratognone; eppure il desiderio di eliminare i suoi due nemici era stato sincero e il mugnaio si sentiva, giustamente, in colpa. Quest’ombra opprimente aveva perfino guastato il suo rapporto con Dosolina, che aveva finito per aver paura del tenebroso e inquieto marito. 

Quando la situazione famigliare diviene insostenibile, Lazzaro si decide a confessarsi presso don Bastiano (Camillo Pilotto). Questo passaggio è particolarmente interessante perché il sacerdote dimostra di prendere molto sul serio il proprio lavoro, indagando con astuzia sull’effettivo pentimento del mugnaio e, in modo certo un po’ spiazzante, si riserva di parlare coi superiori prima di concedere il perdono al peccatore. Senza entrare nel merito del sacramento religioso, si può osservare come don Bastiano valuti con scrupolo colpe gravi quali il desiderio di uccidere e la violenza con cui Lazzaro si era scagliato contro il Beffa. Dopo questo passaggio, il mugnaio, a fronte di minacce verso la propria famiglia, moglie e figlioletto, si lascia prendere ancora dall’ira e si reca con intenzioni non certo pacifiche dal Raguseo. Appare quindi un po’ debole la teoria del pentimento, almeno per una mera questione di tempismo: si tratta forse di una costrizione dovuta ai tempi televisivi ma certo stride vedere di nuovo il mugnaio con animo bellicoso quando ancora non era stato assolto dai precedenti misfatti. La soluzione di questo intenso problema morale del nostro protagonista gli è suggerita da un’altra figura religiosa, madre Eurosia (Mercedes Brignone). Al di là che la suora in alcuni passaggi ha un che di luciferino, non si capisce bene su cosa verta la soluzione con cui riesce a calmare l’inquieta anima di Lazzaro. 

Il tacito accordo tra la suora e il mugnaio lascia forse da intendere che, per la salvezza della propria anima, bisogna affidarsi alla clemenza di Nostro Signore; sotto il profilo religioso è un concetto condivisibile, naturalmente. Ma, e la penitenza, a cui faceva riferimento anche don Bastiano? Perché qui non si tratta di invocare un provvedimento punitivo ma cercare semmai una concreta prova di pentimento. Se si è davvero pentiti di aver fatto qualcosa di male, saremo certamente pronti a pagare il dovuto per rimediare il torto. E se ci si rivolge alla clemenza di Dio, per quanto l’Altissimo sia molto più che ben disposto nei confronti dei peccatori, è difficile ottenere uno sconto in tal senso. Ma, evidentemente, in Italia, non  a caso il paese del detto passato la festa, gabbato lo santo, aveva già preso piede la teoria del condono. E il lieto fine con l’abbraccio tra Lazzaro e Dosolina seppellisce ogni dubbio sotto una buona dose di sentimentalismo e tanti saluti ai tormenti interiori che ci hanno accompagnato in modo così insistito sin dalla chiusura della prima puntata napoleonica ambientata in Russia.
Tanto tuonò che non piovve. 

Elsa Merlini


Giulia Lazzarini