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martedì 21 agosto 2018

LA RESA DEI CONTI

196_LA RESA DEI CONTI  Italia, Spagna 1966;  Regia di Sergio Sollima.

Primo western di Sergio Sollima, La resa dei conti dà modo al regista romano di mostrare subito un’ottima padronanza del tema e, soprattutto, di avere qualcosa di personale da dire nel merito di una categoria particolarmente in fermento negli anni ’60. Sergio Leone ha già impresso la svolta italiana al genere, quella che, per via dell’eccezionale qualità dell’opera, si meriterà una definizione specifica, gli spaghetti-western; Sollima è lesto a coglierne le caratteristiche salienti, introducendo però alcune novità. Rispetto alla trilogia del dollaro di Leone, in pratica è come se Sollima rinunciasse al protagonista principale, Clint Eastwood, che in definitiva, pur se con i dovuti distinguo, interpretava comunque la parte del buono tipica del western. Per il suo La resa dei conti eleva poi l’attore Lee Van Cleef a personaggio principale, cogliendo lo spunto offerto dal secondo film della trilogia leoniana, dove l’attore americano era il colonnello Douglas Mortimer, un cacciatore di taglie e non il classico cattivo che aveva invece praticamente sempre interpretato nei western classici, a partire dal suo esordio in Mezzogiorno di fuoco. Il rimando al film di Leone, per il personaggio di Jonathan Corbett di La resa dei conti, è legato sia al ruolo di cacciatore di uomini che ai particolari della rinuncia alle taglie e alla motivazione dell’inseguimento del rivale messicano: c’è di mezzo sempre una ragazza stuprata e uccisa, nel film di Leone era la sorella di Mortimer, in La resa dei conti è solo una giovinetta al quale Corbett vuole rendere giustizia. 
Sollima ridefinisce così il ruolo di Van Cleef a protagonista principale del western; per capire l’aria che tira, si consideri che quello che nei western classici era il cattivo, in questi western dal sapore più realistico (almeno in apparenza) diventa un personaggio se non positivo, almeno di riferimento. In effetti Corbett, non può definirsi buono, visto che gli manca quel physique du role che invece Clint Eastwood aveva, riuscendo ad essere, in modo naturale, sia nuovo modello di eroe che anti-eroe
Ma un lavoro più personale, Sollima lo compie sul personaggio messicano, che nei film della trilogia che sancisce la nascita degli spaghetti-western era sempre brutto, sporco e cattivo. Se, sulla questione igienica, anche Sollima deve fare le sue concessioni, visto che il western all’italiana è sporco per definizione (e per contrasto alla pulizia del western classico), sugli altri due aspetti cambia completamente le carte in tavola. Innanzitutto il suo messicano, Manuel Chucillo Sanchez non è affatto brutto ma ha anzi il bell’aspetto di Tomàs Miliàn; (certo molto più gradevole dei messicani leoniani, dal Gian Maria Volontè trasandato a Eli Wallace e persino di quel Chucillo già personaggio di Per qualche dollaro in più, dove ad interpretarlo era Aldo Sambrell).

E, sebbene la prospettiva iniziale ce lo presenti come un criminale (e in ogni caso ladro e un po’ farabutto Chucillo lo è) la storia da’ modo al messicano di mettere in mostra aspetti positivi del carattere che superano di gran lunga quelli negativi, oltre che alle giustificazioni politico sociali che lo hanno indotto sulla cattiva strada. Quest’ultimo aspetto di La resa dei conti è universalmente riconosciuto come lo sguardo politico e attento alle tematiche sociali di Sergio Sollima, in questo senso autore di spicco, per originalità e portata del proprio contributo, al filone degli spaghetti. Tornando al lavoro più prettamente cinematografico, se Leone aveva tolto l’eroe classico dal cinema western, per sostituirlo con un anti-eroe e dare così, nel complesso, un’ottica più crepuscolare al genere, Sollima elimina quindi anche l’anti-eroe dall’aspetto affascinante, lasciando la ribalta ai presunti cattivi: Van Cleef è il cattivo del cinema classico, il ‘messicano’ Milian sembra poter incarnare già il cattivo per antonomasia degli spaghetti western. Ma entrambi vengono rivalutati nel corso del film, per cui, se il quadro generale rimane fosco, non è certo colpa loro ma dei personaggi come Brokston, politicante che rappresenta appunto il mondo politico e istituzionale corrotto. Al netto di queste impostazioni di base, la storia è divertente e ben condotta, e si lascia seguire come un valido film di intrattenimento.

Sollima rivela peraltro una solida mano narrativa, attenta ai dettagli e allo sviluppo complessivo dell’intreccio raccontato. Ed è anche un narratore divertito nel fare il suo lavoro, ad esempio, quando vuol lasciare la posizione di Chucillo ancora equivoca. Il messicano è sì ricercato per stupro e uccisione di una ragazzina, ma è presto evidente che gode della luce favorevole del regista; in ogni caso ad un certo punto si apparta per prendere l’acqua ad un fiume con una giovinetta appartenente ad una carovana di mormoni di cui si è improvvisato guida. Visto l’accusa che pende sul suo capo, la situazione sembra un’ulteriore conferma della sua colpevolezza. Il tono della scena è però stranamente leggero, con Chucillo che si getta nelle acque del fiume ed invita a fare altrettanto la giovine con frasi tipo “vieni a vedere i pesciolini” oppure “vieni, qui si tocca”, plausibili nel contesto ma chiaramente interpretabili come adescamenti simpaticamente volgari. Lo sviluppo della storia spiegherà poi anche a livello narrativo il passaggio, non essendo il messicano colpevole del reato in questione.


Insomma, il film può essere visto come un piacevole divertimento, anche se già i titoli di testa fortemente stilizzati, lasciano intendere la volontà, da parte dell’autore, di utilizzare gli scenari e l’ambientazione western in modo simbolico: la rappresentazione orchestrata da Sollima, con le rivendicazioni finali di Chucillo, può quindi essere un fedele specchio della situazione dei disadattati della società contemporanea e segna un nuovo passaggio nella storia del genere.
La politica militante, intesa come lotta sociale, ha fatto il suo ingresso nel west. 


domenica 19 agosto 2018

ERODE IL GRANDE

195_ERODE IL GRANDE  Italia, Francia 1958;  Regia di Victor Turzanskij e Arnaldo Genoino.

Sebbene sia in genere passato un po’ inosservato, Erode il grande è un peplum che merita di essere rivalutato. Certo, forse manca il nome di grandissimo richiamo, ma si tratta di un film pienamente funzionale, la cui riuscita non nasce certo dal caso, ma dalla collaborazione di nomi illustri e di solido valore cinematografico. Alla regia troviamo Viktor Tourjansky e Arnaldo Genoino, il primo un esule russo e il secondo un autore di basso profilo ma, al netto di chi dei due abbia lasciato maggiormente la propria impronta su questo lavoro, va riconosciuta a questa pellicola una forza scenica, una potenza tragica, nella figura del personaggio protagonista, Erode, che sui nostri schermi si è vista raramente. A proposito di Erode, il re dei giudei è interpretato da Edmun Purdom, in modo particolarmente efficace e spicca su un cast con elementi di tutto rispetto: Sylvia Lopez è la regina Maryam, Sandra Milo è Sara, Alberto Lupo è Aronne e Massimo Girotti è Ottaviano. Ma è nei dettagli tecnici che forse si nascondono i segreti della riuscita del film: alla sceneggiatura lavorano, oltre allo stesso regista russo, Damiano Damiani, Federico Zardi e Fernando Cerchio, la fotografia di Massimo Dallamano è resa in modo vivace dal Totalscope con colori Eastmancolor, valide le musiche e così il doppiaggio. Il film racconta, in modo ovviamente romanzato alla bisogna, un momento cruciale nella vita di Erode, il re dei giudei ai tempi della venuta di Gesù Cristo.

Un riferimento al nazareno è subito chiaro in apertura, quando vediamo due condannati lasciati morire in croce dallo spietato monarca; se questo passaggio serve subito a richiamare alla mente la figura del messia, a cui è abitualmente legata la conoscenza di Erode, ha anche lo scopo di inquadrare la discutibile personalità del re. Egli è certamente mostrato come un despota inviso al suo popolo ma, almeno per quanto riguarda il protagonista del nostro film, la sua personalità è sfaccettata e, almeno un minimo, intrigante. 

Il racconto ci accompagna con avvincente trasporto nella parabola che, non senza qualche squarcio di umanità, lo trasformerà nel mostro pazzo di odio qual è poi restato nella Storia, soprattutto per l’infame ordine di eliminare tutti i neonati, mostrato in un altro passaggio che fa riferimento alle note vicende riportate dai testi sacri. Gli autori ritraggono perciò un dittatore dalla personalità tridimensionale, capace di amare con sincera passione la moglie Maryam, salvo poi lasciarsi andare ad egoismi meschini e crudeli senza quasi rendersi conto della loro gravità. Purdom interpreta con la giusta teatralità la parte, aiutato dal doppiaggio in tema di Emilio Cigoli; una prestazione enfatica, che si intreccia al tono melodrammatico di cui è intrisa la storia. E, in fin dei conti, nonostante il ruolo di cattivo conclamato, l’Erode di questo film è davvero un grande, e rende lustro al cinema italiano come raramente si è visto fare a Cinecittà.





Sandra Milo




Sylvia Lopez







venerdì 17 agosto 2018

LA FORMA DELL'ACQUA - THE SHAPE OF WATER

194_LA FORMA DELL'ACQUA- THE SHAPE OF WATER (The shape of water). Stati Uniti 2017;  Regia di Guillermo del Toro.

“Mentre guardavo la creatura nuotare sotto Julie Adams, pensai: «spero che finiscano insieme»”.
Eccola, dunque, l’idea alla base di La forma dell’acqua – The shape of water di Guillermo del Toro. Semplicemente che la ragazza rapita dalla creatura, non abbia paura a prescindere nel vederne l’aspetto mostruoso ma, come dovrebbe essere quasi logico, provi attrazione per qualcosa di diverso da sé. La creatura a cui fanno riferimento le parole di Guillermo del Toro, il regista di La forma dell’acqua, è ovviamente la protagonista de Il mostro della Laguna Nera, piccolo capolavoro horror fantascientifico di quel sublime maestro che era Jack Arnold, e che del Toro vide quando aveva sei anni. E’ quindi questo il punto nevralgico del film, la storia d’amore tra la bella e la bestia, e per tutto il resto il regista pesca nel suo immaginario per riempire, proprio come si fa con l’acqua nei più disparati recipienti, il suo film. La scena finale con l’abbraccio subacqueo ricorda e ribalta quello in Splash - Una sirena a Manhattan (1984, di Ron Howad), ma le immagini fluttuanti rimandano anche alla pittura, ad esempio ad Ophelia (1890) di Paul Steck, la condizione della protagonista femminile, Elisa (Sally Hawkins) somiglia a quella del personaggio principale di Il favoloso mondo di Amélie (2001, di Jeanne -Pierre Jeunet).

E poi ci sono i semplici riferimenti, da quelli solo accennati come per La Fabbrica di cioccolato (con il quale il film di del Toro condivide il gusto eccessivo), a quelli più espliciti, come i musical alla TV con Berry Grable, Shirley Temple, Alice Faye, Carmen Miranda (che sul piccolo schermo crearono un mondo sgargiante e svincolato dalla realtà in modo apparentemente simile agli universi che crea il regista messicano), al cinema sotto casa di Elisa, che proietta sempre La storia di Ruth (che racconta della stirpe divina che discenderà dalla donna, e il divino è il tema dell’opera di del Toro) e Mardi Gras che ci rimanda al carnevale di New Orleans, un altro universo di eccessi, colori, musica, vita. 
Insomma, qualunque spunto è buono per del Toro per completare il suo puzzle, composto da elementi anche fortemente eterogenei tra loro, come ad esempio le ambientazioni anni 60 e quelle più moderne della sede dell’agenzia pubblicitaria dove si reca il vicino di casa di Elisa, Giles (Richard Jenkins), ma in generale si tratta di una vera alluvione delle più disparate citazioni. Il regista immerge poi il tutto in una dominante verde acqua, anzi, no, turchese e, una volta creato un mondo autosufficiente, (coerente nella sua incoerenza, quanto è incoerente l’acqua che assume la forma in base al recipiente che la contiene) può inserire i riferimenti più interessanti, quelli alla realtà, senza risultare pedante. 
Il mostro non è più soltanto buono, cosa che era già intuibile (e in effetti lo stesso regista bambino l’aveva intuito) dal film di Arnold. Il mostro, il diverso, è piuttosto divino. La creatura è adorata come un dio dagli indigeni dell’Amazzonia e rivela poi davvero poteri soprannaturali (i capelli di Giles che ricrescono, le ferite che guariscono). E’ così totalmente smentito il cattivone della storia, il colonnello Strikland (Michael Shannon), che riferendosi a Zelda (Ottavia Spencer) le aveva fatto notare che se dio era fatto a immagine somiglianza dell’uomo, non avrebbe assomigliato certo a lei che era donna e per giunta di colore. 
Perché i protagonisti secondari, dopo la creatura, sono anch’essi diversi: Elisa è muta, Giles è gay, Zelda è di colore. Ma tutti e tre nel film hanno il loro momento di gloria, la capacità di superare i propri limiti, la propria natura, che rivela appunto la loro indole soprannaturale e quindi divina: se è facile cogliere la parabola alla Cenerentola nella storia tra Elisa e il suo principe, la sguattera che perde la scarpetta e trova l’amore (e in sogno arriva addirittura a cantare, proprio lei che è muta), anche Giles, sempre timoroso, si cimenta in una scena di pura azione virile, alla James Bond, e Zelda, che parla sempre, nel momento critico è capace di starsene zitta.
Non dobbiamo perciò avere nulla da temere da simili personaggi; non è il diverso, il mostro, che deve metterci paura, anche se nel laboratorio è torturato e tenuto alla catena. E quelli di cui dobbiamo aver veramente paura, non sono tanto gli Strikland, i poliziotti col manganello, ma anche e soprattutto i baristi che inorridiscono per l’avance di un gay.
Il punto non è se la creatura sia davvero divina, o addirittura sia un Dio o se Dio esista; e nemmeno se Dio sia o meno un diverso.
Dio è il diverso.




Sally Hawkins


mercoledì 15 agosto 2018

PASSAGGIO DI NOTTE

193_PASSAGGIO DI NOTTE (Night passage). Stati Uniti 1957;  Regia di James Neilson.

Passaggio di notte pur essendo un buon western, non è certo tra le vette del genere; può però tornare più che altro un utile come strumento di comparazione per comprendere l’importanza che un regista di classe possa avere nella completa riuscita di un film. Night passage è infatti diretto da James Neilson, regista, più che altro televisivo, non certo memorabile, al contrario del resto dello staff all’opera in questa produzione che è sorprendentemente di notevole livello. Innanzitutto il sontuoso cast: l’attore principale è James Stewart, in una parte per lui ormai quasi naturale; il suo principale partner, Audrey Murphy, è calato anch’esso in un ruolo calzante, così come Dan Dureya, la bella Elaine Stewart, e i caratteristi Jack Elam e Jay C. Flippen; e c’è perfino Brandon De Wilde, ancora ragazzino, come visto nel precedente Shane - Il cavaliere della valle solitaria. E poi ci sono i collaboratori tecnici, dallo sceneggiatore Borden Chase (Il fiume rosso, Winchester ‘73, Terra Lontana e La dove scende il fiume tra gli altri), al direttore della fotografia William H. Daniels (tantissimi celebri titoli, tra cui Ninotchka e Mata Hari, ma anche western dai paesaggi spettacolari come i già citati Winchester ‘73, e Terra Lontana) senza dimenticare le musiche (fondamentali nel western) di Dimitri Tiomkin (anche per lui una lista impressionante tra cui ricordiamo Mezzogiorno di fuoco e Un dollaro d’onore). 

E’ quindi strano che un simile stuolo di fuoriclasse sia poi messo sotto la direzione di un onesto (e niente più) autore come James Neilson: anche perché il risultato finale non è esaltante, proprio come fosse mancato il detonatore per innescare il potenziale che la produzione aveva messo a disposizione per questo Passaggio di notte. Curioso che alla Universal abbiano sottovalutato questo aspetto; forse è vero che Jimmy Stewart provò a convincere Anthony Mann a dirigere il film, come citato anche nel Castoro dedicato a quest’ultimo. [Anthony Mann di Alberto Morsiani. Il Castoro Cinema; La nuova Italia 1986]. 

In qual caso, un simile parterre du roi avrebbe avuto un senso maggiore: da un lato sarebbe stato motivo di convincimento per il formidabile regista (anche in considerazione delle precedenti felici collaborazioni con, Stewart, Chase e Daniels) dall’altro sarebbe stato poi valorizzato dall’opera dello stesso autore. 

Perché in sostanza è questo che rimane maggiormente di Passaggio di notte, ovvero l’idea che si tratti di un’occasione persa, oppure, cercando di coglierne almeno un aspetto positivo in senso lato, la conferma della suprema importanza della qualità autoriale del regista, senza la quale anche tutte le altre componenti ne escono svilite. Chissà, forse aveva ragione Mann a ritenere concluso ed esaurito il suo rapporto con James Stewart e Borden Chase ma, egoisticamente (parlando da spettatore) qualche rimpianto, vedendo Passaggio di notte, certamente rimane.  






Elaine Stewart


Dianne Foster


lunedì 13 agosto 2018

L'ULTIMO APACHE

192_L'ULTIMO APACHE (Apache). Stati Uniti 1954;  Regia di Robert Aldrich.

Fa sempre un certo effetto considerare che L’ultimo Apache di Robert Aldrich sia un film del 1954. Spesso si leggono ancora commenti che attribuiscono al western revisionista (quello a cavallo tra gli anni 60 e 70) la rivalutazione delle ragioni delle indiani, quando invece già il genere nella sua forma classica negli anni 50, aveva avuto tantissimi esempi di questo tipo. In questo senso l’ottica del film di Aldrich è incredibilmente moderna, perché va a porre sotto l’obiettivo della macchina da presa un guerriero della tribù degli Apache, che erano certamente tra i più bellicosi tra i pellerossa. Se in molti casi non si può sapere se la convivenza tra bianchi e indiani fosse possibile (quello che si sa è che non fu nemmeno provata), si può obiettivamente dire che con gli Apache, che vivevano di scorrerie, era praticamente impossibile. Tra tutte le tribù di indiani, insomma, quella degli Apache è la meno idonea nell’ottica di ipotizzare un diverso corso degli avvenimenti storici, per immaginare cioè una pacifica convivenza tra bianchi e nativi fianco a fianco. L’idea alla base del soggetto (tratto dal romanzo Bronco Apache di Paul I. Wellman) è quindi quasi provocatoria: in sostanza quello che si evidenzia è che neppure un apache preferirebbe morire piuttosto di adeguare il proprio modo di vivere, ma sarebbe necessario dargli la possibilità di farlo. E se nel romanzo, Massai (interpretato nel film da un granitico Burt Lancaster) muore, colpito allo spalle dallo scout apache Hondo (nel film Charles Bronson), la produzione hollywoodiana smorzò questo tragico finale con un happy ending che per altro cambia poco la sostanza delle cose. Il film non può certamente essere inteso come un documentario e, piuttosto, a fronte delle disastrose condizioni di vita dei pellerossa ai tempi di uscita del film nelle sale, il lieto fine evidenzia in modo eclatante cosa sarebbe potuto succedere se, ai tempi della conquista del west, la politica di colonizzazione dell’ovest fosse stata diversa. 

Detto quindi della modernità del punto di vista sulla vicenda storica (da non prendere alla lettera, naturalmente, ma solo come spunto di riflessione), il film rivela altri aspetti che alimentano questa caratteristica; ad esempio una certa aderenza alla realtà nel mostrare gli aspetti culturali dei nativi. Se gli Apache sono mostrati in buona sostanza nelle loro caratteristiche di nomadi dediti alla caccia, alla guerra, alle scorrerie, i Cherokee, che nel film consigliano a Massai di convertirsi all’agricoltura, erano effettivamente una tribù civilizzata, proprio come mostrato nel lungometraggio. Insomma, anche da questi dettagli si capisce l’attenzione che Aldrich e i suoi collaboratori profusero nell’opera, cercando di rendere un quadro generale di stampo progressista, ma in un’ottica che non travisasse in modo fazioso la Storia. Al netto di questi lodevolissimi aspetti, il film è anche (e soprattutto) un solido western, che la superba e calda fotografia di Ernst Laszlo contribuisce a rendere perfettamente classico

Come del resto un ottimo contributo lo dà la mano in regia di Aldrich, agile, snella, dinamica, ma mai frenetica; o l’imponenza di Lancaster, che è il solito trattore umano capace di reggere il film anche da solo, sebbene la presenza di Bronson o di John McIntire siano certamente un vantaggio. E che dire di quella di Jean Peters, certamente troppo hollywoodiana per interpretare la parte di Nalinle, la squaw apache di Massai, ma in questo senso si può considerare una felice e condivisibile licenza poetica.



Jean Peters