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martedì 26 novembre 2019

ADIDAS VS PUMA

453_ADIDAS VS PUMA (Duell der Brüder - Die Geschichte von Adidas und Puma); Germania, 2016Regia di Oliver Dommenget.

L’idea di un film che parli di una rivalità prevalentemente commerciale, è l’indice di quanto i prodotti, le merci, siano diventati importanti nella nostra società. Adidas Vs Puma – Due fratelli in guerra, tv-movie di Oliver Dommenget racconta, in modo romanzato, la storia e la nascita della rivalità tra i fratelli Dassler. Il film è una produzione onesta, anche se la scelta della fotografia invecchiata può anche rapidamente stancare; l’impressione ricercata è quella delle vecchie pellicole in bianco e nero colorate in seguito, un espediente che era usato anche in fotografia. In ogni caso si tratta di un aspetto abbastanza marginale. Interessanti i dettagli tecnici, ad esempio il vecchio laboratorio dove Adolf Dassler (Ken Duken), detto Adi, realizzava i suoi prototipi di scarpe sportive. Le rispettive vicende sentimentali di Adolf e del fratello Rudolf (Torben Liebrecht), e il rapporto tra di loro, sorregge la trama garantendo l’interesse emotivo alla vicenda. Per la verità si scava eccessivamente nel torbido dei nuclei famigliari dei fratelli, con risvolti piuttosto conditi che infiammano la rivalità dei due Dassler, sempre sul punto di tramutarsi in odio. In particolar modo quando entra in gioco il nazismo, con l’adesione al partito da parte di Rudolf, lo scoppio della guerra e la successiva occupazione americana. I fratelli continuano a collaborare mentre il loro rapporto progressivamente si deteriora; poi Rudolf parte per il fronte, Adi è costretto a convertire la fabbrica per produrre bazooka. Finita la guerra, c’è un’indagine degli alleati per l’operato dei fratelli durante il conflitto e, dopo che le reciproche accuse sono cadute, i Dassler finalmente si dividono. In principio la Adidas è avvantaggiata dall’avere la capacità di produrre: Adi è l’artigiano tra i due. 

Ma ben presto la maggior predisposizione al commercio di Rudolf spinge la sua Puma al vertice. Almeno finché non rinuncia alla fornitura e sponsorizzazione della nazionale della Germania Ovest ai Mondiali di Calcio del 1954. Un errore di valutazione imperdonabile per Rudolf Dassler che, tra l’altro, era quello con vocazione manageriale dei fratelli. La scelta della Puma spiana la strada all’Adidas: la pioggia, nella finale con la favoritissima Ungheria, lancerà i tedeschi verso il loro primo titolo mondiale, anche grazie alle calzature dalle tre strisce più adatte al terreno bagnato. Insomma, il film non è affatto male e nel complesso risulta anche interessante. 

La cosa di maggior rilievo è però sorprendersi curiosi di una storia che riguarda più che altro lo sviluppo di due note aziende sportive. Le fabbriche di scarpe e abbigliamento sportivo nacquero per fornire i prodotti che agevolassero le prestazioni degli atleti nelle rispettive discipline: quindi, all’origine, l’interesse del pubblico era concentrato sugli atleti. Ora la stessa storia di questi marchi è divenuta oggetto di curiosità, con una rivalità commerciale, in questo caso addirittura incendiata dalla parentela dei rispettivi titolari, che si erge al centro della scena quasi affiancando la competizione sportiva. La finale mondiale, nel film, diventa un episodio cruciale si, ma per i suoi effetti collaterali, e non per il risultato sportivo in sé. C'è quindi una rivalità tra aziende che si riflette poi sui propri clienti che, sovente, diventano sostanzialmente come tifosi di quello che dovrebbe essere meramente un brand commerciale. E’ un po’ come se il marchio di fabbrica si sovrapponesse, a questo punto, allo stemma della squadra per cui fare il tifo. Mentre i club sportivi diventano società per azioni in cui il dato più rilevante è il fatturato, le aziende sono riferimenti da sostenere con il proprio supporto quando non vero e proprio tifo.  Ma perché stupirsi; in fondo, la libera concorrenza è la forma di competizione attualmente più diffusa.




Picco von Groote



Nadja Becker





lunedì 25 novembre 2019

OMBRE BIANCHE

452_OMBRE BIANCHE (The Savage Innocents); Francia, Italia, Regno Unito, 1960Regia di Nicholas Ray.

Generalmente inteso come il primo segnale del declino del regista Nicholas Ray, Ombre Bianche è in effetti un film irrisolto. Coadiuvato in regia da Baccio Bandini, per alcune riprese in esterni girate in Canada di cui, per altro, pare che la maggior parte andò perduta, Ray si propone un progetto assai ambizioso. The Savage Innocents, questo il titolo originale dell’opera, è un film d’avventura ambientato tra i ghiacci artici e ha come protagonista Inuk (Anthony Quinn: eschimese improbabile ma prestazione efficace). Si intuisce il tentativo di riequilibrare, o di valutare con occhi nuovi, il rapporto tra selvaggi e colonizzatori, laddove i primi erano le popolazioni primitive ed ingenue e i secondi erano i rappresentanti del mondo occidentale, prevalentemente incarnanti lo spirito anglosassone. E questo, al cinema, non può che far venir in mente l’epopea del Far West. In effetti gli eschimesi sono considerati parte del popolo dei nativi americani e quindi una certa analogia con il genere western si può imbastire. Spostare il terreno d’azione fuori dai confini tradizionali del genere, unitamente ad altre significative differenzazioni, sembrano indizi che ci dicono che Ombre bianche (titolo italiano che, per una volta, funziona nel suo ricordare il celebre capolavoro di John Ford, Ombre rosse) è però una sorta di western alternativo. Gli inuit in luogo dei pellerossa, le distese artiche al posto delle praterie, mentre, in fondo, i canadesi, predicatori o agenti di polizia che siano, sono gli stessi visi pallidi della conquista del west. Che Nicholas Ray può riscrivere dal principio, visto che gli eschimesi non conoscevano ancora l’uomo bianco. 

E’ qui che il regista, probabilmente, azzarda un paragone che finisce per funzionare poco ed inficia la resa complessiva del film. La figura del giovane inesperto, ingenuo, puro, già vista più volte nelle opere di Ray, è qui destinata a Inuk che non è però un personaggio credibile (già Quinn non aiuta, in questo, non assomigliando in nulla ad un eschimese), quanto un simbolo di un intero popolo. Allo stesso modo le controparti bianche, specialmente il predicatore, (mentre l’agente interpretato da Peter O’Toole sembra meno grezzamente stilizzato) sono figure monodimensionali se non poco credibili, certamente non interessanti nella loro completa ottusità. 

La stilizzazione delle figure, funzionale quando si resta in ambito individuale, rischia di produrre meri stereotipi se viene proposta per rappresentare interi popoli o culture. E’ infatti qui che Ombre bianche segna il passo: la contrapposizione tra il buon selvaggio, l’ingenuo Inuk, e l’arrogante e supponente predicatore (Marco Guglielmi) è eccessivamente schierata a favore del primo. Cioè, lo è da un punto di vista narrativo, per essere ancora interessante nel 1960; per assurdo è possibile che non sia poi così distante dalla realtà storica ma, rappresentarla all’alba degli anni sessanta, sembra piuttosto una faziosa, e per la verità un po’ infantile, difesa oltranzista delle ragioni dei nativi contro ogni realistica, approfondita e sfaccettata, ricostruzione degli avvenimenti. Curiosamente, in questo senso, i toni scelti da Ray anticipano la moda dei controwestern, che raggiungeranno uno degli apici con Soldato Blu (regia di Ralph Nelson), dieci anni più tardi. In questi film, per criticare la politica bellica americana in Vietnam, si raccontò l’epopea western con una divisione manichea tra buoni e cattivi come non si vedeva da decenni ma, cosa cruciale, con i ruoli completamente ribaltati: gli indiani erano i buoni e i bianchi i cattivi. Che poi, in buona sostanza, era anche la visione più prossima alla verità di ciò che accadde, se vogliamo dare un carattere etico e morale alla Storia. 


I bianchi invasero di fatto le terre abitate dai pellerossa, provando, riuscendoci, ad imporsi sul territorio, sia fisicamente che culturalmente. Che peraltro è quello che avviene normalmente durante una conquista, ed è quello che, in parte, racconta Ray nel suo Ombre bianche, anche se, a vederlo oggi, sembra un tantino troppo semplicistico. In questo senso il film del regista americano paga un po’ il suo essere ingenuo, nel raccontare banalmente quello che accadde per sommi capi, mentre lo spettatore moderno ha forse bisogno di trovare torto e ragione maggiormente frammentati, e non sbilanciati a senso unico come nel caso di Ombre bianche

E’ però un peccato che tale aspetto vanifichi, almeno in parte, il lavoro di Ray, che invece era molto valido e degno di nota sotto molti altri punti di vista. Innanzitutto è da lodare la stessa idea di mettere al centro dell’opera un popolo in genere ignorato e di esaltarne alcune peculiarità non solo pittoresche ma, soprattutto, molto interessanti: dal linguaggio che non prevede l’uso della prima persona, all’incapacità di comprendere il concetto di menzogna. E poi la messa in scena di Ray è eccellente, al di là di qualche scena girata palesemente coi trasparenti; probabilmente a causa del fatto che alcuni degli esterni girati da Bandini in Canada finirono in mare insieme all’aereo che li trasportava. Ma nel complesso la cura formale è notevole, ad esempio l’uso del colore in un paesaggio dominato dal bianco, come anche il modo in cui il cinemascope venga esaltato dalle distese orizzontali ghiacciate dell’artico. 


In un film con un cast ridotto all’osso, le figure femminili hanno un discreto spazio: tra queste va ricordata soprattutto Yōko Tani  che interpreta Asiak, ragazza simpatica e acuta oltre che carina, scelta da Inuk dopo un eccessivo cincischiare. Pare invece che nei panni di sua madre Hiko, una coraggiosa vecchietta, ci sia solo un’omonima della leggendaria star cino-americana Anna May Wong (ma l’interprete chiamata in causa fornisce per altro una prestazione affidabile). L’opera ha alcuni limiti, questo va riconosciuto, del resto è una produzione anglo, italo francese e, pur essendo tre scuole di primissimo livello, la capacità organizzativa hollywoodiana, in un film da girare in ambiente ostile, non poteva essere certo eguagliata facilmente. Però, forse, il limite maggiore dell’opera è, come detto, nello spettatore: troppo smaliziato, per credere ad un eroe onestamente ingenuo come Inuk. O ad un regista ingenuamente onesto come Ray.   




Yōko Tani







        

domenica 24 novembre 2019

RULLO DI TAMBURI

451_RULLO DI TAMBURI (Drum Beat); Stati Uniti 1954Regia di Delmer Daves.

A Delmer Daves dobbiamo la regia di L’amante indiana (1950), quello che viene spesso considerato il primo film di successo che dava spazio anche alle ragioni degli indiani nella controversa conquista del west. E non è un merito da poco, visto che, incautamente, per troppi la svolta filo indiana del genere western avvenne solo con la corrente revisionista degli anni 70. Al contrario, il successo di L’amante indiana fu significativo, tanto che già nei successivi anni 50 si sprecano gli esempi di film che ristabilirono ragioni e torti bilanciandoli a favore delle popolazioni native. Tuttavia Daves, solo quattro anni dopo il suo film spartiacque, aveva già in serbo un’altra sorpresa. E’ infatti il 1954 quando scrive il soggetto, sceneggia, coproduce e infine dirige Rullo di tamburi, già eccellente come western ma che merita il titolo di capolavoro per la maturità di cui è intriso. Qui gli indiani non sono più né buoni né cattivi ma unicamente una delle parti in causa. Il personaggio di Capitan Jack, storico leader della tribù Modoc, interpretato da un Charles Bronson forse nella sua migliore interpretazione, è davvero memorabile. Non è un eroe positivo, proprio per nulla, anzi. Sembra piuttosto una sorta di criminale, ma ha certamente una sua coerenza che gli merita il rispetto del protagonista ufficiale del film, Johnny MacKay (Alan Ladd). Questi è il classico eroe western, svelto di mano e di pistola ma, in questo caso, costretto dalla Storia (che gli parla nelle vesti del presidente degli Stati Uniti), a deporre le armi e cercare una soluzione pacifica alla questione indiana

C’è, e qui potrebbero insorgere delle criticità nell’opera, una eccessiva idealizzazione della nazione americana, con il presidente Grant (Hayden Rorke) e tutti i politici e gli ufficiali coinvolti, dipinti come uomini di buon senso e pacifisti. Ma, da questo punto di vista, forse Daves fa un’operazione consapevole tratteggiando una nazione non come è nella realtà ma come dovrebbe essere da un punto di vista teorico. L’arrivo di Johnny a Washington, i bambini di colore che giocano fuori dalla Casa Bianca, il militare nordista, mutilato di guerra, che li osserva benevolo, l’assoluta mancanza di ostacoli, barriere o formalità burocratiche per conferire con il Capo dello Stato a stelle e strisce, infine MacKay, il cacciatore di indiani vestito da cacciatore di indiani, che viene accolto nel salotto buono dal presidente Grant e dai suoi famigliari a discutere amichevolmente: può essere ritenuta una sequenza credibile? C’è una didascalia, ad inizio pellicola che, nel reclamare una generica attendibilità complessiva del racconto, ammette alcune imprecisioni storiche, per finalità narrative: forse la sequenza iniziale descritta è una di quelle. Ma più in generale dovremmo dire che a non rispettare una ricostruzione credibile dei fatti sono tutte quelle inclinazioni positive sparse a piene mani da Daves, prevalentemente sul versante bianco ma non negate nemmeno ai Modoc. 


In questo film sembra infatti che l’opinione politica ufficiale degli Stati Uniti, dalla presidenza ai generali dell’esercito, voglia risolvere la questione indiana pacificamente; anche tra i Modoc c’è chi, come la dolce Toby (Marisa Pavan) o il valoroso e mite Manok (Anthony Caruso), vuole far cessare le ostilità, ma sembrano poco numerosi. C’è quindi uno sbilanciamento, in quanto sembra che la pace sia un obiettivo che prema maggiormente ai bianchi piuttosto che agli indiani: il che potrebbe essere anche un fatto storicamente credibile, visto che nel 1872, anno di ambientazione degli eventi, i pellerossa in questione erano già stati confinati nelle riserve e l’accettazione dello status quo era perciò logicamente allo stesso modo sbilanciato a favore degli occupanti. Del resto Capitan Jack non fa che ripeterlo: egli vuole per se tutta la valle del Lost River che, se possono essere vere tutte le osservazioni di natura pratica che Johnny cerca di fargli comprendere (dai trattati stipulati, al lungo lasso di tempo che vede i coloni aver occupato queste terre), nessuna di queste può smentire il fatto che per lo stile di vita dei nativi quello spazio sia indispensabile. La figura di Capitan Jack assume via via, nel corso del lungometraggio, una tridimensionalità insospettabile all’inizio: bellicoso, violento, scaltro, poco incline al rispetto delle regole (anche a quelle morali, si veda la questione della divisa e delle medaglie al valore usurpate agli ufficiali uccisi), ha però una sua forte coerenza interiore. 


Di fronte al patibolo che lo attende, non si preoccupa della propria vita ma nemmeno ripensa con rimpianto alle scelte dissennate che lo hanno portato a quel punto. E’ anzi orgoglioso di aver dato battaglia agli invasori bianchi, ma rispetta il valore di Johnny: addirittura si offre di raccomandarlo al Dio degli indiani per consentire, quando sarà il momento, al suo valoroso nemico bianco il libero accesso a quello che, secondo i suoi convincimenti, è il paradiso esclusivo dei pellerossa. Non è che Daves stia ritirando la mano dopo aver tirato il sasso, ovvero edulcorando un po’ il finale per non far sembrare il suo film troppo critico con gli indiani. Questo modo semplice di tratteggiare la psicologia di Capitan Jack, che forse non è nemmeno troppo distante dall’essere credibile, serve a far comprendere l’estrema difficoltà nella quale si trovarono le popolazioni native al cospetto dell’invasione bianca. Abituati a risolvere in modo sbrigativo le controversie, visto che l’enorme spazio a disposizione permetteva la convivenza non necessariamente del tutto pacifica, i pellerossa furono travolti dall’arrivo dei bianchi che li misero di fronte a problemi irrisolvibili se affrontati seguendo il pensiero indiano. In questo senso non sembra affatto fuori posto l’ottusità di Capitan Jack che rivuole la sua valle oppure una guerra totale; Toby e Manok si dimostrano più ragionevoli, perché sembrano essersi evoluti nel senso di un’integrazione coi bianchi, la ragazza addirittura vorrebbe sposarsi con Johnny. Ma si tratta di un’evoluzione forzata, si potrebbe ferocemente ironizzare dicendo obtorto collo, pensando appunto a Capitan Jack appeso alla corda della forca. Come si vede, il nodo più spinoso di Rullo di tamburi, ovvero l’ottica in cui è vista la questione indiana, non è affatto così scontato come può apparire a prima vista. 


E’ però da un punto di vista prettamente cinematografico che Daves si supera. Girato in uno sontuoso CinemaScope in cui il regista sfrutta ogni angolo dello schermo per far sbucare i Modoc minacciosi durante le scene di battaglia, incendiato dai colori WarnerColor immersi nella luce calda dell’Arizona (anche se il film è ambientato in Oregon), Rullo di Tamburi è un western classico formalmente impeccabile. 

Daves illumina le rocce assolate e le nuvole di polvere delle distese desertiche del southwest americano e, accompagnato da un classico ed evocativo commento sonoro opera di Victor Young, imbastisce una vicenda dalla trama ben strutturata. Al di là dell’evidente scorrevolezza del testo, immancabile in ogni western hollywoodiano dell’epoca, Daves imposta la sua storia in modo preciso e calcolato. Un indizio di questo suo lavoro ce l’abbiamo subito: il film si apre (e si chiude) su una fila ordinata di indiani a cavallo. La cavalleria dell’esercito americano è uno dei miti assoluti del cinema hollywoodiano (si pensi alla trilogia fordiana) ma Daves dedica inizio e fine del suo Rullo di tamburi agli indiani a cavallo. Le note della canzone sui credits di testa e i tamburi modoc, evocati anche dal titolo dell’opera, alimentano la marzialità di questa scena. E questa ribalta concessa due volte agli indiani è già un forte segnale di rispetto e ammirazione per i nativi americani di per sé stesso. 


Se gli indiani a cavallo vengono quindi esaltati, di contro, nel film, le giubbe blu andranno alla carica a piedi, con un ribaltamento dei ruoli simbolico nel quale il regista sfrutta a dovere un dettaglio storico. Pare infatti che nella caccia a Capitan Jack le truppe americane non poterono usare i cavalli per via della natura sconnessa e impervia del terreno. Daves sembra quindi ribaltare i canoni classici del cinema western: indiani a cavallo sui titoli di testa, giacche blu alla carica a piedi. L’impostazione generale della questione riprende, almeno sommariamente, questa specularità: tra gli indiani, che sono prevalentemente ostili, si distinguono pochi (Toby e Manok) dagli intenti pacifici. Al contrario la collettività bianca anela la pace (dal presidente in giù), salvo Johnny (che di professione fa il cacciatore di indiani) e giusto qualche altro, come Bill (Roberth Keith) che per una sua vendetta privata scatenerà la guerra definitiva. Va detto che Johnny è il protagonista, e quindi non si tratta di un personaggio come gli altri. 

Il personaggio principale del film di Daves, ovvero quello che focalizza il punto di vista generale dell’opera, avrebbe in indole una risoluzione alla questione indiana basata sulla forza; non è razzista, sia chiaro, visto il rapporto con Toby e altri, ma se serve uccidere gli indiani ostili non se ne farebbe un problema. L’incarico del presidente Grant, che come abbiamo visto è assai idealizzato anche figurativamente, è quindi una sorta di missione etica, una sorta di coscienza morale di cui l’eroe si deve far carico, anche andando contro la propria pragmatica natura. Certo, sterminando tutti gli indiani ostili (come di fatto avvenne), si risolverà la questione indiana nel modo americano di intendere il risolvere i problemi, ma una guida morale sana (quella appunto idealizzata da Daves) ci dice che non si può e non si deve ricorrere alla violenza per ottenere la pace. Questi due blocchi contrapposti e speculari (indiani ostili con pochi pacifici vs bianchi pacifisti con pochi bellicosi) si intersecano con le figure di Toby, la giovane indiana, e Johnny, l’eroe bianco valoroso. Johnny, tempo addietro, salvò la vita di Toby, che ora ne è sinceramente innamorata: Daves prepara quindi la sua storia sentimentale, lasciando intendere che si potrebbe suggellare la pace tra i due popoli con una simbolica unione tra i due personaggi principali. 


Ripensando a Stella del Mattino del citato L’amante indiana si può notare la maturità dello sguardo del regista in Rullo di tamburi rispetto al precedente film in questione. Là Stella del Mattino sposava l’eroico protagonista bianco (nientemeno che James Stewart nei panni di Tom Jefford) e la sua successiva morte, se precludeva simbolicamente ogni futuro alla cultura indiana, ne sanciva il valore di messaggio di pace. Un messaggio di pace simbolico ma frutto della concreta convivenza, consumata tra le mura domestiche di Tom e Stella del Mattino. E’ qui che Rullo di tamburi si discosta: Toby, poverina, viene rifiutata da Johnny, che le preferisce Nancy (Adrey Dalton) ragazza di buona famiglia nipote di un colonnello. Ma questo non le risparmia il ruolo sacrificale: Toby muore salvando la vita a Johnny e, sostanzialmente, garantisce il lieto fine della storia. 


Che non la vede però per niente protagonista: il suo sacrificio, che rappresenta il sacrificio dei nativi americani, permette ai bianchi (Johnny e Nancy) una vita serena. E’ lei, Toby, il vero perno della vicenda: Capitan Jack è una specie di rivoluzionario che, per la verità, ha anche delle validissime ragioni ma che, in fin della fiera, viene trattato da quel terrorista che risulta nell’ottica americana. Daves, autore sempre attento all’aspetto sentimentale e romantico delle sue opere, comprende che non è la traccia politica, quella più importante nella conquista del west. Si è trattato di una guerra di occupazione che, come tutte le guerre, ha visto affermarsi il criterio di forza più che quello di giustizia. Ma non è certo una novità e, considerata la natura dell’animo umano, si ripeterà ancora nella Storia. Quello che si è perso, con la conquista del west, è la possibilità di condivisione, di congiunzione, di crescita, che il trovarsi al cospetto di una civiltà completamente diversa, offriva. Il vero rimpianto, per la conquista del west, è dei bianchi, e non degli indiani. Lo sprezzante ma per nulla preoccupato atteggiamento di Capitan Jack davanti alla forca, al di là di una certa spavalderia di ruolo, è supportato dalla consapevolezza di non avere concrete alternative. Chissà se il ricordo della mano di Toby tesa verso Johnny, colma di amore, gratitudine, sacrificio, ma già rifiutata, lascerà altrettanto sereno l’eroe della storia.     


Audrey Dalton




Marisa Pavan