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mercoledì 22 aprile 2020

I FRATELLI KARAMAZOV

556_I FRATELLI KARAMAZOV ; Italia 1969. Regia di Sandro Bolchi.

Spesso, nelle trasposizioni audiovisive di romanzi, si dice che il risultato non sia degno dell’originale su carta. Il che è anche pacifico, essendo un romanzo, in linea generale, concepito per essere un testo scritto e, quindi, che vada a sfruttare le peculiarità della letteratura, una per tutte la tempista di fruizione. La Rai, nel periodo tra gli anni 50 e 70, trovò una formula soddisfacente, quella degli sceneggiati, sfornando una serie di capolavori. Uno degli autori i cui romanzi furono prediletti come soggetti a cui attingere, fu il geniale scrittore russo Fëdor Dostoevskij. Nel 1969 fu la volta di I fratelli Karamazov sotto la regia dell’affidabile Sandro Bolchi, per un’opera che si presentò con i crismi del colossal televisivo. Il cast schierato era impressionante per numero e qualità degli interpreti, la maggior parte dei quali di solida formazione teatrale. Gli sceneggiati Rai dell’epoca, per limiti tecnici e economici, non consentivano, infatti, di emulare le raffinatezze tipiche del cinema. In particolare il taglio al montaggio, soprattutto per quel che concerneva le riprese d’interni, era un processo delicato per via del supporto magnetico e veniva limitato al minimo indispensabile. In pratica si otteneva una serie di piani-sequenza in cui, ad animare la scena e a dargli ritmo, serviva l’attitudine teatrale degli attori sullo schermo. Anche per via della grana dell’immagine, si trattava di una registrazione, che conferiva alle immagini una sfumatura quasi onirica, il risultato era praticamente ipnotico. L’origine nobile dei testi, nel caso de I fratelli Karamazov l’autore, come noto, era il maestro Dostoevskij, era garanzia non solo sulla qualità generale dell’opera, ma anche nello specifico dei personaggi e dei loro rapporti, che sullo schermo davano luogo a lunghe scene zeppe di dialoghi che ammaliavano lo spettatore irretendolo in modo ineludibile. 

L’autore russo aveva la sublime capacità di cogliere l’animo umano nel profondo e questo gli permetteva, in seguito, tutta una gamma di esagerazioni comportamentali possibili, senza che venisse mai meno la credibilità dei suoi personaggi. E’ anche per questa sua caratteristica che le rappresentazioni degli sceneggiati Rai dei suoi scritti furono tanto fortunate: gli interpreti di alto rango ingaggiati interpretavano al meglio sia la natura umana dostoevskijana e, con la loro enfasi teatrale, assecondavano anche le esternazioni estreme che i ruoli richiedevano. Ne I fratelli Karamazov spicca su tutte quella di Umberto Orsini per Ivàn Karamazov: la sua allucinata interpretazione, in particolar modo nel finale, ci lascia nel totale sgomento. Ivàn incarna, semplificando (ma rifacendoci al trattamento televisivo), la componente razionale di Dostoevskij, laddove Dmitrij (nello sceneggiato Corrado Pani) è l’individuo con le sue passioni umane e Aleksèj (Carlo Simoni) ne è la vena spirituale: ma com’è quindi possibile che la follia e l’isteria che esplodono nel finale siano connesse proprio al paladino della ragione, che avrebbe prevedibilmente dovuto invece negarle? Qui sta la grandezza dell’autore russo, in queste apparenti contraddizioni che sono, al contrario, il risultato dell’estrema capacità di cogliere il vero nocciolo della natura umana, andando fino al profondo senza curarsi degli aspetti secondari e marginali. 


Nelle suggestive immagini dello sceneggiato Rai facciamo quindi questo viaggio quasi psichedelico, ma di una psichedelica lenta, avvolgente, suadente, ed inesorabile. Il rapporto tra i tre fratelli, le passionalità di Dmitrij, l’acume di Ivàn, la serafica serenità di Aleksèj, in particolar modo in relazione con il padre Fëdor (Salvo Randone, magistrale), un uomo losco e intrallazzatore, sono l’architettura portante del racconto. Poi c’è Smerdjakov (Antonio Salines), il Karamazov illegittimo, sorta di anima oscura di freudiana natura, che cerca in tutti i modi di insinuarsi a livello degli altri e, come accennato, trova sorprendentemente la sponda proprio nel più razionale dei tre. Non mancano, e come potrebbe in Dostoevskij, le figure femminili, tra cui la principale è Grušenka (una splendida Lea Massari). 

E’ la donna dostoevskijana per eccellenza, che rigurgita voglia di vivere da ogni poro della pelle e che, nelle sue derive più lussuriose, può anche destare qualche perplessità; ma va detto che il suo atteggiamento è legato anche al ruolo in cui, nella società del tempo, era relegata la donna (sebbene non così diverso da quello attuale). Nel corso della storia emergeranno, infatti, sue qualità umane insospettabili, perlomeno dopo il primo approccio. Un po’ lo stesso percorso dell’altra donna della vicenda, Katerina (Carla Gravina), lei certamente più conforme alla norma ma non meno discutibile in molte sue scelte. Nel finale avrà comunque modo di ravvedersi. C’è una sincera ammirazione, anche per le componenti più vitali, diciamo così, della figura femminile, tipiche di Dostoevskij e che, con merito, la Rai del canale nazionale, per uno sceneggiato rivolto quindi alla totalità del pubblico televisivo, non andò a moderare o, peggio, censurare. Dal punto di vista narrativo la storia è un crescendo che culmina con il processo, e la suspense per il verdetto va ad alimentare la tensione narrativa completando, anche sotto questo aspetto, l’opera, che si può così ben fregiare del titolo di capolavoro. 




DOSTOEVSKIJ TRA LETTERATURA E TELEVISIONE: I FRATELLI KARAMAZOV 


a cura di Antonio Gatti





Quando il romanzo comincia a uscire, a puntate, sulle pagine del Messaggero Russo, era il 1879: Dostoevskij entrava nella fase finale della sua vita. Erano ormai lontani gli anni in cui il grande autore viveva vagabondando per la Russia e per l’Europa, obbligato dalle ristrettezze economiche a scrivere pagine su pagine, pubblicate coi mezzi e sulle riviste più disparate. L’enorme successo dei capolavori Delitto e Castigo, L’Idiota e I demoni, gli permetteva ora di vivere agiatamente a San Pietroburgo e dintorni. I trionfi letterari gli avevano conferito quella fama che sfocerà nel 1880 nel tripudio della folla in occasione del suo discorso in onore di Puskin. L’autorità morale della quale godeva in quel periodo lo rese un punto di riferimento per una larga fetta del pubblico letterario russo e non solo per questioni puramente letterarie, ma anche morali, politiche, religiose: come disse il suo grande biografo Joseph Frank, in quel periodo Dostoevskij vestì il manto del profeta. Ma proprio durante questi anni, accanto al riconoscimento della sua grandezza da parte dei lettori dentro e fuori la Russia, Dostoevskij dovette affrontare anche la prospettiva del tramonto della sua vita, quando gli venne diagnosticato un enfisema polmonare. Questi elementi -il raggiunto benessere materiale, l’autorità morale della quale godeva, e l’avvicinarsi della morte- concorsero probabilmente tutti a convincere Dostoevskij a tirare un po’ le somme di tutti i grandi temi sviluppati nei romanzi precedenti in un’ultima grande opera, che avrebbe costituito in qualche modo l’ultima parola al mondo del profeta, dello scrittore, dell’uomo. I Karamazov appunto. Sfondo del romanzo, e spina dorsale di esso, è un tema che Dostoevskij aveva già messo in campo più volte, specie ne L’Idiota e ne I Demoni: cosa accade all’uomo quando tronca le sue radici, quando strappa i legami con la sua famiglia, con la sua patria, con la sua cultura. Con il suo Dio. 


E’ libertà quella che consegue? O un destino ancora peggiore della schiavitù?
Questa volta Dostoevskij affronta il tema in maniera diretta, violenta: il rinnegamento delle proprie origini avviene nella maniera più drastica possibile, col parricidio. Un tema per l’epoca forte, basti pensare all’entusiasmo col quale un altro spregiudicato indagatore delle dinamiche psicologiche interne all’uomo e al suo ambiente familiare, Freud, commentò il romanzo. I protagonisti sono i Karamazov; una famiglia attraverso la quale Dostoevskij vuole rappresentare le pulsioni e le aspirazioni interne di ciascun uomo, così forti eppur così contradditorie. Chi di noi non è mai stato l’impulsivo Dimitrij, mai in grado di calcolare le conseguenze delle sue azioni, pronto solo a vivere il qui e ora nella maniera più totale possibile, sia nel bene che nel male? Chi di noi non è mai stato, nello stesso tempo, l’ombroso Ivan, pronto a mettere tutto in discussione con la sua logica, la quale sembra concludere che, in fondo, non ci sia nulla per cui valga la pena combattere davvero, e che questa stessa conclusione sia un privilegio per pochi eletti “uomini superiori” (ricordiamo che pochissimi anni dopo la pubblicazione dei Karamazov, Friedrich Nietzsche, un altro grande estimatore di Dostoevskij, presenterà al mondo lo Zarathustra, col suo concetto di “superuomo nichilista”)? Ma anche, chi di noi non è mai stati stato un Aleksej (Alëša), che nonostante tutto il male e lo schifo che vede svolgersi sotto i suoi occhi, vuole continuare a credere che il bene trionferà comunque, alla fine? E, infine, chi di noi non è stato anche Smerdjakov, con il suo risentimento, col suo bisogno di riversare la responsabilità del proprio astio, delle proprie azioni, su un capo? Questi non sono solo personaggi, ma sono i contraddittori, conflittuali aspetti della natura umana, che cercano eternamente di parlarsi dentro di noi, anelando l’uno di essere “superiore all’altro”, ma fallendo sistematicamente in entrambi gli scopi. 


Nel romanzo vediamo questo eterno moto nel tentativo dei fratelli Karamazov di interagire fra di loro, di stringere amicizia, alleanza, senza però mai riuscirci e fallendo nel prevenire la catastrofe che incombe sull’intera famiglia. Questo aspetto è colto molto bene anche dallo sceneggiato: Bolchi e gli attori riescono efficacemente a far intuire allo spettatore questo anelito dei Karamazov alla fratellanza, all’unione spirituale, anelito frustrato ogni volta a causa della superiorità morale che ognuno di essi, persino l’innocente Alëša, pretende di avere sull’altro. In questo è veramente bravo specialmente Umberto Orsini, Ivan nello sceneggiato, che riesce a trasmettere tutto il suo dolore nel non essere riuscito a far breccia nel cuore profondo di Alëša. Il conflitto interiore dell’uomo, simboleggiato dai Karamazov, cerca di superare sé stesso aspirando a una libertà totale, nella quale “tutto è consentito”, anela a un universo quindi dove ogni scelta sia legittima in quanto, fondamentalmente, non si deve rendere conto a nessuno, nemmeno a sé stessi. Per ottenere questa libertà è necessario, però, troncare prima tutti i legami col proprio passato, con le radici: è necessario il parricidio per unire i Karamazov. Possiamo notare come se Smerdjakov è l’autore materiale del delitto, e Ivan si attribuisce la responsabilità morale, Dimitrij ne è in un certo senso l’istigatore, in quanto dà origine alla controversia familiare, e Alëša non riesce a impedirlo. Tutti i Karamazov sono coinvolti, in misura diversa, nel parricidio. Tutte le pulsioni umane più profonde anelano al regno del “tutto è concesso”, della libertà morale e etica assoluta. Ce lo grida in faccia Ivan quando chiede a tutti, noi compresi, “chi non desidera la morte del proprio padre?”


Non è un lavoro facile, per il regista Sandro Bolchi, questo sceneggiato. Molti monologhi, lunghi, appassionati. Personaggi molto sopra le righe. Il risultato è però eccellente. C’è un sacrificio per me, come vedremo, doloroso di un aspetto del romanzo, ma per tutti gli altri aspetti lo sceneggiato legge veramente nel cuore del libro. Gli attori sono bravissimi, impressionante il già citato Umberto Orsini, magistrale il suo monologo sul Grande Inquisitore. Ma anche Corrado Pani rende al meglio il sanguigno Dimitrij, forse la figura più spontanea del romanzo, Antonio Salines entra nei panni di Smerdjakov con tutto il suo allucinato, rancoroso comportamento, e Salvo Randone interpreta in maniera perfetta il padre Fedor, un padre che noi vediamo solo attraverso gli occhi dei figli, come ridicolo, oppressivo, fastidioso, sorpassato. Qualcosa che impedisce la “libertà” insomma, che persino entra in competizione, qualcosa di cui ci si deve liberare. Ma, quindi, è proprio così? Per ottenere il tanto anelato “tutto è concesso” è necessario passare per il parricidio? Per la negazione delle proprie radici? Se seguiamo il filo del romanzo, il parricidio non porta alla libertà, ma alla morte e alla follia. Smerdjakov si impiccherà (morendo quindi coi piedi separati dalla terra russa, che egli ha rinnegato); Ivan alla fine in un folle monologo si attribuirà la responsabilità morale del delitto. No, la soluzione non è il “tutto è concesso”; questo è al contrario un peso insopportabile per l’uomo; se tutto è concesso nulla allora vale la pena; gli istinti non sono liberati, ma al contrario affondano nell’indifferenza o nella follia.


Dostoevskij dà un’alternativa al parricidio; una soluzione che ne è precisamente il contrario. Essa si trova indicata in molti luoghi del romanzo, ma con più chiarezza nella vita dello starec Zosima, purtroppo solo accennata nello sceneggiato. Questa alternativa al parricidio è l’accettazione delle contraddizioni e dei peccati, non solo propri ma di tutti. E’ la difficilissima palestra dell’amore, che Dostoevskij identificava specialmente nel cristianesimo ortodosso, amore per tutto il creato, specie per i peccatori, amore anche – e qua è la parte più difficile- per sé stessi nella serena accettazione delle proprie origini, delle proprie pulsioni, della propria individualità. Solo così si potrà accedere a quella vera libertà che consiste nella visione della consistenza divina del Creato, come dice un illuminante colloquio contenuto nel capito dedicato alla vita del padre Zosima: «È vero ‑gli risposi ‑ tutto è bello e buono, perché tutto è verità. Guarda il cavallo, questo nobile animale che vive accanto all'uomo, o il bove, triste e austero, che gli dà il nutrimento e lavora per lui, guarda i loro musi: quanta mansuetudine, quanto attaccamento all'uomo, che spesso li picchia senza pietà, quanta bontà e quanta fiducia, e quanta bellezza nei loro musi! E poi, è commovente pensare che loro non hanno nessun peccato, perché tutto al mondo è perfetto, tutto è innocente, meno l'uomo, e Cristo è con loro prima che con noi». «Ma è possibile ‑ mi chiese il giovane ‑ che Cristo sia anche con loro?». «E come potrebbe essere diversamente? ‑ gli risposi. ‑ Il Verbo è per tutti; ogni creatura, ogni essere, ogni fogliolina tende verso il Verbo, inneggia a Dio e piange le sue lacrime al Cristo, e lo fa senza saperlo, con il mistero della sua esistenza innocente.

martedì 21 aprile 2020

L'IDIOTA

555_L'IDIOTA ; Italia 1959. Regia di Giacomo Vaccari.

L’anno successivo a Umiliati e offesi, sceneggiato Rai del 1958, l’emittente televisiva nazionale italiana torna a trarre spunto da Fëdor Dostoevskij, stavolta con L’idiota, romanzo del 1869. E’ la conferma di un interesse della Tv di stato italiano per il formidabile autore russo: e forse la scelta de L’idiota come ulteriore testo di Dostoevskij da presentare al pubblico non è casuale o dettata da un generico intento didattico/divulgativo. Già nel 1954, solo dopo tre mesi dall’assoluta prima trasmissione televisiva della Rai, una domenica va in onda una rappresentazione teatrale, forma embrionale di sceneggiato televisivo, lunga 4 ore e in presa diretta, del capolavoro Delitto e castigo. Un testo che poi verrà riproposto con un adattamento più conforme al media televisivo, stavolta sul secondo canale nazionale, nel 1963. Sembra quindi esserci una sorta di insistenza nei confronti di Dostoevskij, che forse non solo è considerato uno dei maestri della cultura mondiale. La sua opera è certamente meritevole di essere divulgata a prescindere, ma l’autore russo è probabilmente ritenuto in Rai particolarmente adatto al panorama italiano dell’inoltrato dopoguerra. Chissà, forse è solo una suggestione che, in ogni caso, L’idiota, sceneggiato in sei puntate per la regia di Giacomo Vaccari, mandato in onda nel 1959, sembra confermarlo. Perché se tutta l’opera di Dostoevskij, tra le tante qualità non solo letterarie, è un balsamo contro il moralismo, L’idiota è, in questo senso, un vero antidoto. Al tempo l’Italia era ancora attraversata dalle scorie dell’ideologia conformista e retorica del ventennio, ma si faceva strada una nuova linea di pensiero, meno smaccatamente retorica ma altrettanto conformista nel suo proclamarsi antifascista in ogni ambito, anche in quelli meno inerenti. 

In questa situazione di opportunismo intellettuale, che segnerà l’elite culturale italiana negli anni a venire, la semplice e cristallina visione delle cose del Principe, lo spiazzante protagonista de L’idiota, doveva sembrare davvero provvidenziale. L’idiota di Dostoevskij (nello sceneggiato interpretato da uno straordinario Giorgio Albertazzi) è la personificazione del prekrasnyj, ovvero lo splendore della bellezza. Il Principe Myškin, l’idiota in questione, non è quindi tanto un uomo buono ed eccezionalmente compassionevole, o almeno non solo. E’ piuttosto l’incarnazione di una sua stessa frase che è divenuta celeberrima: la bellezza salverà il mondo. Sono parole dello stesso Principe e ne descrivono appieno il carattere. Gli occhi ingenui con cui guarda quello che gli sta intorno, la sua incapacità di contenere le emozioni, riflettono l’effetto della bellezza che egli vede e che, grazie alla purezza incontaminata del suo sguardo, riesce a cogliere in ogni persona, anche nella più abietta, e in ogni cosa del creato. 

Per questo, ai suoi occhi, la svergognata Nastas’ja Filippovna (nello sceneggiato Anna Proclemer) è una donna degna di rispetto. Non è solo la bellezza della donna, a colpirlo, ma anche la sofferenza patita, una caratteristica che nobilita la figura della discutibile dama e la eleva al di sopra delle bassezze di cui la stessa Nastas’ja si macchia. Ma anche nei confronti del fascino meschino e capriccioso di Aglaia (Anna Maria Guarnieri), il Principe non riesce a sottrarsi. Perché questi comportamenti odiosi della viziata ragazza non riescono a nascondere, ai candidi occhi di Myškin, l’amore e la sincera passione che la giovane nutre per lui. Il Principe, malato fin da piccolo di epilessia, era tornato dalla Svizzera nella natia Russia ma, pur essendo adulto, aveva un approccio alle cose, il comportamento e gli atteggiamenti, tipici di un infante. 

Per altro, su alcuni argomenti, come la pena di morte o le condizioni di vita delle classi meno abbienti, il giovane mostrava una consapevolezza assai più matura; ma il suo senso di giustizia, interpretato rigorosamente alla lettera, era considerato nello stesso modo, frutto cioè dell’ingenuità tipica dello sprovveduto. Quello che Dostoevskij efficacemente ci mostra, per contrasto, è la vera natura delle cose, ovvero quella interpretata dal Principe, senza la lente deformante dell’infrastruttura conformista con i suoi moralismi legati alla cultura e all’educazione sociale. E certamente l’autore russo aveva pensato tutto ciò per la Russia del XIX secolo ma, è possibile constatarlo facilmente, la sua metafora era funzionale anche nell’Italia del dopoguerra e, aimè, perfino a quella odierna. 
Anzi, se è possibile, negli smaliziati oltre ogni misura giorni nostri la capacità del Principe Myškin di vedere le cose nella giusta prospettiva, quella positiva, ci appare ancora più ingenua e quindi il messaggio di Dostoevskij addirittura più efficace. Il genio è proprio di coloro i quali riescono a cogliere quelle visioni con un tale anticipo che dopo 150 anni sono ancora moderne per non dire avveniristiche. La bravura delle squadra Rai, dal regista Vaccari ad Albertazzi, ma va sottolineato anche il commento musicale di grandissima suggestione opera di Luciano Chailly, è di rendere concreto sullo schermo il testo di Dostoevskij in modo efficace. Cosa non da poco, sia detto per inciso. 

Tra gli interpreti tanti attori di teatro, la cui recitazione un po’ enfatizzata è indispensabile per dare tono ad una messa in scena che non può, per limiti tecnici del mezzo televisivo dell’epoca, attingere troppo dalla regia. Oltre ai citati meritano una menzione almeno Sergio Tofano (nei panni di Ljebedev) e Lina Volonghi (in quelli della Generalessa Prokofievna), oltre ad uno strepitoso Gian Maria Volonté. L’attore milanese dà vita ad un impressionante Parfen Rogozin, le cui risate sguaiate sono anche più inquietanti del suo incedere col fatale coltello. Lui è l’anima nera, la metà oscura di Myškin, ed è un personaggio che, nel suo distruggere quello che non può possedere, porta all’estreme conseguenze le peculiarità di conformismo e moralismo. E potrà certo esserci più famigliare dell’ingenuo Principe. 


DOSTOEVSKIJ TRA LETTERATURA E TELEVISIONE: L'IDIOTA 

a cura di Antonio Gatti


Un treno che avanza faticosamente in un gelido Novembre russo: così inizia il romanzo di Dostoevskij. Si è allontanato da Varsavia, dall'ultimo punto dell'Europa cattolica e occidentalizzata e si dirige verso San Pietroburgo. Il contrasto tra parte occidentale e parte russa dell'Europa sarà un tema principale di Idiot; Vaccari non può usare il ricco simbolismo di Dostoevskij per accentuare questo contrasto, né ripetere tutti i monologhi del romanzo, quindi si affida a sua volta a un simbolismo particolare, tutto a carico dei bravissimi attori. Già nella scena iniziale, che ambienta sul famoso treno, fedelmente al romanzo, presenta due personaggi molto contrastanti: il funzionario Lebedev, interpretato da Sergio Tofano, mediocre, quasi compiaciuto del suo essere senza personalità (potrebbe essere italiano, polacco, o di qualsiasi altra nazionalità: non cambierebbe nulla, in questo quasi un precursore dell' "europeo" contemporaneo) e un personaggio assai più particolare, Parfen Rogozin, che nella sua esuberante mancanza di controllo su se stesso, nella sua radicale incapacità di saper tenere una via di mezzo, sprofondando sistematicamente nel male assoluto per impossibilità di compiere il bene perfetto, al quale però -lo sentiamo- vorrebbe aspirare con tutte le sue forze, viene ad essere un quadro perfetto dei problemi della Russia dei tempi, per come li concepiva Dostoevskij. Occidente e oriente, bene e male, gli attori dello sceneggiato sono bravissimi a veicolare i loro personaggi tra questi due estremi, ondivaghi, controversi. In mezzo c'è il principe Myskin. Vaccari capisce molto bene l'intento di Dostevskij, di fare dell' "idiota" un ponte tra gli estremi, una figura che cerca di riassumere tutte le spaccature profonde dell'essere umano col suo appello alla bellezza. Albertazzi, un po' più vecchio del principe Myskin del romanzo, è però perfetto per il ruolo sotto tutto gli altri aspetti. Myskin è un ponte tra occidente e oriente; russo di origine e di spirito, deve però all'occidente la sua parziale guarigione dall'epilessia e l'amore per l'arte; è un ponte tra innocenza e peccato inoltre: è attratto dalla capricciosa Aglaia, vedendo dentro di lei un principio di purezza, ma sente di dover salvare i due "peccatori" della storia: Nastas'ja Filippovna e Parfen Rogozin. I due personaggi sono straordinari nel loro autolesionismo feroce, in questo Vaccari, ancora una volta "legge" bene sotto le righe del romanzo di Dostoevskij. Nastas'ja e Rogozin due personaggi "estremi", molto provati dalla vita, alla pari del principe, ma al contrario di quest'ultimo non riescono mai a far pace con se stessi e provano quasi piacere nel vedersi sempre più schiacciati dal peso degli avvenimenti. 
Il principe, con una vocazione perfettamente cristica, cercherà di redimerli e mostrar loro la strada della bellezza. Fallirà. Dostoevskij in una lettera disse che lo spunto per Idiot gli venne dal Don Chisciotte di Cervantes. Ancora, sono presenti nel romanzo, come vedremo, continui riferimenti al Cristo morto. Al venerdì santo. Idiot è il romanzo di tutti i Don Chisciotte che credono ancora sia possibile salvare il mondo, e farlo tramite la bellezza; Idiot è anche il romanzo del Venerdì Santo, della sconfitta e del calare ancora nelle tenebre della malattia e della paura. Sarà una sconfitta momentanea, come quella del Venerdì Santo evangelico?
Uno sceneggiato quindi, fedele non solo alla lettera, ma anche profondamente allo spirito del romanzo di Dostoevskij. Certo, Vaccari ha dovuto tagliare alcune cose, specialmente la virulenta polemica anti-cattolica che è presente nel romanzo e che alcuni critici vorrebbero smussare, affermando che Dostoevskij in realtà voleva criticare la "burocrazia clericale" di tutte le confessioni cristiane, non solo della cattolica. Non credo, da questo romanzo la virata di Dostoevskij verso una profonda adesione agli ideali della chiesa ortodossa russa si fa brusca, e diventerà infine ufficiale nei Karamazov facendo del grande romanziere, negli ultimi anni della sua vita, quasi un profeta dell'ortodossia russa.


All'inizio e alla fine dello sceneggiato ci viene proposto il celebre dipinto Cristo morto nella tomba, di Hans Holbein il Giovane (1497-1543) quadro che aveva profondamente impressionato Dostoevskij, e di cui il principe Myskin parla molto nel romanzo, osservando che attraverso un quadro del genere si può perdere la fede (al tono possibilista di Myskin, l'assolutista Rogozin replica che, sì, infatti la fede si perde). E' il quadro della morte di ogni speranza. Anzi, della Speranza suprema. Lo rivediamo spuntare nel finale dello sceneggiato, appunto, quando il principe ripiomba nelle tenebre dell'epilessia, avvinghiato a Rogozin, anch'egli ormai schiacciato dal suo gesto omicida, scosso da risa e lacrime assieme, ancora una volta incapace di scegliere tra i due estremi. Eppure, nella tenebra, una speranza. Qua Vaccari, sembra addirittura andare oltre Dostoevskij, portando agli estremi il suo messaggio. Il grande russo, infatti, nel finale dell'opera si limita a constatare che il principe, il propugnatore della bellezza, è tornato un Idiota. E' il Venerdì Santo. Ma Vaccari aggiunge che, sopraggiunta la crisi epilettica definitiva il Principe "fuori dalla vita e dal suo straziante tempo, non poteva ora che riconoscere qualche altra misteriosa voce". E' un particolare che nel romanzo manca. Anche l'epilessia, per Vaccari, è un ponte, un ponte tra la "vita e il suo straziante tempo" e quella misteriosa voce che solo ai puri come il principe è dato di ascoltare. Nelle tenebre della sconfitta, la vittoria.


Anna Proclemer




Anna Maria Guarnieri


          

domenica 19 aprile 2020

UMILIATI E OFFESI

554_UMILIATI E OFFESI ; Italia 1958. Regia di Vittorio Cottafavi.

Fedele al suo orientamento didattico, la Rai, la televisione italiana di Stato, nei suoi primi anni di vita si prodigò in un’opera divulgativa di matrice culturale grazie ad un’oculata programmazione. Fiore all’occhiello dei palinsesti dell’epoca furono gli sceneggiati che proponevano in chiave televisiva i capolavori della letteratura mondiale. Si trattava di riduzioni sul piccolo schermo la cui resa era, in genere, sorprendentemente fedele, pur con i limiti tecnici del mezzo televisivo del tempo. Dopo una dozzina di titoli la scelta toccò un’opera di Fëdor Dostoevskij, Umiliati e offesi, sebbene ci fosse già stato il pionieristico esperimento con Delitto e castigo in un’unica lunghissima serata nel 1954. Quattro anni dopo gli stilemi dello sceneggiato si erano però affinati molto meglio anche se, a dir la verità, osservando Umiliati e offesi si può notare una sorta di aggiustamento, nello scorrere della visione, avvertibile nelle fasi iniziali. C’è ancora qualche incertezza, per via delle ricostruzioni eccessivamente posticce delle scenografie che, probabilmente, saltano maggiormente all’occhio quando la storia non ha ancora carburato per bene. Il primo episodio fatica, in effetti, a coinvolgere, l’ordito previsto da Dostoevskij non si è ancora ben delineato e le vicende sentimentali o gli intrighi d’interesse, sono ancora in quelle che sportivamente si definiscono fasi di studio. Umiliati e offesi è una versione dostoevskijana del romanzo d’appendice e non è considerato, abitualmente, tra le opere più importanti dell’autore, ma è pur sempre un lavoro notevole. 

E se gli anni dei melodrammi strappalacrime del cinema italiano sembravano passati di moda e il romanticismo puro in Umiliati e offesi fa capolino in qualche frangente, questo è ben bilanciato dalla sublime capacità di tratteggiare le psicologie dei personaggi tipica di Dostoevskij. L’opera, quindi, riuscì a interpretare bene il romantico sentimento popolare ancora diffuso, ma lo sguardo alto dell’autore russo, ben veicolato dal regista Vittorio Cottafavi, lo rese adeguato al tempo che si allontanava sempre più dai fiammeggianti anni cinquanta. Cottafavi in sede di regia è limitato dal mezzo televisivo, che non consentiva troppo spazio di manovra al montaggio (vera anima del cinema), ma si prende i suoi momenti con alcuni zoom sui volti dei personaggi, a sottolinearne l’espressività recitativa o i delicati passaggi della trama. 

La capacità di emozionare con l’interpretazione era indispensabile negli sceneggiati dell’epoca, in quanto la recitazione doveva supplire, in un certo senso, alle carenze tecniche della televisione e, per questo, si faceva spesso ricorso ad attori di solida formazione teatrale. Enrico Maria Salerno (Vanja), Vira Silenti (Natasha), Anna Maria Guarnieri (Nelly), Warner Bentivegna (Aliosha) e Mario Feliciani (il principe Piotr) sono solo i principali interpreti del grande affresco imbastito da Dostoevskij, reso in modo magistrale da un cast che si dimostra assolutamente all’altezza dell’arduo compito. Si è detto, Umiliati e offesi è una sorta di feuilleton, ma l’arte di Dostoevskij è superba, l’umanità che trasuda dalle personalità dei suoi personaggi ci tocca nel profondo e quindi, anche un romanzo d’appendice, se scritto dal formidabile autore russo, diventa un’esperienza catartica. E la televisione di stato italiana, al tempo, lo strumento che la rese possibile su larga scala: è davvero il caso di essere nostalgici.  


Anna Maria Guarneri



Vira Silenti


sabato 18 aprile 2020

LA CASA ROSSA

553_LA CASA ROSSA (The Red House); Stati Uniti 1947. Regia di Delmer Daves.


A dirigere La casa rossa troviamo quel Delmer Daves che, al tempo, dopo l’ottimo esordio (Destinazione Tokio, 1943) stava prendendo le misure con il mestiere di regista: è il 1947 e con il successivo La fuga, strepitoso noir dello stesso anno, si avrà un’ulteriore conferma della pasta del cineasta nato a San Francisco. Probabilmente, nella valutazione di La casa rossa, i meriti di Daves, che pure ci sono, finiscono un po’ offuscati dalla monumentale interpretazione di Edward G. Robinson. L’attore di origine rumena era al suo apice, avendo interpretato proprio in quegli anni in modo magistrale alcuni tra i maggiori capolavori del tempo (La donna del ritratto e La strada scarlatta di Fritz Lang o La fiamma del peccato di Billy Wilder, giusto per capirci). Ne La casa rossa Robinson dà vita ad un personaggio, Pete Morgan, mite in apparenza ma tremendamente malsano e che dietro la maschera di buon padre adottivo nasconde l’animo criminale e pervertito. La statura di Robinson, come attore, si può intuire anche dal fatto che La casa rossa è il primo film della sua casa di produzione (in società con Sol Lesser) ma l’interprete non ne approfitta per ritagliarsi un ruolo appariscente quanto, piuttosto, per prendersi la possibilità di dare maggiore intensità al proprio lato ambiguo. Qui va messa a referto l’abilità di Daves, che poi si ritroverà spesso, in modo alquanto inconsueto, nei suoi western, di esplorare gli aspetti torbidi della comunità americana senza varcare i limiti della censura. La casa rossa è un film di difficile definizione: figurativamente si presenta come un noir di ambientazione rurale (e quindi atipico), ha però i presupposti del thriller carico di tensione e alcuni spunti degni di un horror

Di nuovo va rimarcata la bravura di Daves in regia per la capacità di armonizzare queste diverse anime, aiutato in questo da autori di primissimo rango come Miklós Rózsa alle musiche e Bert Glennon a cui si deve la fotografia in bianco e nero. Il Pete interpretato da Robinson è un attempato fattore un po’ malmesso (ha una gamba di legno) che vive con la sorella Ellen, (l’inquietante  Judith Anderson; ricordate la governante in Rebecca, la prima moglie, 1940, di Alfred Hitchcock?) e Meg (Allen Roberts), una sorta di figlioccia adottiva. Una ben strana famiglia, quindi: non marito e moglie ma fratello e sorella e una ragazza che è adottata non si sa bene a che titolo. In realtà Meg è figlia della donna amata da Pete, ma questo è già parte del terribile mistero celato ne La casa rossa, un’abitazione nascosta nel bosco che l’uomo non permette a nessuno di visitare e di cui nega perfino l’esistenza. 


E quando qualcuno parla di attraversare quel bosco, con l’inconsapevole rischio di imbattersi nella misteriosa costruzione, ad esempio Nath (Lon McCallister), emerge la natura ambigua, duplice, di Pete che si trasforma da amabile contadino in inquietante e pericoloso individuo. Nella capacità di mostrare una doppia anima Robinson è naturalmente superlativo e Daves, coautore anche della sceneggiatura, rincara la dose disseminando la storia di indizi per segnalare la natura duplice della vicenda oltre che del personaggio cardine. I pochi interpreti della storia formano una serie sorprendente di coppie che rimarcano infatti il tema: Pete, già duplice di suo, vive in coppia con Ellen, che ha pure un’anima ambigua; e sono fratello e sorella e non coniugi, altro elemento che ha un che di torbido, date le circostanze. 

Idealmente l’uomo avrebbe voluto accoppiarsi con la madre di Meg; donna che non compare effettivamente nella storia, essendo già morta, se non nei ricordi e nella follia di Pete, che la rivede nella figlia. Meg e sua madre costituiscono quindi un abbinamento, oltre che naturale anche nella pazzia di Pete; la madre aveva chiaramente un altro uomo, il padre della ragazza, coppia nella vita (e nella morte). Dal canto suo Meg forma un'altra coppia andando a soffiare Nath, il ragazzo che dava una mano a Pete, alla fidanzata Tibby (una già sontuosa Julie London). Meg e Tibby sono quindi la coppia di ragazze che si contendono Nath; ma c’è anche Teller (Rory Clahoun), l’aitante guardiano del bosco proibito che flirta con Tibby e si scontra con Nath. 


E se questa chiave di lettura può sembrare una forzatura, visto che è nella natura umana l’attitudine di accoppiarsi, va sottolineato come l’intreccio si soffermi ad abbinare anche i personaggi meno importanti, come ad esempio il dottore, di cui si specifica avesse un’intesa con Ellen mentre la madre vedova di Nath, (Ona Munson) per poter uscire da una storia a cui sarebbe stata forse d’intralcio, viene spinta a maritarsi proprio dal figlio. E poi la gamba che Meg si rompe che va a fare il paio con quella di legno di Pete, ci indica che si, il tema del doppio è forzato ma nel senso di malsano, quasi incestuoso, visto che l’uomo si spaccia per padre adottivo della giovane ma ne rivede in lei la figura della donna amata. La storia, già dal colore evocato dal titolo, ricorda in qualche passaggio la fiaba di Cappuccetto Rosso, con il bosco a rappresentare il pericolo. Ma al centro del bosco c’è una casa, una costruzione umana, vero epicentro della tragedia; il pericolo è quindi legato all’indole umana e non alla Natura ed è rappresentato dal terribile segreto che Pete serba dentro di sé. E i veri protagonisti della storia Nath e Meg, mentre nel bosco cercano la strada che porta alla casa rossa, trovano anche quella che li unisce attraverso la moltitudini di combinazioni, di differente natura, che i personaggi della storia intessono. L’umanità è una giungla peggiore di qualunque foresta. E molto più pericolosa.  




           
Allene Roberts



Ona Munson


Julie London