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sabato 28 dicembre 2019

IL RITORNO DEI MAGNIFICI SETTE

485_IL RITORNO DEI MAGNIFICI SETTE (Return of the Seven); Stati Uniti, 1966. Regia di Burt Kennedy.

Burt Kennedy è una cineasta serio; magari non propriamente un autore come si intende qui in Europa, ma è un professionista in gamba e competente. Non per niente è anche uno sceneggiatore (memorabili le sue collaborazioni con Budd Boetticher, tra cui i notevoli I sette assassini, L’albero della vendetta e La valle dei Mohicani), e se c’è una cosa su cui si può stare sicuri, è che gli sceneggiatori di Hollywood sono persone dedite al lavoro. Comunque, per questo Il ritorno dei Magnifici Sette il nostro Burt si cimenta solo alla regia, lasciando la sceneggiatura al giovane Larry Cohen. Il film è il sequel del fortunato I Magnifici Sette di John Sturges che, nel 1960, diede una scossa al genere western; e questo è forse l’elemento più rilevante di quell’opera ma, purtroppo, è anche l’aspetto che meno può essere replicato. La figura dell’anti-eroe ha già fatto il trionfale ingresso nella storia del genere western con I Magnifici Sette e, quindi, qualunque riproposizione della formula non può certo pretendere di avere anche solo il  riflesso di quel successo. Per cui, meno male che in regia c’è Burt Kennedy che, se è scontato che debba provare a replicare il capostipite, perlomeno si preoccupa che il suo film abbia comunque la dignità di opera cinematografica. Del cast originale rimane solo Yul Brynner nei panni di Chris, mentre la parte di Vin tocca a Robert Fuller  (pare che Brynner abbia posto il veto sulla partecipazione di Steve McQueen), mentre l’ultimo dei Sette originali che è rimasto, Chico, è qui interpretato da un anonimo Juliàn Mateos (in luogo dell’ambiguo ma carismatico Horst Buchholtz). 

In generale il livello qualitativo del gruppo di personaggi al centro della storia è inferiore a quello precedente, sebbene siano interessanti Warren Oates nei panni di Colbee (il dongiovanni) e Claude Akins in quelli di Frank, l’aspirante suicida. Curiosa la presenza di Fernando Rey nel ruolo del prete, mentre più ambigua e sfaccettata la figura del cattivo di turno, Lorca a cui dà la grinta Emilio Fernandez. Questi non è il classico prepotente avido che sfrutta i peones messicani; no, Lorca dice di avere motivazioni più profonde e serie. Lui vuole che i contadini costruiscano una chiesa come santuario alla memoria dei suoi due figli morti durante una delle tante guerre locali: se i peones non combattono quando c’é da combattere, almeno che dessero il loro contributo alla memoria di quelli che in battaglia c’erano morti. 

In realtà, i due figli di Lorca era ben lungi dall’essere gli eroi che voleva il padre; forse proprio il senso di colpa verso i figli mandati controvoglia a combattere e a morire, dava origine alle insane pretese dell’uomo nei confronti dei poveri contadini. In ogni caso è uno spunto critico interessante perché, pur con tutti i distinguo del caso, un certo opportunismo dei peones, che avevano certamente la giustificazione di una vita dura e poverissima, li metteva spesso nelle condizioni di subire le angherie dei prepotenti piuttosto che provare a ribellarsi. Ma si tratta solo di un'interpretazione, vista poi nell’ottica del cattivo della storia e quindi non può certo dirsi condivisa dagli autori; ma il rilievo rimane.
Nel complesso il film è un piacevole pretesto per godersi le straordinarie musiche di Elmer Bernstein, le stesse del capitolo originale, riproposte anche per questa seconda avventura dei Sette.








Lola Montés





venerdì 27 dicembre 2019

LE PISTOLERE

484_LE PISTOLERE (Les pétroleuses); Francia, Italia, Spagna, Regno Unito, 1971. Regia di Christian-Jaque.

Le pistolere: ovvero come sprecare la presenza scenica di due icone del cinema per un film che, se preso per quello che racconta, non può essere valutato più che insulso. Spiace dover costatare come il regista e in generale tutta la produzione si siano rivelati lontanissimi da una competenza almeno minima, nella realizzazione della pellicola. Nel film non si salva praticamente nulla, se non i fotogrammi e qualche scena che vede le due dive protagoniste, Brigitte Bardot e Claudia Cardinale. Notevole la Bardot in completo attillato nero, ma apprezzabile anche nel più femminile vestitino tutto rosa; di livello anche le repliche della Cardinale, da ricordare le scollature generose e la scena in cui in calze a rete e corpetto si improvvisa cantante. Nello specifico, almeno in parte condivisibile il commento di BB sulla voce da ‘ zio pescivendolo’ della pur favolosa attrice italiana: in fondo quello è da sempre il tasto veramente dolente della bella Claudia. Naturalmente tutto il film gira intorno allo scontro finale corpo a corpo tra le due donne, nel quale se le danno di santa ragione. Le due dive fondano la fortuna cinematografica sulla loro avvenenza e non tanto sulle capacità prettamente recitative, sebbene in altre occasioni si siano ampiamente fatte valere anche in questo contesto. Non è certamente questo il caso, visto che l’interpretazione delle due bellissime attrici non è certo memorabile sotto questo profilo, ma per questa volta possiamo ascriverne l’intera responsabilità al copione davvero di basso spessore. In ogni caso sia Brigitte che Claudia, se c’è un obiettivo nei paraggi, sanno sempre come salvare la baracca, perlomeno per quel che le concerne. Decisamente più arduo trovare il modo di cavar fuori qualcosa di buon dal lavoro di regista e produzione.
















Claudia Cardinale









Brigitte Bardot












giovedì 26 dicembre 2019

STAR WARS: L'ASCESA DI SKYWALKER

483_STAR WARS: L'ASCESA DI SKYWLAKER (Star Wars: The rise of Skywalker); Stati Uniti, 2019. Regia di J. J. Abrams.

Nove film; oltre venti ore di racconto filmico; tre trilogie; decine di personaggi, molti dei quali trapassati nel corso della storia, spesso in maniera tragica (il titolo della serie ci avvisa, c’è di mezzo comunque una guerra, benché poi il genere sia tra l’avventura fantastica e fantascientifica). Vicende di padri, figli, nipoti, questioni dinastiche che si snodano e si intrecciano per tutta la narrazione. Insomma, una lunga epopea. Poi, in quella che è comunque una fine (perlomeno della terza trilogia), Rey (Daisy Ridley), l’eroina sopravvissuta di tutta la questione accennata sopra, si reca sul pianeta Tatooine, dove, in un certo senso, ogni cosa è cominciata. Si tratta di un momento emozionante, oltre che nel finale del film siamo in un luogo tra i più rilevanti dell’intera saga, come ogni fan che si rispetti può confermare. Il cielo incendiato dal tramonto dei due soli del pianeta illumina la desolate lande desertiche di Tatooine. Eppure, proprio in quel momento, di fronte a Rye e al suo fido BB-8, il simpatico droide, compare una figura umana. E’ una donna anziana, che chiede alla nostra eroina chi sia. “Sono Rye”, risponde quindi la ragazza. La replica della vecchia è la stessa che vi possono fare in Brianza oppure in Lucania o in qualunque altro posto, senza che state a girare per mezza galassia: “Rye chi?”. Eccolo, quindi, condensato in un’unica stringata ed ironica scena, il senso di Star Wars, e non solo di episodio IX, ma di tutta quanta la serie. Il tema della straordinaria saga creata da George Lucas è tutto qui, ed è la sublimazione perfetta del sogno americano e non solo al cinema ma in un senso più globale. 

La società americana ha sempre celebrato la capacità di farsi da sé, cosa resa possibile dall’avere un continente a disposizione per ripartire da zero (con buona pace dei poveri nativi). In America si raccontava che, chi eri, da dove venivi, chi era la tua famiglia, e tutte quante le eredità genetiche, contavano molto relativamente, soprattutto rispetto all’Europa che, al contrario, nella importanza delle origini credeva in modo convinto. L’eroe europeo, anche quando appariva in vesti umili, era sempre di stirpe nobile; perfino la religione rispettava (e rispetta) questo dogma. E’ solo con la leadership americana che la cultura occidentale si svincola completamente dai legami di sangue (almeno a livello concettuale): il vero significato del sogno americano non è in chiave economica ma da un punto di vista dinastico per non dire genetico. 

E’ quindi di questo che ci parla tutta la saga di Guerre Stellari, di come non conti essere o non essere il figlio di uno Jedi per poterlo diventare. Non è tanto nella propria origine o natura quanto piuttosto nella volontà, nell’addestramento, nella dedizione, che si possono compiere imprese anche mirabolanti. E’ un tema in apparenza semplice, ma Star Wars è una saga che nasce e si sviluppa per raccontare ai ragazzi (di ogni età), avidi non solo di avventura e sentimenti, ma anche di riferimenti. Non è un particolare da poco, quando si parla di prodotti popolari che per loro natura sono destinati per lo più ad un pubblico giovane: sono da evitare assolutamente il politicamente corretto, che crea da una parte noia mentre dall’altra alimenta facili alibi di coscienza, ma anche la violenza gratuita o una sterile assoluta mancanza di coordinate morali. E’ quindi da salutare positivamente il passo indietro rispetto al precedente episodio che, in ossequio alle nuove direttive Disney, aveva lanciato segnali politically correct più incisivi. In ogni caso, il cinema popolare svolge una funzione educativa, che lo si voglia o no, ed è importante, anzi fondamentale, la tipica lezione americana. In apparenza Rye non è nobile, non è nessuno, ma può essere comunque l’eroina della nostra storia. 


Non serve avere poteri speciali per fare il proprio dovere, (che nel caso di un eroe è sacrificarsi per il bene collettivo, ma è un esempio valido per tutti), basta volerlo fare e impegnarsi al massimo. Non ci sono alibi, per lo spettatore, che è chiamato, proprio per la natura emulativa indotta dai racconti d’avventura, ad imitare il personaggio protagonista; poi, se non proprio nella realtà concreta di tutti giorni, perlomeno nel modo di approcciare la vita. Sono questo tipo di film o racconti, guardati e letti prevalentemente per svago e divertimento, che sono cruciali nella formazione educativa, in modo infinitivamente maggiore rispetto a quei sistemi che si spacciano come didattici ma che, in genere, sono assai poco incisivi.  

In L’ascesa di Skywalker scopriremo poi che non solo Rye non ha una origine eroica alle spalle, ma è addirittura nipote di Palpatine (Ian McDiarmid), signore dei Sith. Il che, a parte le obiezioni in tema di plausibilità narrativa che si sono dette qua e là, rincara la dose: l’eroe della storia, o meglio l’eroina, è della stirpe di Caino. E i suoi dubbi, nel film, rappresentano le perplessità e le difficoltà nella vita di ognuno; il successo le sorriderà facendo tesoro dell’esperienza dei suoi predecessori (“E con me ci sono tutti gli Jedi!” grida nel momento finale che la vede sconfiggere Palpatine) ma fondamentale le è l’aiuto di un altro grande personaggio di questa trilogia, (forse il migliore in assoluto): Kylo Ren (Adam Driver) alias Ben Solo. 

Kylo Ren è l’angelo caduto che è in grado di rialzarsi e tornare nella schiera dei buoni (che già solo questo è tanta roba) ma è anche un eroe moderno, capace di lasciare la ribalta ad altri (Rye), facendo la sua parte cruciale e determinante senza ricavarne indietro nulla, se non la serenità di poter morire avendo dato la vita in cambio di una nobile causa. Sono temi importanti anche se semplici, adeguati ad un testo che andrà in pasto a giovani e giovanissimi (oltre che a troppo spesso noiosissimi attempati fan ipercritici), ma sono ben celati all’interno di una storia che si divora per quanto è avvincente e spettacolare. Ed è così che funziona, al suo meglio, il cinema popolare. 

Gli intrecci della trama sono ben congeniati e, nonostante sia prevedibile il finale, la trappola narrativa in cui si trova Rye quando vede i suoi compagni sul punto di soccombere sembra poter avere effetto. L’intervento provvidenziale anche se provvisorio di Ben Solo, e anche un arrivano i nostri vecchia maniera guidato da Lando Carlissian (Billy Dee Williams), ridanno fiducia alla nostra eroina che poi risolve la questione principale da sola ma al tempo stesso con l’ausilio di tutti gli Jedi, chiamati in causa nella scena citata. Quanto ai passaggi forzati della trama, alle incongruenze piccole o grandi, (in una saga che dura da più di quarant’anni), quelli che li hanno sottolineati ricordano troppo la vecchia del finale del film non soddisfatta dalla prima risposta di Rye, per sprecare tempo a replicare.
E’ Guerre Stellari, diamine!   




Daisy Ridley




Carrie Fisher