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mercoledì 19 agosto 2020

IL CAVALIERE DELLA VALLE SOLITARIA

619_IL CAVALIERE DELLA VALLE SOLITARIA (Shane); Stati Uniti, 1953Regia di George Stevens.

Negli anni 50 il mito dell’America riceveva la sua consacrazione definitiva nel genere western più che in ogni altro ambito, in particolare in film come questo splendido Il Cavaliere della Valle Solitaria di George Stevens. Al tempo gli Stati Uniti erano ancora un paese giovane che necessitava quindi di avere i suoi eroi, i suoi paladini, e Alan Ladd nei panni di Shane, appunto Il cavaliere della valle solitaria del titolo italiano, altri non è che la moderna versione di Achille, Sigfrido o Rolando dei poemi epici europei. Non è certo un caso che tutto il film sia visto dalla prospettiva del piccolo Joey (Brandon De Wilde), un ragazzino che vede in Shane l’incarnazione dei propri sogni d’avventura. Stevens rimarca questo aspetto educativo dell’opera, il suo rivolgersi ad un pubblico giovane, togliendo ogni riferimento sessuale: Jean Arthur, che interpreta Marian, la madre del piccolo Joey, è bella nel senso materno del termine. Non che sia brutta, per carità, ma si guarda bene dal provocare un’evoluzione della situazione che, con l’arrivo di un uomo come Shane in casa Starrett, sarebbe lecito attendersi (almeno al cinema). E in effetti qualche allusione c’è, nel film, con lo stesso Joe (Van Heflin), padre del ragazzo, che si accorge che il confronto con Shane lo mette in inferiorità, forse addirittura più agli occhi della moglie piuttosto che del figlio. Ma si tratta di un tema lasciato in disparte, con Shane che si arrabbia subito quando il cattivo di turno, Rufus Rykers (Emile Meyer) prova a farci un’insinuazione: non è il tema della storia, quello della rivalità amorosa. Non è ancora tempo, sembra dire Stevens, per parlare di queste cose, l’America è ancora troppo acerba, troppo bambina e prima del sesso c’è un altro demone che ogni uomo deve affrontare nel percorso della propria crescita: quello della violenza. 

Oltretutto, il contatto con una terra selvaggia, il Far West, con la sua cronica mancanza di leggi, istituzioni, istruzione, e il contemporaneo confronto con la civiltà dei nativi, differente e comunque spesso brutale, resero il problema della violenza particolarmente sentito. Soprattutto adeguato ad un tempo, quello degli anni 50, che per l’America, dopo la seconda guerra mondiale, aveva in fresco carico della memoria collettiva nazionale il ricorso alle bombe atomiche. Quello della violenza era davvero un problema serio, in America, di sicuro a quei tempi e forse ancora oggi. Nel film, per il piccolo Joey, il fascino di Shane è molto legato alla pistola che questi porta al fianco: la pistola, l’arma da fuoco che più di ogni altra sembra ammaliare i bambini, perché meglio di ogni altra dà libero sfogo alla volontà di violenza che alberga in ognuno di noi. 


Per Joey la violenza è come il fuoco per la falena e Stevens rimarca in modo evidente la partecipazione fisica del ragazzino che, guardando di nascosto, incarna anche quella dello spettatore durante le scazzottate nel saloon. Apparentemente il film è una storia sui buoni sentimenti con l’eroe che arriva, salva i poveri oppressi e poi se ne va. In realtà questa è solo la parte superficiale della vicenda; quello che rimane è l’incredibile fascino che la violenza ha su di noi, si pensi anche al potere ipnotico che emana il pistolero cattivo forse più convincente dell’intera storia del cinema western, Jack Wilson, soprattutto grazie alla magistrale interpretazione di Jack Palance. Inoltre, pur se viene rimarcato che la violenza è una scelta sbagliata, e Shane nel finale è costretto ad andarsene, non viene però fornita una soluzione diversa dall’uso della stessa violenza per risolvere i problemi. Quindi, se da un lato il film è malinconico con lo struggente addio di Shane rincorso dal ragazzino, dall’altro non ci fornisce nemmeno una percorribile soluzione alternativa. Siamo gente di natura violenta, sembra dire George Stevens, ma per quanto possa essere affascinante e apparirci indispensabile, dobbiamo cercare di lasciare che questa violenza se ne vada via da noi; via, insieme a Shane, possibilmente senza nostalgia. Ma, guardando la sagoma di Alan Ladd a cavallo che scompare all’orizzonte, sappiamo già che sarà dura. 









Jean Arthur



lunedì 17 agosto 2020

ACCADDE A LISBONA

618_ACCADDE A LISBONA ; Italia, 1974Regia di Daniele D'Anza.

Sceneggiato in tre puntate per un totale di 200 minuti, Accade a Lisbona, scritto da Luigi Lunari e diretto da Daniele D’Anza, è l’ennesimo esempio di come la RAI, la rete televisiva nazionale italiana, a suo tempo avesse una notevole capacità di produrre opere tra loro eterogenee mantenendo un elevato tasso qualitativo. Accadde a Lisbona è basato sulla vicenda dello Scandalo della Banca del Portogallo del 1925, che vide il personaggio storico di Alves Reis organizzare una delle più clamorose truffe del secolo. Lo sceneggiato di Lunari e D’Anza parte un po’ in sordina, sostanzialmente nel primo episodio, ma già verso la fine di questo ha catturato l’interesse dello spettatore. Nel resto del racconto filmico l’attenzione non andrà mai più scemando e, semmai, si può rimpiangere che l’epilogo arrivi troppo in fretta, sebbene questo sia legato alle vicende storiche a cui i narratori si attengono abbastanza scrupolosamente. Rispetto ad altri prodotti simili dell’epoca, il soggetto all’origine di Accadde a Lisbona ha alcune peculiarità che gli autori riflettono poi nelle scelte narrative e registiche per un risultato finale assai singolare ma nel complesso convincente, nella migliore tradizione RAI. 
Chiamato non soltanto ad essere il protagonista della storia ma a fungere da vero e proprio mattatore è Paolo Stoppa, un attore di grandissima esperienza non solo in campo cinematografico ma anche teatrale. E alla sua verve da palcoscenico Stoppa fa appello per recitare il ruolo di Alves Reis, il truffatore della nostra storia: il personaggio avrebbe una trentina d’anni mentre l’attore romano quasi settanta, ma la sua istrionica performance regge praticamente da sola la storia. La scelta di un attore così ingombrante è ben sfruttata dal regista Daniele D’Anza: a Stoppa, in borghese, sono affidate anche le introduzioni ai tre episodi e una sorta di epilogo, nei quali l’attore dà un minimo di indicazioni per comprendere le coordinate per una storia interessante ma abbastanza estranea ai canoni dell’abituale narrativa di intrattenimento. Con l’interprete del personaggio principale in una veste più contemporanea immerso in una Lisbona degli anni settanta mentre fornisce alcune delucidazioni sulla vicenda, la credibilità della storia viene così alimentata. Ed è un’impressione corretta, perché lo sceneggiato RAI segue abbastanza fedelmente gli incredibili avvenimenti che portarono Reis e i suoi collaboratori a stampare in modo privato un centinaio di milioni di escudo portoghesi; banconote tecnicamente non false, quindi, visto che furono realizzate dallo stesso fornitore che abitualmente aveva l’incarico di produrle per la Banca del Portogallo.
Come detto la storia è incentrata su un Paolo Stoppa in gran spolvero, che si prende i suoi tempi e spesso dialoga con la telecamera, riflettendo sui quei passaggi che gli sono necessari per imbastire una truffa così colossale. Ad affiancarlo, in tono certamente minore (il che, in questo caso, non può certo essere un demerito), Paolo Ferrari, Enzo Tarascio, Roberto Brivio, tra gli altri. Maria Fiore, nei panni di Maria Luisa, moglie di Reis, è l’unica presenza femminile di un certo rilievo, ma non è che la vicenda gli conceda poi questo grande spazio. D’altra parte si è già ripetuto, il racconto è abbastanza fedele agli eventi e gli autori decidono di rispettarne anche quegli aspetti, come il ruolo avuto dalle donne nella storia, che in altri casi si sarebbero potuto invece accomodare in linea con la consuetudine narrativa della televisione. Insomma, dando un po’ più di corda a qualche intreccio amoroso; ma il punto più sorprendente della coerenza alla realtà storica di D’Anza e Lunari è un altro e di ben altra portata. Perché a mancare, nel loro sceneggiato, è soprattutto il cosiddetto quadro morale: d’accordo si parla di soldi equando ci sono di mezzo loro si sa che è dura mantenere la barra dell’onestà dritta ma la RAI non aveva mai nascosto la sua natura educativa. Che, volendo, è presente in modo esplicito anche in Accadde a Lisbona, nel momento in cui l’emittente riporta in luce un evento storico tanto importante quanto misconosciuto. Però nel racconto manca completamente una figura a cui far riferimento in senso etico, il classico eroe, insomma e, in alternativa, manca anche un narratore esterno che funga un po’ da grillo parlante. In questo ruolo è chiamato addirittura Stoppa che, seppure si mantenga abbastanza distaccato nelle introduzioni agli episodi, è pur sempre lo stesso che è protagonista del racconto nella parte del truffatore.
Ma attenzione: non è che la RAI faccia un elogio alla furbizia che tante altre volte si è visto al cinema di casa nostra, soprattutto nella commedia; qui ci si attiene ai fatti e, semmai, c’è un approccio adulto e rispettoso della maturità degli spettatori che sono chiamati a trarre da soli la morale della favola. Un aiuto, in questo senso, è affidato alle canzoni di Fie Carelsen (Marisa Bartoli) ma per contrasto, visto che la sua interpretazione nel cabaret è uno spudorato inno al potere del denaro. Del resto la vicenda è ambientata nei ruggenti anni venti che, con la loro folle euforia finanziaria, portarono il mondo alla catastrofe finanziaria del 1929. E, proprio ascoltando le parole della cantante, Reis riflette su come ci sia poca differenza tra sfondare una banca (per rapinarla) e fondarla, coagulando in modo dichiarato la vena critica che corre lungo tutta la vicenda in modo implicito. Curiosamente, in un’opera che sembra scegliere di non esporsi sugli aspetti morali della vicenda, è proprio la finzione nella finzione a manifestarli, sebbene, come detto, rovesciati nel senso. Ha naturalmente torto l’austera Fie così come si sbaglia anche Reis nella sua riflessione guardando nell’obiettivo della telecamera; il denaro non dà la felicità e nemmeno si può pensare che le banche siano un covo di poco di buono. Alla fine la truffa viene smascherata in modo abbastanza banale, come in fondo è, se non banale perlomeno ovvia, anche la morale di tutta quanta la storia: ma, un po’ nella scia dello sceneggiato, lo è talmente che si può lasciare anche implicita.
Maria Fiore
     

sabato 15 agosto 2020

MISERIA E NOBILTA'

617_MISERIA E NOBILTA' ; Italia, 1954Regia di Mario Mattoli.

L’impostazione del film è apertamente ispirata all’omonima opera teatrale di Eduardo Scarpetta; il regista Mario Mattoli è molto bravo nel farne un punto di forza e di caratterizzazione della pellicola, e non un limite. La fotografia, gli scenari, tutto riporta alla mente l’artificiosità di una rappresentazione teatrale e questo escamotage permea tutto il film di un’atmosfera retrò adeguata al testo trattato. Il mattatore della vicenda è naturalmente Totò, in splendida forma, impegnato in alcune scene memorabili, su tutte quella in cui con i famigliari e coinquilini si avventa su un vassoio di spaghetti ma tra le altre va ricordata anche quella della lettera da scrivere che, quando c’è di mezzo l'attore napoletano, ha sempre esiti esilaranti. Il cast è nel complesso ben attrezzato e si fregia anche di una superlativa e giovanissima Sophia Loren, statuaria e folgorante anche se, a dir la verità, poco valorizzata da un testo che la lascia un po’ troppo sullo sfondo. Ma vanno citati anche Carlo Croccolo (nei panni di Luigino), Enzo Turco (Pasquale il fotografo), Dolores Palumbo (Luisella) oltre al piccolo Peppeniello (Franco Melidoni), il cui “Vincenzo m’è padre a me” è uno dei tormentoni della pellicola. Fortunatamente, in un tema con una contrapposizione tra miseria e nobiltà, Mattoli evita sia i facili toni socialmente impegnati di maniera quanto il qualunquismo tipicamente italico, e lascia spazio ad una comicità briosa e disinteressata. In definitiva Miseria e Nobiltà è uno dei capisaldi della commedia italiana oltre che della carriera del principe della risata









Sophia Loren





giovedì 13 agosto 2020

MUSSOLINI ULTIMO ATTO

616_MUSSOLINI ULTIMO ATTO ; Italia, 1974Regia di Carlo Lizzani.

Carlo Lizzani ha sempre mostrato un interesse particolare alle vicende storiche del nostro paese e torna con questo Mussolini ultimo atto a raccontare del periodo fascista. La ricostruzione è basata sulla versione ufficiale degli ultimi giorni del Duce, con alcune libere interpretazioni; gli inserti documentaristici, i filmati d’archivio storico, aiutano invece a rendere il tutto più credibile. Non che la cosa sia di cruciale importanza; cioè, sarebbe anche importante che in un film storico la Storia venga rispettata, ma sappiamo che questo è, in senso assoluto, impossibile. Con questa consapevolezza, nel guardare un lungometraggio di questo tipo dobbiamo rassegnarci ad evitare di prendere per oro colato tutto quello che viene mostrato, sebbene l’impostazione di questo genere di pellicole sembri dirci proprio il contrario. Comunque, in questo caso pare evidente lo sforzo del Lizzani, notoriamente antifascista, di mantenere uno sguardo lucido e obiettivo sul Duce in quei ultimi suoi giorni di vita. In qualche passaggio, guardando il maldestro tentativo di fuggire dell’ormai ex dittatore, una sorta di presa in giro del personaggio (per così dire) si fa strada nella mente dello spettatore; ma è da capire se è lo sguardo sprezzante del regista che non riesce a contenersi, oppure se è proprio la figura di Mussolini che, spogliata dell’apparato fascista del ventennio, è banalmente ridicola. In ogni caso il film nel complesso compie un’operazione minuziosa, ricca di dettagli e di sfumature che, per quanto giocoforza imprecise o in un modo o nell’altro faziose, riesce a rendere l’atmosfera del tempo. Questo era grosso o modo il massimo che si poteva pretendere da un regista coinvolto personalmente (a quanto si narra partecipò alla Resistenza) e in questo senso il film compie il proprio scopo. Buona la prova di Rod Steiger nei panni del Duce; nel cast anche Henry Fonda (il cardinal Schuster) e Franco Nero (Walter Audisio, il boia di Mussolini).  




martedì 11 agosto 2020

NEVADA SMITH

615_NEVADA SMITH ; Stati Uniti, 1966.Regia di Henry Hathaway.

Il grande regista Henry Hathaway, esperto di western, riporta sulla scena del selvaggio ovest quello Steve McQueen che qualche anno prima aveva dato al genere un importante segno di cambiamento nel riuscitissimo I magnifici sette. Con il film di John Sturges lo spericolato attore americano aveva cambiato i connotati al tipico eroe dei film dei cowboys: non più statuari monumenti come John Wayne, Robert Mitchum, James Steward o Gary Cooper, tanto imponenti quanto infallibili, (o quasi). No, McQueen è un eroe diverso: agile, dinamico e meno arroccato su posizioni salde, sia da un punto di vista fisico che morale. Insomma un personaggio più moderno rispetto agli eroi da poema epico che caratterizzano abitualmente i film western. Tra I magnifici sette, ad onor del vero, tutte le figure sono sostanzialmente del tenore di quella di McQueen, ma lui è certamente quello che ha lasciato maggiormente il segno. Hathaway richiama quindi questo personaggio, lo Steve McQueen versione western, per dire la sua sulla trasformazione che il genere sta subendo, a partire forse proprio dal citato film di John Sturges. E siccome nel 1966 di questa mutazione siamo ancora tutto sommato in una fase iniziale, il regista ci propone una sorta di romanzo di formazione del nuovo eroe western: e il risultato è, almeno per certi versi, quasi traumatizzante. Non che il film sia brutto, tutt’altro. Hathaway ci sa fare e McQueen è un attore strepitoso ma quello che ci mostrano ci lascia senza speranza. 
Andiamo però per gradi: che si tratti di un film che mostra l’evoluzione di tale Max Sand (il ruolo interpretato da Steve McQueen, il cui appellativo Nevada Smith salta fuori solo nel finale), è evidente, dalle pose infantili che assume il protagonista all’inizio della pellicola, al suo non saper sparare, non saper leggere, non sapere quasi nulla. Ancora ragazzo il nostro subisce un trauma clamoroso: tre banditi gli uccidono il padre e la madre, una donna indiana. Il personaggio è quindi un sangue misto, altro ostacolo non da poco nella sua crescita. Ma tutto sommato non è questo il tema del film: non sarà l’essere mezzo indiano (o mezzo bianco, per dirlo con le parole dello stesso Nevada) un grossissimo impiccio per lo spigliato ragazzo. L’aspetto più evidente che caratterizza il personaggio interpretato da McQueen, e di conseguenza anche il film di Hathaway, è la determinazione con cui il nostro punta dritto sul proprio obiettivo. Che purtroppo è la sete di vendetta. Nulla lo distoglie dalla sua missione vendicatrice: non i problemi razziali, non quelli economici, non la religione, non il sesso e nemmeno l’amore. Il momento più drammatico è infatti quando Nevada di fatto sacrifica la vita di Pilar (la bella Suzanne Plashette), una ragazza che in fin dei conti aveva fatto innamorare e di cui aveva chiesto aiuto in una missione pericolosissima (difatti fatale per la povera ragazza) al solo scopo di perseguire la sua vendetta. La ragazza, in punto di morte, usa parole durissime nei confronti dell’uomo che non possono essere non condivise; ne tant’è Nevada si azzarda a smentirle. E’ un colpo durissimo, per le speranze dello spettatore, ma lo è ancora di più vedere che dopo quella esperienza, il baldanzoso giovane non intende infatti cambiar strada per lasciare la via della vendetta. Insomma, se il Sogno Americano celebrato dal cinema western è morto, sembra dirci Hathaway, beh, il nuovo eroe è già più morto di lui. Nel cast anche Karl Malden (ottimo nella parte del cattivo subdolo), Brian Keith (il cui possente aspetto rassicurante offre un’ottima parte come padre putativo del ragazzo, richiamando i vecchi eroi classici del western), Arthur Kennedy (valido nel ruolo di cattivo meno cattivo), e Martin Landau (credibilissimo come cattivo psicopatico). Un bel film, quindi, ma certo non ottimista.









Suzanne Plashette